Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Denatalità. Agire subito per evitare il crollo

Ci sono tre aspetti preoccupanti della demografia italiana. Il primo è dato dalle dinamiche particolarmente negative della natalità e dagli effetti distorcenti che produce sulla struttura per età. Il secondo dall’incapacità di mettere in atto politiche efficaci per dare risposta a tali dinamiche. Il terzo è l’essere entrati in una fase in cui il non agire con misure adeguate e incisive non lascia l’Italia solo in posizione più debole rispetto al resto d’Europa, ma la espone maggiormente ad un inasprimento continuo degli squilibri. Va precisato che la causa della distorsione della struttura per età non è l’invecchiamento in senso proprio, ovvero la longevità. In questo l’Italia non si distingue dalle altre economie mature avanzate. La distorsione è dovuta alla persistente bassa natalità che produce il processo di degiovanimento, ovvero la riduzione continua della consistenza delle nuove generazioni. Come conseguenza di tale processo l’Italia sta subendo un crollo del tutto inedito e maggiore rispetto alle altre economie mature avanzate della fascia giovane-adulta. La combinazione tra bassa fecondità e riduzione della popolazione nell’età in cui si forma una famiglia, rischia di portare ad una sorta di reazione a catena generazionale: meno genitori e via via ancor meno figli e genitori futuri.

Dalla demografia un dividendo per India e Africa

La demografia è una delle grandi forze di cambiamento del nostro tempo. Il suo ruolo è stato a lungo sottovalutato perché nel passato la popolazione tendeva a crescere molto lentamente e a mantenere una struttura stabile. Per gran parte della storia dell’umanità il funzionamento della società e dell’economia ha potuto contare su una larga base di giovani e relativamente pochi anziani. Del tutto nuova è, invece, la sfida di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui le nuove generazioni diventano una risorsa scarsa a fronte di un continuo aumento della componente più matura.

Come evitare un’Europa senza nascite

Una delle conquiste maggiori della storia dell’umanità è il passaggio da un mondo in cui la morte prematura di un figlio era una condizione del tutto normale a uno nel quale questo è un evento raro. Dove questo passaggio è già di fatto compiuto, come in Europa, è sufficiente una fecondità totale (numero medio di figli per donna) attorno a due per mantenere un equilibrio tra generazioni (soglia di rimpiazzo). Posizionarsi al di sotto di tale soglia porta le generazioni dei figli a ridursi progressivamente rispetto a quelle dei genitori. La conseguenza maggiore non è tanto il declino demografico quanto, soprattutto, un’alterazione nell’impianto strutturale della popolazione con il peso dei più anziani che diventa soverchiante sui più giovani.

Troppi squilibri tra generazioni, occorrono case servizi e lavoro

L’Italia è uno dei paesi da più lungo tempo in crisi demografica, ovvero in forte deficit rispetto alla capacità di garantire un ricambio generazionale equilibrato nella popolazione (e, conseguentemente, nei processi sociali e produttivi).

La fecondità italiana è precipitata da valori superiori a due figli in media per donna (soglia di rimpiazzo tra generazioni) a metà degli anni Settanta del secolo scorso, a meno di 1,5 figli prima della metà degli anni Ottanta. Non è poi più risalita sopra tale valore. Questo ha profondamente alterato la struttura per età, con un progressivo sbilanciamento negativo verso le età più giovani. Nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui la popolazione inferiore ai 15 anni è scesa sotto quella di chi ha 65 anni e oltre. Successivamente siamo diventati il paese con più bassa incidenza di under 35 in Europa, entrando quindi, in modo più accentuato delle altre economie mature avanzate, in una fase di inedita e marcata riduzione delle coorti entranti in età lavorativa (oltre che riproduttiva).

Queste dinamiche hanno portato all’esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone per l’Italia non è più far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciar aumentare gli squilibri interni tra generazioni. Il rischio maggiore è ora quello di superare il punto di non ritorno anche rispetto alla curva delle nascite.

