Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Quel dannoso pareggio (1-1) tra lavoratori e pensionati

Sappiamo una sola cosa certa del futuro, che è diverso dal presente. Per star meglio domani rispetto ad oggi è necessario allora operare in modo che tale diversità sia sostenibile e, possibilmente, si integri positivamente con i meccanismi che producono benessere collettivo. Dell’Italia del 2050 sappiamo che sarà strutturalmente diversa da quella di oggi, senz’altro con più popolazione nelle età considerate tradizionalmente anziane e meno persone in età lavorativa.

L’indicatore che misura il rapporto tra tali due categorie di popolazione è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si produce ricchezza a quello dell’età in cui si assorbono risorse pubbliche per spesa previdenziale e sanitaria. Quando, nei primi decenni del secondo dopoguerra, l’Italia cresceva in modo solido – al pari o più del resto del mondo sviluppato – il primo piatto aveva un peso cinque volte maggiore del secondo. Nel 2050 ci troveremo con un rapporto 4 a 3. Si tratta di uno dei valori più squilibrati in Europa, non tanto a causa dei livelli di longevità italiani, non molto diversi da quelli francesi o scandinavi, ma per la nostra persistente bassa natalità. L’impatto sull’economia e sulla sostenibilità della spesa sociale di tale squilibrio demografico è però accentuato dai criteri di accesso alla pensione e dal numero di effettivi lavoratori tra le persone in età attiva.

Se allora, come indica il recente rapporto Ocse “Working Better with Age”, si mette ha propriamente un lavoro sul primo piatto e nel secondo chi è inattivo o in pensione, il rapporto rischia di diventare di 1 a 1. Si andrebbe, così, a configurare uno degli scenari peggiori tra i Paesi membri dell’Unione europea. L’Italia, che già oggi cresce meno rispetto al resto delle economie avanzate e ha una spesa pubblica tra le più squilibrate a favore delle generazioni più anziane, si troverebbe ad inasprire le sue difficoltà. In questo scenario andrebbe ad indebolirsi la crescita competitiva del paese, con conseguente riduzione dei margini per contenere il debito pubblico, per finanziare formazione, ricerca e sviluppo, politiche familiari. Le disuguaglianze sociali diventerebbero ancora più acute, interagendo con quelle generazionali, di genere e territoriali. Aumenterebbero ulteriormente i già particolarmente elevati livelli di povertà delle famiglie monoreddito con figli minori. Con meno investimenti e opportunità per le nuove generazioni ci si può inoltre aspettare una intensificazione del flusso di uscita dei giovani più dinamici e qualificati verso l’estero. La crescita della popolazione anziana, in carenza di politiche di conciliazione e di servizi per i non autosufficienti, porterebbe inoltre ad accentuare il carico di cura sulle famiglie, comprimendo, in particolare, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

La conseguenza sarebbe, insomma, un ampliamento delle distanze dagli altri paesi avanzati, ma anche tra le varie aree e le diverse categorie sociali all’interno del nostro paese. Se negli ultimi trent’anni i livelli del debito pubblico, delle diseguaglianze sociali, della dipendenza passiva dei giovani dalla famiglia di origine, sono aumentati, l’allargamento degli squilibri demografici va nella direzione di renderli ancora meno sostenibili, rendendo l’Italia sempre più marginale nei processi di produzione di benessere nel resto di questo secolo.

Si tratta di un destino ineluttabile? La risposta è no, ma lo diventa implacabilmente se non cambiamo, ovvero se non ci mettiamo a fare nei prossimi trent’anni quello che nei trent’anni scorsi non siamo riusciti a fare, in un contesto che nel frattempo è peggiorato. Quello che serve per scongiurare lo scenario peggiore delineato dall’Ocse e che ci condannerebbe al declino infelice, è dar peso al piatto della componente di popolazione che produce ricchezza. In tale direzione va una redistribuzione delle risorse del Paese non assistenzialista o clientelare, ma a favore delle voci che al contempo consentono di ridurre le diseguaglianze e promuovere un contributo attivo e qualificato alla crescita. L’Italia presenta attualmente tra i più bassi tassi di occupazione giovanile e femminile in Europa, ancora più bassi nel Sud e nelle categorie sociali con basse risorse socioculturali. Questo significa che politiche efficaci rivolte a queste aree e a queste categorie sono quelle in grado di dare la maggior spinta al riequilibrio del paese. Da realizzare in coerenza con le sfide che l’innovazione tecnologica pone, con la necessità di mettere positivamente assieme scelte di vita e professionali, favorendo la collaborazione tra competenze, facendo in modo che le diversità (di età, genere, provenienza) portino valore aggiunto alla crescita comune anziché alimentare diseguaglianze corrosive. Se c’è una strada che porta verso un 2050 non peggiore (forse anche migliore) del presente, va senz’altro in questa direzione.

Il sistema si salva con politiche su immigrazione e natalità

Dal punto di vista demografico, ma non solo, possiamo dividere l’intero pianeta in “partes tres”. La prima parte fino alla metà del secolo scorso coincideva con l’intero mondo, ora raccoglie circa metà degli stati, ma è destinata a trovarsi praticamente vuota alla fine di questo secolo. E’ composta dai paesi con una fecondità superiore ai due figli in media per donna.

Così l’Italia è rimasta senza giovani

I cambiamenti mondiali

Via via che attraversiamo il XXI secolo, la questione demografica si sposta dall’eccesso di crescita del numero di abitanti del pianeta all’impatto pervasivo dell’invecchiamento della popolazione.

