Topic: popolazione, risorse e sviluppo

I confini mentali di un’Europa in cambiamento

I confini sono sempre delle convenzioni. Esistono, in senso statico, per il fatto che ne è riconosciuta la presenza in chi vive dall’una e dall’altra parte. In senso dinamico, trovano la loro ragion d’essere nella misura in cui il loro attraversamento produce una discontinuità riconoscibile tra ciò che valeva e si poteva fare prima e ciò che vale e si può fare dopo. I confini possono essere imposti unilateralmente, separando chi può star dentro e chi deve stare fuori. Ma possono anche essere autoimposti per vincolarsi entro uno spazio che garantisce benessere e sicurezza. Oltre i confini c’è l’ignoto o il diverso, ma ci può essere anche un nostro cambiamento subìto o colto come opportunità e sfida.

Quei morti di troppo nel 2015

Nei primi otto mesi del 2015 si sono registrati circa 45 mila decessi in più rispetto all’anno precedente. Un dato che ha suscitato molto scalpore sui mass media. Ma come dobbiamo interpretarlo?

Il conteggio continuativo del numero dei decessi, attraverso un apposito registro, inizia nelle città italiane del medioevo. L’esigenza, prima ancora che per questioni amministrative, nasce dalla necessità di identificare per tempo la possibile diffusione di una epidemia. Se il numero di morti giornalieri, settimanali, mensili, rimaneva pressoché costante, si poteva rimanere relativamente tranquilli. Se invece c’erano i segnali evidenti di una crescita era il caso di predisporre velocemente misure di profilassi e contenimento del contagio. La mortalità in passato era elevatissima anche nei periodi di “normalità” ma le epidemie ricorrenti potevano avere effetti devastanti sulla struttura demografica, sull’organizzazione sociale e sul sistema economico.

Spegnere la povertà educativa per illuminare il futuro

Difficile pensare ad un futuro migliore se si lascia che ampia parte delle nuove generazioni cresca in condizioni di deprivazione e di frustrazione. Un rischio particolarmente elevato in Italia come mostra l’Atlante dell’infanzia presentato la scorsa settimana da Save the Children.

La politica delle paure è la peggiore minaccia sul nostro futuro

Sono 800 mila i bambini stranieri che frequentano le scuole italiane. Erano meno del 2 percento della popolazione scolastica totale all’entrata in questo secolo e sono ora vicini al 10 percento. Oltre la metà di essi è nata in Italia ma tale dato è in forte crescita, tanto che gli alunni stranieri nativi sul suolo italiano sono quasi due su tre tra chi frequenta le elementari. “Stranieri” non di fatto ma per una legge che impone ad essi di non sentirsi e considerarsi cittadini nell’unico paese che conoscono e nel quale sono da sempre vissuti.  Si può forse discutere sul dare la cittadinanza al momento della nascita, ma è certamente importante riconoscere la non diversità di status nel momento in cui inizia il processo di socializzazione. Varie ricerche mostrano come il concetto di “straniero” – ovvero di diverso da chi vive qui – tra gli alunni delle prime classi delle elementari non sia legato alle origini dei genitori o al colore della pelle, ma solo alla lingua. La differenza tra bambini cittadini e coetanei esclusi da tale riconoscimento la apprendono da noi adulti; è una disuguaglianza che introduciamo noi nei loro occhi.