Nelle “Considerazioni finali”, presentate il 31 maggio in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha indicato la crisi demografica come una delle maggiori debolezza di fondo del Paese. Ha, in particolare, indicato l’immigrazione come uno dei fattori principali per mitigare la riduzione della forza lavoro potenziale, conseguenza della persistente denatalità. Per quanto rilevante sia e possa continuare ad essere il contributo dei flussi migratori, se la natalità continua a diminuire tali ingressi saranno sempre più insufficienti a colmare gli squilibri strutturali crescenti nel rapporto tra popolazione anziana e in età lavorativa. Se, da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, senza solide politiche familiari e generazionali a trovarsi ancor più in difficoltà nei propri progetti di vita saranno ancor più i figli degli immigrati e le famiglie straniere.

Non è possibile, quindi, affrontare la sfida demografica pensando solo di gestire gli squilibri, spostando in avanti l’età pensionabile e aumentando l’immigrazione, è cruciale intervenire in modo concomitante sulle cause.

I dati, del resto, sono eloquenti. Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario mediano delle più recenti previsioni Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario alto delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione.

Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario, insomma, convergere verso i paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due.

Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. Intervenire in questa direzione in modo sistemico non favorisce solo la vitalità del territorio ma porta anche a migliorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni da realizzare dopo l’impatto ulteriormente depressivo della pandemia.

E’ però bene essere consapevoli che non esistono misure in grado di essere da sole trasformative, vanno disegnate e implementate in modo da produrre un effetto leva in modo integrato. Il sostegno economico fornisce senz’altro il riscontro più immediato del valore collettivo dato alla scelta di avere figli. Ma perché a tale spinta si agganci un processo di inversione di tendenza che continui nel medio-lungo periodo serve un forte investimento sulle misure di conciliazione. L’asse portate è un solido sistema di servizi per l’infanzia con offerta accessibile – in termini di copertura, costi e qualità adeguata – sul tutto il territorio. La cultura della conciliazione deve, poi, essere aiutata a svilupparsi e consolidarsi nelle aziende (comprese le piccole e medie, aiutandole a trovare soluzioni specifiche in termini di part-time e smart working) e sul versante maschile (promuovendo i congedi obbligatori di paternità). Va, inoltre, rafforzato il percorso di autonomia dei giovani, con adeguate politiche abitative e di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Siamo, del resto, il paese in Europa con età più tardiva al primo figlio.

Su tutti questi fronti continuiamo, da troppo tempo, ad essere molto più deboli rispetto alle altre economie avanzate con le quali ci confrontiamo, con conseguenti squilibri che vincolano al ribasso sviluppo e benessere futuro.

Clima: i giovani sono protagonisti

I giovani ci sono e ci credono. Sono sempre di meno ma vogliono contare di più. Non sono facili da trovare dove ci si aspetta che siano, ma mostrano una grande voglia di protagonismo negli ambiti in cui sentono di poter fare la differenza a modo loro.

Vogliono soprattutto esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la loro spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

La questione ambientale, in particolare, è posta dai giovani come priorità. E’ diventata parte dell’identità generazionale per l’urgenza con la quale è posta e le modalità sperimentate per portarla al centro dell’attenzione pubblica. Se esistono elementi di discontinuità rispetto a come il cambiamento climatico è stato considerato e gestito dalle generazioni precedenti questo non significa che venga considerato un tema di conflitto generazionale. Va anche considerato che l’universo dei giovani è composto da diverse galassie, non da un gruppo monolitico e monopensiero, e al suo interno le posizioni sono articolate, frutto di un pensiero critico complesso ove si riflettono, verosimilmente, esperienze di vita, considerazioni personali, familiari e sociali. Anche rispetto alla radicalità delle azioni da intraprendere, le posizioni sono diverse.

I dati dell’indagine realizzata da Ipsos per l’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e in collaborazione con il Corriere della Sera, evidenziano in modo chiaro come l’attenzione alla questione riguardi certamente in modo distintivo i giovani, ma imponga un impegno traversale e condiviso. Richiede che tutti si rimettano in discussione: nei comportamenti personali, nell’azione pubblica e nel modello di sviluppo.