Nella seconda metà del secolo scorso, la popolazione mondiale è passata da 2,5 a 6,1 miliardi. Se lungo tutta la storia umana la nostra specie è cresciuta fino ad arrivare a 2,5 miliardi nel 1950, in solo mezzo secolo si è aggiunta una popolazione 1,4 volte più grande. Mai si era vista una crescita demografica così intensa in passato, ma verosimilmente non la si vedrà più nemmeno in futuro. Le più recenti proiezioni delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019) indicano una popolazione mondiale di 9,7 miliardi nel 2050. Significa che per ogni persona presente nel 2000, se ne aggiungerà un’altra mezza abbondante (0,6 circa) nel corso della prima metà del XXI secolo.

Perché il rilancio del Paese passa dalla famiglia

Un territorio che vuole crescere deve mettere in relazione positiva economia e demografia. Questo significa, prima di tutto, favorire la combinazione tra scelte professionali e scelte familiari in grado di realizzare le aspirazioni personali e di produrre ricadute virtuose per la produzione di benessere collettivo, inteso nella sua accezione più ampia. Oggi, ancor più che in passato, le politiche familiari non possono essere pensate in modo indipendente dalle politiche del lavoro: vanno assieme considerate le due facce delle politiche di sviluppo di un paese o di una regione. Proprio per questo la lettura congiunta dei cambiamenti che riguardano le famiglie e il mercato del lavoro, offerta dall’ultimo report dell’Istat, aiuta a capire in che direzione stiamo andando, con quali limiti e contraddizioni si scontra il nostro processo di crescita.

Una cultura della crescita per frenare il declino

La Torre di Pisa, uno dei simboli più caratteristici dell’Italia nel mondo, affascina perché è bella in modo diverso da tutti gli altri campanili. Posta su un terreno di argilla e sabbia ha cominciato a evidenziare una pendenza già dalla costruzione dei primi piani. Riscontrata l’anomalia strutturale ci si poteva rassegnare ad un fallimento disinvestendo sul proseguimento del progetto. A partire invece dal terzo piano si è deciso di proseguire con una curvatura opposta alla pendenza.

Il fascino di questo edificio sta anche nel fatto che ben si presta all’estero per rappresentare una certa inclinazione del genio italico, capace di immaginare soluzioni non convenzionali, ovvero di dare il meglio quando si trova su terreni non favorevoli, ovvero di resistere anche quando sembra sul punto di cadere. Seguendo questa suggestione, dovremmo oggi darci il compito di rendere la demografia la nostra Torre di Pisa del XXI secolo.

Stiamo entrando nella terza decade di questo secolo con l’evidenza di un accentuato squilibrio strutturale e dobbiamo decidere come proseguire. A fronte dell’aumento della popolazione anziana e di un eccessivo debito pubblico, per crescere è necessario rafforzare – come ha ricordato il Governatore Visco nella relazione annuale della Banca d’Italia – il pilastro della popolazione attiva. Tale asse portante risulta, invece, da un lato quantitativamente eroso dalla riduzione della popolazione che entra in età lavorativa, come conseguenza della persistente denatalità, d’altro lato anche qualitativamente indebolito, rispetto al resto d’Europa, dalla più bassa occupazione delle nuove generazioni e dalla più compressa partecipazione femminile.

Per ridar slancio alle possibilità di sviluppo del paese – agendo sulla curvatura opposta alla pendenza che da troppo tempo ha preso l’Italia – è necessario, a livello macro, mettere demografia ed economia in condizione di integrarsi positivamente. Perché ciò avvenga servono misure che consentano, a livello micro, una migliore possibilità di armonizzazione e revisione al rialzo delle scelte di vita in ambito familiare e professionale. Su questo fronte sono due i nodi principali da sciogliere con politiche incisive ed efficaci: quello tra lavoro e autonomia dei giovani e quello tra lavoro e impegni familiari sul versante femminile. Ciò che rafforza la preparazione solida delle nuove generazioni e il loro contributo qualificato all’interno del mondo produttivo, consente di superare ostacoli oggettivi e insicurezze rispetto al futuro, con conseguenze positive anche sulla costituzione di nuovi nuclei familiari e nello sviluppo di una lunga vita attiva. Allo stesso modo, nascite e occupazione femminile possono crescere assieme in presenza di adeguati strumenti e servizi di conciliazione. Questo significa anche che l’investimento nel rafforzamento continuo delle competenze (tecniche e trasversali), nel sostegno all’intraprendenza dei giovani e nell’integrazione tra lavoro e famiglia vanno considerate come parte centrale delle politiche per lo sviluppo del paese. Il baricentro va, infatti, posto sulla capacità di essere e fare delle persone, indipendentemente dalla provenienza sociale e lungo tutto il corso di vita. Attorno a questo va costruito un piano di innovazione tecnologica che consenta alle persone di fare ancor meglio e di più, in aggiunta, e non in sostituzione, alla parte più creativa del fattore umano. La costruzione della Torre di Pisa poteva contare sul meglio della combinazione tra conoscenze, formazione umanistica e capacità di innovazione tecnica del proprio tempo. Ma alla base serve, soprattutto, il giusto approccio e atteggiamento culturale. L’Italia degli squilibri può dare bellezza ai percorsi più virtuosi di crescita nel resto di questo secolo solo se si apre al mondo e torna ad avere fiducia nel proprio futuro.