La sortita del deputato M5S Massimo Baroni, membro della Commissione Affari Sociali della Camera, su come l’impatto del reddito di cittadinanza può favorire la ripresa delle nascite in Italia, rivela due cose. La prima è il riconoscimento che la persistente bassa natalità è un problema perché produce squilibri che indeboliscono crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare pubblico. La seconda è che esiste molta confusione sulle azioni di policy utili per rispondere in modo efficace a tale problema.
Va precisato che gli squilibri demografici prodotti dalla denatalità passata sono oramai un dato di fatto e possono essere in parte ridotti solo dall’immigrazione, gestita nel modo migliore. Non è, infatti, possibile recuperare oggi le nascite mancate dieci, venti, trent’anni fa. Per evitare, però, che gli squilibri si allarghino ulteriormente è necessario fermare da subito la riduzione della natalità e ridare forza alle componenti di vitalità del Paese.
I freni maggiori alla realizzazione del desiderio di avere un figlio sono da ricondurre a due nodi: quello tra lavoro e autonomia dei giovani e quello tra lavoro e impegni familiari sul versante femminile (ma non solo). Non è un caso che l’Italia presenti una delle combinazioni peggiori in Europa di bassa occupazione giovanile, bassa partecipazione femminile al mercato, bassa fecondità.
Il primo nodo porta ad una continua posticipazione della creazione di una relazione stabile di coppia e della nascita del primo figlio. Ciò che rafforza la formazione delle nuove generazioni, l’inserimento attivo nel mercato del lavoro e la valorizzazione all’interno del sistema produttivo, consente ai giovani di mettere basi solide ai progetti di vita. I limiti su tutti questi punti ha portato all’abnorme crescita dei cosiddetti NEET, gli under 30 che non studiano e non lavorano.
Quello che ai giovani italiani manca è la possibilità di passare dal sostegno passivo da parte dei genitori a un investimento pubblico in strumenti di attivazione e abilitazione che consenta ad essi di diventare parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo del paese. E’ la trasformazione dei giovani da condizione passiva ad attiva a fare la differenza, non tanto il passaggio dal carico sui genitori all’assistenza dello stato. Il reddito di cittadinanza può aiutare a difendersi dalle difficoltà attuali ma non è in grado, da solo, di dar maggior solidità alla progettazione del futuro.
Il secondo nodo frena, invece, la progressione oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare impegno esterno lavorativo e interno alla famiglia, difficilmente si rilancia con la nascita di un secondo. Nei paesi sviluppati con una fecondità superiore alla nostra non troviamo un numero desiderato di figli più basso nelle donne italiane, ma una maggior copertura e accesso dei servizi per l’infanzia e più collaborazione domestica dei padri. Anche nel confronto tra regioni italiane si osserva che dove più efficienti sono gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, chi ha lavoro sceglie maggiormente di avere un figlio e chi ha un figlio maggiormente si offre nel mercato del lavoro. Più che in altri paesi le donne italiane si trovano, quindi, schiacciate in difesa, indotte a vedere al ribasso il numero di figli anziché allineare al rialzo l’occupazione femminile.
Più in generale, le misure a favore della famiglia possono rientrare in tre categorie: quelle relative al tempo (come i congedi di maternità e paternità e la flessibilità di orario di lavoro), quelle che riguardano i servizi (per l’accudimento dei figli ma anche dei congiunti anziani non autosufficienti), quelle che agiscono sul sostegno economico (aiuti monetari e sgravi fiscali). Quest’ultima categoria tende ad avere un impatto sulla riduzione del rischio di povertà di chi ha figli, non tanto a favorire la scelta di un ulteriore figlio. Le prime due categorie, invece, consentono di favorire la scelta di avere un figlio in più per chi ha un lavoro, ma aiutano anche a contenere il rischio di povertà per chi ha figli (in modo non assistenzialistico, grazie alla conciliazione positiva con il lavoro).
E’ oggi ancor più urgente rafforzare le politiche in questa direzione, perché la denatalità passata sta oggi riducendo il numero delle potenziali madri. La Germania, investendo negli ultimi dieci anni soprattutto sui servizi per le famiglie, ha mostrato che si può ottenere un sensibile aumento delle nascite anche durante la crisi economica e in entità tale da più che compensare l’effetto negativo della diminuzione delle donne al centro dell’età riproduttiva.
E’ possibile ottenere risultati di successo anche in Italia? Rispetto alla Germania, misure di policy adeguate possono trovare maggior terreno fertile nel contesto post crisi e con i nostri livelli più elevati di figli desiderati. Ma prima di tutto servono idee chiare sulle scelte politiche presenti e un vero progetto paese che dia solidità al futuro dei nostri figli.