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Il successo di Expo e i limiti degli economisti

Il successo di Expo possiamo paragonarlo alla conquista italiana del K2 nel 1954. Anche quella fu un’impresa attorno alla quale si sollevarono perplessità e polemiche. L’Italia viveva un difficile contesto economico con ampie fasce della popolazione in condizione di povertà e flussi crescenti di emigrazione verso l’estero. Molti si chiesero se davvero valeva la pena investire risorse ed energie in una operazione simile. L’organizzazione e la realizzazione della spedizione furono poi caratterizzate da personalismi, conflitti, scelte discutibili, persino verità nascoste. Eppure rappresentò una grande iniezione di fiducia per un paese che voleva dimostrare prima di tutto a se stesso, dopo sconfitte ed umiliazioni, di essere in grado di compiere grandi imprese. Fu anche un’operazione di immagine verso il resto del mondo, volta ad indicare che l’Italia quando si pone degli obiettivi ambiziosi ha tutti i numeri per realizzarli.

L’impegno a rendere più rosa il futuro

Nel corso dell’ultimo anno si è consolidata una narrazione positiva di Milano. E’ diventato comune nei convegni e nei dibattiti sentir parlare orgogliosamente di città delle opportunità e di metropoli che sa anticipare il futuro. Si può correre però il rischio di confondere la città che vorremmo con quella che attualmente abbiamo. E’ bene essere ottimisti, ma è bene anche mantenere i piedi saldamente a terra. Se guardiamo al resto d’Italia e alla capitale possiamo essere soddisfatti dei rischi che abbiamo evitato più che delle opportunità colte. Osservando i processi di cambiamento e sviluppo in Europa non proviamo la frustrazione di chi si vede ai margini, ma nemmeno possiamo illuderci di essere considerati al centro. Abbiamo però imboccato la strada giusta e abbiamo un largo potenziale ancora inespresso. Se non abbiamo ancora raggiunto le aree del continente che più corrono è soprattutto perché stiamo sottoutilizzando due principali componenti che, dove adeguatamente messe in campo, dimostrano di poter fare la differenza. Si tratta dei giovani e delle donne. Se Milano vuole davvero diventare una città delle opportunità e dimostrare di essere in grado di anticipare il futuro, è soprattutto sulle giovani donne che si misureranno i risultati ottenuti. Di fatto significa saper coniugare la crescita delle opportunità con quella delle pari opportunità.

E’ tempo di mettere l’esperienza al servizio dell’innovazione

Non sarà un’impresa facile la guida di Milano nei prossimi cinque anni. Pisapia stesso deve guardarsi dalla sindrome di Lippi, che ritiratosi da ct dopo il successo della nazionale ai mondiali del 2006 si lasciò convincere a tornare sui suoi passi, con esito disastroso. In molti hanno il timore che la Milano di questi ultimi anni somigli alla nazionale che seppe conquistare la coppa del Mondo in Germania: più che l’inizio di una nuova stagione fu solo una felice parantesi. Nei due mondiali successi siamo infatti usciti miseramente al primo turno. Giuliano Pisapia può fare moltissimo a fianco del prossimo sindaco. Si tratterebbe di un segnale culturale di grande rilevanza per un paese come l’Italia che oscilla tra i due estremi della rottamazione e del blocco generazionale. In una società che funziona come dovrebbe, le generazioni cooperano per il comune bene, che in questo caso è la crescita economica e sociale della città. Una collaborazione tanto più  importante per una metropoli in grande trasformazione come Milano.

I diritti del futuro da rimettere al centro

Il divario tra un’Italia che resiste alla crisi e una che è stata lasciata scivolare sempre più ai margini è diventato sempre più visibile negli ultimi anni. Si sono estese le periferie del disagio, non solo urbane ma anche quelle rappresentate da alcune rilevanti componenti sociali che hanno perso progressivamente centralità all’interno dei processi decisionali e di sviluppo nel paese. Più che la recessione, a tener ampio tale divario è il fatto che negli ultimi decenni si è favorito chi aveva vecchie posizioni da difendere rispetto a chi ne aveva nuove da raggiungere; chi godeva di benessere accumulato in passato invece di chi poteva produrre nuovo benessere; i detentori dei  privilegi dell’oggi anziché i cercatori di opportunità di domani. E quando il futuro diventa periferico sono immancabilmente le nuove generazioni a perderci.

Le nuove generazioni: un capitale su cui investiamo troppo poco

C’è un dubbio che dobbiamo sciogliere una volta per tutte e poi non discuterne più ma solo agire con coerenza e determinazione: i giovani italiani valgono veramente? Le nuove generazioni allevate nel nostro paese sono portatrici di energie ed intelligenze utili per far crescere l’Italia e farla tornare competitiva nel mondo? Se crediamo di no, allora prendiamo atto che siamo senza futuro e attrezziamoci per rendere più dolce possibile il declino. Se invece la risposta è positiva, non basta dirlo a parole, dobbiamo anche realizzare azioni concrete per far sì che quelle energie ed intelligenze diano la migliore espressione di sé. Per farlo dobbiamo intervenire sia sulla componente culturale che su quella strutturale. Riguardo al primo aspetto è necessario consolidare, ad ogni livello sociale, la convinzione che questo paese crede nei propri giovani e li considera la risorsa più preziosa su cui investire per produrre sviluppo e benessere. Aiutare i giovani ad adottare l’approccio giusto avendo attorno a sé un clima di fiducia e di stimolo continuo alla buona formazione e all’intraprendenza è una precondizione. E’ come preparare bene il terreno rendendolo fertile, ma bisogna però poi seminare, coltivare e dimostrare di essere in grado di ottenere buoni frutti. Per far questo servono misure concrete che incidono sugli aspetti strutturali, con riforme mirate e con investimenti adeguati. E’ qui che la politica viene messa alla prova e deve dimostrare quanto crede davvero nel valore sociale e produttivo delle nuove generazioni.