Ecco allora che oltre il 60% dei rispondenti auspica che la questione sia gestita insieme da tutte le generazioni, in un costante dialogo e confronto. Riguardo, poi, alla responsabilità del raggiungimento e consolidamento dello sviluppo sostenibile le risposte dei giovani si suddividono in tre blocchi pressoché equivalenti: per circa un terzo degli intervistati lo sviluppo sostenibile dipende dalle scelte quotidiane dei singoli cittadini, per un terzo dalle aziende, per un terzo, infine, dalla politica. Chiedono, implicitamente, un’alleanza – o almeno una sinergia – tra istituzioni, imprese e cittadini per un traguardo comune.

Proprio lo sviluppo sostenibile è forse la sfida che consente (e costringe) maggiormente ad adottare una prospettiva che anticipa il futuro desiderato per mettere in discussione quanto si è fatto sinora e impegnando le scelte del presente. Se l’azione delle nuove generazioni è portata a scardinare rendite e finte sicurezze del passato, rispetto alle scelte responsabili del presente che migliorano il futuro i giovani non vogliono sentirsi soli. C’è il riconoscimento che non esistono soluzioni semplici. Va ripensato assieme il modello sociale e di crescita. Ma non è semplice nemmeno cambiare i propri comportamenti. Su questo c’è anche una disponibilità all’autocritica. Più del 40% afferma che in teoria vorrebbe vivere in maniera sostenibile ma che non lo fa “perché non è pratico”. Oltre uno su tre non privilegia la praticità ma non si sente pienamente coerente con l’impegno quotidiano verso la sostenibilità. C’è un miglioramento nel passaggio dagli adolescenti (fascia 14-17) ai giovani (18-22 anni). Qui sono oltre uno su cinque coloro che adottano una posizione di impegno in prima persona anche nelle proprie azioni private. Questo risulta ancor più forte tra le ragazze, che si spendono anche maggiormente in un ruolo di stimolo a comportamenti sostenibili all’interno della famiglia.

Assieme alla necessità di andare oltre quello che le nuove generazioni da sole possono fare, nell’azione individuale e collettiva, c’è anche il riconoscimento dell’importanza di aver solidi punti di riferimento e orientamento. E’, allora, interessante osservare come i pari e i social network siano considerati fonti importanti di informazione e influenza, ma siano preceduti da scienziati ed esperti. Anche i genitori hanno un ruolo importante (soprattutto per gli adolescenti), molto meno, invece, gli influencer. In breve: riferimento a contenuti autorevoli (esperti), possibilità di confronto orizzontale (amici e social network), riscontro in termini di importanza e con soggetti di fiducia (i genitori) sono i principali motori che alimentano conoscenza, consapevolezza, coinvolgimento sui temi ambientali e della sostenibilità.

Per gli adolescenti una fonte importante sono anche gli insegnanti: poco più del 66% dei partecipanti alla ricerca li ha indicati come in grado di influenzarli molto o abbastanza in merito a questi temi. Pare dunque che non solo adolescenti e giovani abbiano bene presenti i tre assi della sostenibilità alla base di Agenda 2030 –  ambientale, sociale ed economica – ma anche che gli adolescenti ripongano grande fiducia nella scuola in merito alla possibilità di educarsi a questi valori. E cosa chiedono alla scuola? Le idee anche qui sono molto chiare e mettono in luce il loro voler essere non “corpi sdraiati” ma “teste pensanti”. Alla scuola chiedono di promuovere in modo accessibile un pensiero complesso, capace di valorizzare la storia del passato ma anche di proiettarsi nel futuro: capire e aver solide radici per poter progettare. Chiedono una lettura interdisciplinare dei fenomeni: per comprendere  e agire nella complessità sono necessarie competenze e conoscenze multiple e integrate.  Chiedono di connettere globale con locale. E, infine, chiedono stimoli per sviluppare un pensiero critico.

Nella grande maggioranza c’è, in definitiva, il desiderio di veder crescere sia la propria capacità di impegno personale sia le condizioni collettive, sociali ed economiche, che favoriscono lo sviluppo sostenibile. Mettono al centro il proprio protagonismo positivo ma riconoscono le competenze agli adulti di cui si fidano e chiedono di costruire insieme sostenibilità integrale e bene comune.

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