Le Olimpiadi di Parigi appena concluse confermano un posizionamento dell’Italia all’interno del G7 delle potenze sportive. Se si considera la classifica rispetto al totale delle medaglie (oro, argento, bronzo) – adottando il criterio in uso negli Stati Uniti e in altri paesi – l’Italia si posiziona al settimo posto, dopo la Gran Bretagna. Seconda tra i paesi dell’Unione europea, dopo la Francia (paese ospitante) e sopra Germania e Paesi Bassi (con rispettivamente 7 e 6 medaglie in più). Tutto questo non prendendo in considerazione i quarti posti (di cui l’Italia ha fatto ampia incetta).
Se ci si limita alla sola classifica degli ori entriamo comunque nella top ten (più precisamente al nono posto), sugli stessi livelli della Germania (12 medaglie). In Europa ci superano solo Francia e Paesi Bassi. Insomma il bilancio italiano ai Giochi olimpici di Parigi può dirsi senz’altro positivo.
L’oro dell’Europa unita
I dati del medagliere confermano anche che l’Unione europea, se si potessero sommare le medaglie dei paesi membri, supererebbe nettamente Stati Uniti e Cina. In realtà la somma andrebbe fatta con molta cautela perché se l’Ue si fosse presentata come un unico paese avrebbe avuto una sola delegazione di atleti, composta da un numero molto inferiore rispetto alla somma delle delegazioni dei paesi membri. Questo dal punto di vista quantitativo, ma sul versante qualitativo l’impatto atteso è verosimilmente meno penalizzante. Verrebbero, infatti, comunque selezionati i migliori atleti dell’Unione tra quelli che ciascun paese può mettere a disposizione in ciascuna disciplina, con conseguente ridotto impatto sul totale degli ori.
L’Unione europea nello sport è quindi una realtà di prima grandezza. Lo sport insegna che se l’Unione europea fosse davvero unita e riuscisse a valorizzare e integrare i giovani, in tutti i campi, riuscirebbe a compensare l’indebolimento quantitativo demografico e mantenere una posizione di primo piano nei processi di sviluppo nei prossimi decenni di questo secolo.
Anche il caso dell’Italia conferma l’importanza di compensare il processo di degiovanimento, che ci affligge in modo particolare, investendo sulla qualità delle nuove generazioni e sull’integrazione.
L’oro della qualità delle nuove generazioni
In Italia la presenza quantitativa dei giovani ha toccato i valori più alti tra la fine del XX e l’entrata nel XXI secolo, dopodiché la consistenza delle nuove generazioni è andata progressivamente ad erodersi per effetto della persistente denatalità. Negli ultimi trent’anni abbiamo perso circa un terzo della popolazione tre i 18 e i 34 anni (quasi 5 milioni in valore assoluto). Un processo che se lasciato incontrastato trascina verso il basso tutto ciò che nella società e nell’economia dipende dall’energia e dalle intelligenze delle nuove generazioni. Nelle stesso arco temporale si osserva una tendenziale riduzione anche del numero di primi posti alle Olimpiadi. Dopo essere scesi dai 13 di Atlanta agli 8 di Rio de Janeiro si nota però una inversione di tendenza degli ori nelle ultime due edizioni. Un’inversione favorita dal fatto che la presenza di atleti con genitori nati all’estero da occasionale (ricordiamo in particolare l’oro di Josefa Idem a Sydney nel 2000, ottenuto dopo essere passata da cittadinanza tedesca a italiana) sia diventata sistemica. Senza la presenza di tale componente molto difficilmente avremmo ottenuto l’oro sui cento metri e sulla staffetta 4×100 nel 2021 a Tokio e l’oro della pallavolo femminile e del doppio femminile di tennis nell’Olimpiade appena conclusa a Parigi.
Tre leve fondamentali
Questo suggerisce, andando oltre la questione sportiva, che la riduzione quantitativa delle nuove generazioni non porta necessariamente a una perdita di competitività del Paese, a patto però che si intervenga su tre leve: 1) si investa sulle doti di ciascun giovane cercando di far emergere i suoi talenti e di metterlo nelle condizioni di dare il meglio di sé; 2) si valorizzi il contributo che possono dare i giovani con background migratorio sempre più presenti nel popolazione italiana; 3) si eviti che la riduzione delle nuove generazioni si accentui ancor di più (altrimenti lo svantaggio competitivo con gli altri paesi con cui ci confrontiamo diventerebbe via via sempre meno recuperabile anche agendo sui punti 1 e 2)