Qualsiasi sia stato il percorso passato, qualsiasi siano le difficoltà del presente, il futuro è sempre aperto e mai scontato. Non è solo un fatto demografico, corrispondente all’arrivo di nuove generazioni che prendono progressivamente il posto delle precedenti, ma soprattutto culturale, ovvero di nuovo valore che il diverso sguardo e le diverse sensibilità di chi arriva deve poter essere in grado di portare.
E’ una sfida ben rappresentata in un passo de “Le città invisibili” di Italo Calvino: “La popolazione di Melania si rinnova: i dialoganti muoiono a uno a uno e intanto nascono quelli che prenderanno posto a loro volta nel dialogo, chi in una parte chi nell’altra. Quando qualcuno cambia di parte o abbandona la piazza per sempre o vi fa il suo primo ingresso, si producono cambiamenti a catena, finché tutte le parti non sono distribuite di nuovo”.
Sono i meccanismi di questa redistribuzione delle parti che contano per lo sviluppo competitivo e sostenibile di un paese, vale a dire il modo attraverso cui i nuovi entranti nella società e nel mondo del lavoro sono messi nelle condizioni di dare il meglio di sé nei processi di produzione di nuova ricchezza e nuovo benessere. E’ in questa prospettiva che va considerata anche una adeguata distribuzione delle risorse pubbliche e la promozione delle pari opportunità.
L’Italia finora c’è riuscita poco. Lo testimoniano i dati dell’ultimo Rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile) che mostrano sia un inasprimento delle diseguaglianze nella distribuzione del benessere, sia un indebolimento delle componenti che possono produrre nuovo benessere. L’auspicio è, allora, quello di ricordare in futuro tale Rapporto come il punto più basso di un paese che poi – anche grazie alla spunta dei finanziamenti di Next Generation Eu – è riuscito ad avviare una fase nuova di sviluppo. Ma ciò dipenderà più dalle scelte collettive che faremo che dalle risorse in sé. Non si tratta solo di evitare la tentazione di limitarsi al “recovery” (ovvero al ripristino di ciò che c’era) ed investire davvero sul nuovo, ma anche di consentire alle nuove generazioni di poter inserire le proprie istanze e sensibilità nelle riflessioni e decisioni di quello che vogliamo diventare nel resto di questo secolo.
Il nuovo segretario del Partito democratico, Enrico Letta, qualche mese prima dell’impatto della pandemia, aveva rilanciato la proposta di estendere il voto ai diciasettenni e sedicenni, per dare un segnale che “li prendiamo sul serio e che esiste un problema di sottorappresentazione delle loro idee”.
Si tratta di una proposta che non ha alcun costo economico ma possiede un alto valore, non solo simbolico. L’argomento principale contrario è che a tale età non si è ancora abbastanza maturi per poter partecipare ad una consultazione politica. Ma a mio avviso prevalgono gli argomenti a favore che provo a sintetizzare nei seguenti cinque punti.
Il primo è quello demografico. La persistente denatalità italiana sta producendo un processo di “degiovanimento”, particolarmente accentuato nel nostro paese. La conseguenza è una inedita e consistente perdita di peso, non solo demografico ma anche elettorale, delle nuove generazioni. Limitando il confronto alle dinamiche del primo tratto di questo secolo, i dati Istat evidenziano come ancora al censimento del 2001 i giovani di età tra i 18 e i 34 anni fossero sensibilmente di più rispetto alla popolazione di 65 anni e oltre (rispettivamente 13,4 milioni circa contro 10,7 milioni). I dati più recenti, aggiornati dopo il censimento continuo, mostrano un rapporto invertito, con i giovani scesi a 10,5 milioni circa e i senior saliti oltre 13,8 milioni. I diciasettenni sono meno di 600 mila e altrettanto sono i sedicenni. Una loro aggiunta porterebbe la fascia più giovane a 11,7 milioni. Quindi anche abbassando l’età al voto, il peso elettorale degli under 35 rimarrebbe comunque inferiore di oltre 2 milioni rispetto agli over 65. La proposta consentirebbe, quindi, di ridurre solo marginalmente un divario che in ogni caso è destinato ancor più a crescere nei prossimi anni e decenni. Ma non farlo lascerebbe agli squilibri demografici di decidere per noi che i giovani contano poco.