Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Una cultura della crescita per frenare il declino

La Torre di Pisa, uno dei simboli più caratteristici dell’Italia nel mondo, affascina perché è bella in modo diverso da tutti gli altri campanili. Posta su un terreno di argilla e sabbia ha cominciato a evidenziare una pendenza già dalla costruzione dei primi piani. Riscontrata l’anomalia strutturale ci si poteva rassegnare ad un fallimento disinvestendo sul proseguimento del progetto. A partire invece dal terzo piano si è deciso di proseguire con una curvatura opposta alla pendenza.

Il fascino di questo edificio sta anche nel fatto che ben si presta all’estero per rappresentare una certa inclinazione del genio italico, capace di immaginare soluzioni non convenzionali, ovvero di dare il meglio quando si trova su terreni non favorevoli, ovvero di resistere anche quando sembra sul punto di cadere. Seguendo questa suggestione, dovremmo oggi darci il compito di rendere la demografia la nostra Torre di Pisa del XXI secolo.

Stiamo entrando nella terza decade di questo secolo con l’evidenza di un accentuato squilibrio strutturale e dobbiamo decidere come proseguire. A fronte dell’aumento della popolazione anziana e di un eccessivo debito pubblico, per crescere è necessario rafforzare – come ha ricordato il Governatore Visco nella relazione annuale della Banca d’Italia – il pilastro della popolazione attiva. Tale asse portante risulta, invece, da un lato quantitativamente eroso dalla riduzione della popolazione che entra in età lavorativa, come conseguenza della persistente denatalità, d’altro lato anche qualitativamente indebolito, rispetto al resto d’Europa, dalla più bassa occupazione delle nuove generazioni e dalla più compressa partecipazione femminile.

Per ridar slancio alle possibilità di sviluppo del paese – agendo sulla curvatura opposta alla pendenza che da troppo tempo ha preso l’Italia – è necessario, a livello macro, mettere demografia ed economia in condizione di integrarsi positivamente. Perché ciò avvenga servono misure che consentano, a livello micro, una migliore possibilità di armonizzazione e revisione al rialzo delle scelte di vita in ambito familiare e professionale. Su questo fronte sono due i nodi principali da sciogliere con politiche incisive ed efficaci: quello tra lavoro e autonomia dei giovani e quello tra lavoro e impegni familiari sul versante femminile. Ciò che rafforza la preparazione solida delle nuove generazioni e il loro contributo qualificato all’interno del mondo produttivo, consente di superare ostacoli oggettivi e insicurezze rispetto al futuro, con conseguenze positive anche sulla costituzione di nuovi nuclei familiari e nello sviluppo di una lunga vita attiva. Allo stesso modo, nascite e occupazione femminile possono crescere assieme in presenza di adeguati strumenti e servizi di conciliazione. Questo significa anche che l’investimento nel rafforzamento continuo delle competenze (tecniche e trasversali), nel sostegno all’intraprendenza dei giovani e nell’integrazione tra lavoro e famiglia vanno considerate come parte centrale delle politiche per lo sviluppo del paese. Il baricentro va, infatti, posto sulla capacità di essere e fare delle persone, indipendentemente dalla provenienza sociale e lungo tutto il corso di vita. Attorno a questo va costruito un piano di innovazione tecnologica che consenta alle persone di fare ancor meglio e di più, in aggiunta, e non in sostituzione, alla parte più creativa del fattore umano. La costruzione della Torre di Pisa poteva contare sul meglio della combinazione tra conoscenze, formazione umanistica e capacità di innovazione tecnica del proprio tempo. Ma alla base serve, soprattutto, il giusto approccio e atteggiamento culturale. L’Italia degli squilibri può dare bellezza ai percorsi più virtuosi di crescita nel resto di questo secolo solo se si apre al mondo e torna ad avere fiducia nel proprio futuro.

Le attese dell’Europa e i voti (e i volti) dei giovani

Un’Europa divisa e debole non aiuta a costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Questa è una consapevolezza ben presente nei giovani italiani. Del resto i dati demografici ci dicono che siamo nel secolo di maggior riduzione del peso di questo continente nel mondo. La popolazione europea sul totale del pianeta ha toccato il punto più elevato nel XX secolo rispetto a tutto il millennio precedente, salendo sopra il 25%. Ma già all’entrata di questo millennio si trovava scesa sotto il 15%, livello analogo a quello dei suoi secoli più bui. Si trova oggi sotto il 10 per cento, con in corso un processo di lenta riduzione conseguenza della persistente denatalità. L’Italia era il decimo Paese più popolato al mondo nel 1950 e ora non entra nei primi trenta. La Germania, il Paese più popoloso dell’Unione, è oggi al sedicesimo posto ed è prevista scendere al venticinquesimo verso la metà del secolo. Eppure l’Europa unita manterrebbe il maggior peso del mondo occidentale, superiore agli Stati Uniti, inferiore solo alla Cina e all’India.

