L’Italia ha attraversato nel secondo dopoguerra diverse fasi di crescita. Fino all’inizio degli anni Settanta, il Belpaese ha sperimentato un periodo di sviluppo sostenuto da un rapporto virtuoso tra demografia, economia, spinta alla mobilità sociale. E’ poi entrata in una fase di crollo della natalità, di bassa crescita e alto debito pubblico, di inasprimento delle diseguaglianze, ma trovando sostegno su una solida presenza di popolazione nell’asse portante della vita attiva.
Quella in cui ora stiamo entrando è una nuova fase in cui il processo di invecchiamento andrà sempre più ad accentuarsi, ma nel contempo le classi centrali lavorative tenderanno a indebolirsi come mai in passato. Il report “Un buco nero nella forza lavoro” appena pubblicato dal Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo pone, in particolare, l’attenzione su tre ordini di dati che evidenziano la necessità di reinterpretare e reimpostare il nostro percorso di sviluppo nel resto di questo secolo.
Il primo è strettamente demografico. Il nucleo centrale della forza lavoro (ovvero l’asse portante dei processi di produzione di ricchezza e benessere) è la fascia dai 40 ai 44 anni. E’ qui che occupazione e produttività sono più elevate. Attualmente conta 4,4 milioni di persone, le quali verranno però sostituite nei prossimi dieci anni dagli attuali 30-34enni, che sono ben un milione in meno. Si tratta di una delle riduzioni più drastiche tra le economie avanzate. Il secondo ordine di dati riguarda i percorsi formativi e professionali di chi si sta spostando al centro della vita attiva del Paese. Gli attuali 30-34enni italiani presentano livelli tra i più bassi di laureati e più alti di NEET in Europa. Il loro tasso di occupazione è inoltre sensibilmente più basso rispetto a quello che avevano dieci anni fa gli attuali 40-44enni (67,9% contro 74,8%). Il rischio è quindi di indebolire il pilastro produttivo del paese per una concorrenza al ribasso non solo della presenza demografica ma anche della partecipazione effettiva al mercato del lavoro.
Infine, la terza preoccupazione deriva dalla percezione che tale generazione stessa ha della propria condizione presente e proiettata nel futuro. Oltre un trentenne su tre teme di trovarsi senza lavoro quando avrà 45 anni. Spiccata è però anche la differenza per titolo di studio, il valore risulta tre volte più alto per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo rispetto ai laureati.
Crescita competitiva dell’Italia (combinando tradizione e innovazione nei suoi settori più strategici) e inclusione solida delle nuove generazioni nelle aziende e nelle organizzazioni, vanno considerate due facce della stessa medaglia. Senza un piano che consenta agli attuali giovani-adulti di diventare, in modo pieno, parte attiva e qualificata dei processi di crescita del paese, non solo mancherà l’energia propulsiva nei prossimi dieci anni ma andranno ad accentuarsi squilibri tali da compromettere in modo insanabile il percorso dell’Italia per tutto il resto di questo secolo.
E’ una realtà che è stata messa in evidenza molto bene.
Barnaba