Da quando è cominciata l’emergenza del coronavirus, sono cresciute la fiducia nella scienza e l’attenzione ai dati. La voce degli esperti ha conquistato la scena nel dibattito pubblico e i numeri che essi forniscono sono diventati le coordinate essenziali comuni per capire la gravità della situazione, aiutandoci ad evitare sia la sottovalutazione sia l’allarmismo.
Del resto, l’entrata nella modernità è avvenuta proprio attraverso la raccolta organizzata di dati utili a capire la realtà per migliorarla. Tra i primi dati ci sono i decessi che molti comuni nel Medioevo, soprattutto dopo la peste del Trecento, hanno cominciato a registrare giornalmente. Uno dei principali scopi era proprio avere un indicatore di inizio d’epidemia e un’approssimazione della sua gravità. Dati che ci consentono oggi di farci un’idea dell’impatto devastante che nel passato avevano vaiolo, colera, tifo e, soprattutto, la peste.
Oggi fortunatamente non abbiamo più tale spada di Damocle permanente sulla testa, anzi, la liberazione dal terribile flagello delle grandi epidemie è stato il primo segnale concreto di entrata nel mondo in cui oggi viviamo. Ma tutto ciò che abbiamo guadagnato in salute e condizioni di vita va salvaguardato e rafforzato continuamente, perché nulla è scontato. È il primo messaggio che do ai miei studenti nel corso di Demografia all’Università Cattolica: il vivere meglio e più a lungo di oggi rispetto alle condizioni tipiche che l’umanità ha sempre avuto in tutta la sua storia non è la conseguenza di una transizione a un nuovo equilibrio raggiunto in modo irreversibile. È, piuttosto, l’esito di un impegno a migliorare continuamente, tenendo sotto controllo i vecchi rischi e affrontando con successo i nuovi. Solo così potremmo godere anche delle nuove opportunità.