Questi numeri è utile tenerli sempre ben presenti perché aiutano a mettere assieme i due elementi più forti che abbiamo a disposizione nel delineare il nostro futuro. Il primo è, appunto, la demografia che consente di anticipare in modo affidabile alcuni parametri rilevanti degli scenari a cui andiamo incontro. Il secondo, ancor più importante e informativo su quello che saremo a metà di questo secolo e nella sua seconda parte, è ciò che noi desideriamo collettivamente per il nostro futuro in coerenza con le grandi trasformazioni in atto. Quello che i giovani vorrebbero non è, allora, il fallimento del progetto europeo ma una sua piena evoluzione verso gli Stati Uniti d’Europa. Vorrebbero, ancor più, essere messi nella condizione di sentirsi e rendersi protagonisti di un vero rilancio di tale progetto. Il “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, tra i vari temi monitorati e analizzati in questi anni, ha rivolto una particolare attenzione all’atteggiamento dei giovani verso l’Europa. Ha messo in luce i limiti, le contraddizioni e le frustrazioni su come il progetto europeo è stato sinora inteso e interpretato. Ai giovani non piace l’Europa che pone come priorità i parametri finanziari e i vincoli burocratici. Non hanno trovato convincente il modo in cui è stata affrontata la crisi economica. Soprattutto non hanno ben percepito gli effetti di un’azione efficace dell’Unione Europea sul miglioramento delle condizioni delle nuove generazioni all’interno dei vari Paesi membri. Questo vale in particolare in Italia, dove continuiamo a registrare il record di under 35 che vorrebbero lavorare, ma che non riescono a trovare adeguato inserimento attivo nei processi di crescita del Paese.

La responsabilità maggiore viene attribuita, in varia misura, ai governi italiani che si sono succeduti negli ultimi vent’anni. I dati di un’indagine di approfondimento del Rapporto giovani condotta a febbraio di quest’anno, mostrano come la fiducia nell’attuale Governo italiano sia pari al 36,7% tra i giovani (età 18-30 anni), contro il 38,7% su tutto il campione intervistato (18-75 anni). È interessante notare, inoltre, come tra i giovani il dato sia più favorevole verso l’Unione Europea (44,3%) mentre risulti meno positivo tra la popolazione complessiva (33,2%). Ma la fiducia scende molto soprattutto tra i giovani con titolo di studio più basso e in condizioni economiche più svantaggiate, ovvero tra coloro che rischiano di rimanere ai margini dei grandi processi di cambiamento di questo secolo.

Questi dati suggeriscono, in particolare, che va spostato verso l’alto l’incontro tra domanda e offerta di Europa. I giovani chiedono un’Europa migliore, rinnovata e più lungimirante. Se nel XX secolo il progetto europeo è stato inteso soprattutto come vincolo a stare assieme per costruire un presente libero dalle divisioni e dai rischi di conflitto del passato, nel XXI deve trovare nuove ragioni, più orientate al futuro e alle opportunità da costruire con le nuove generazioni.

L’Europa unita può dare ricchezza ai processi di cambiamento che interessano tutto il pianeta, ma deve farlo con un suo ruolo distintivo. Sempre i dati del Rapporto giovani ci dicono che per i giovani italiani l’identità europea è soprattutto una combinazione di cultura, libertà e centralità data alla persona. Ma questi valori devono poter essere declinati in modo vincente nei confronti delle sfide che pone questo secolo, su come cambiano le forme di partecipazione democratica, sul governo dei flussi migratori, sulle nuove disuguaglianze, sull’impatto della rivoluzione digitale, sulla cura del pianeta e lo sviluppo sostenibile. Si tratta di temi che interessano, e in parte inquietano, fortemente le nuove generazioni e che devono trovare la giusta collocazione all’interno di un progetto solido e credibile che evolva verso gli Stati Uniti d’Europa. Questo è il dibattito di cui oggi abbiamo bisogno e questa è la prospettiva che dobbiamo incoraggiare con il voto del 26 maggio.

L’Africa del tesoro

Per tutta la storia dell’umanità la popolazione del pianeta è rimasta abbondantemente sotto il miliardo di abitanti. Tale soglia è stata superata con l’entrata nel XIX secolo. Ad inizio del XX siamo saliti oltre il miliardo e mezzo. Siamo poi entrati nel XXI superando i sei miliardi. Ad inizio del XXII potremmo trovarci sopra gli 11 miliardi.

Il tempo dei padri

Avere un figlio ti cambia la vita. Questo è senz’altro vero per le madri italiane, molto meno per i padri. La difficoltà della politica a rafforzare il congedo di paternità, la resistenza passiva dei datori di lavoro, la poca determinazione dei padri italiani a pretenderlo, sono una chiara conferma. Esiste qualche segnale dell’emergere di un nuovo ruolo paterno, all’interno però di un cambiamento ancora lento. Il recente caso del trentenne chef stellato Metullio, che lascia provvisoriamente da parte una brillante carriera per dedicare il suo tempo al figlio, si pone sulla punta di un iceberg che ha ancora un’enorme parte sommersa.

Alcune indicazioni interessanti dell’atteggiamento delle nuove generazioni sul rapporto tra lavoro e famiglia si possono trarre da un’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, condotta a gennaio su un campione rappresentativo di giovani tra i 20 e i 34 anni, fascia in cui rientra lo stesso Metullio.

I dati evidenziano come per le giovani donne italiane sia fortemente sentito il tema della conciliazione tra carriera e figli, per la carenza di servizi per l’infanzia ma anche per la scarsa collaborazione dei padri. La preoccupazione principale è quella di mantenere il lavoro e le laureate sono quelle che maggiormente riescono a gestire i due ruoli. Sul fronte maschile, sono soprattutto coloro che hanno un titolo di studio basso a intensificare l’attività lavorativa quando arrivo un figlio, per far fronte alle maggiori spese. Questo accade ancor di più se la madre non lavora o si trova a dover lasciare l’occupazione. La bassa occupazione femminile e i bassi redditi da lavoro di ampie fasce sociali costituiscono un freno sia per la natalità, sia per il tempo verso i figli da parte dei padri. Esiste però anche un aspetto culturale, messo in evidenza dai dati sui giovani che non hanno ancora figli e a cui è stato chiesto che cosa deciderebbero di fare nel caso diventassero genitori avendo un lavoro a tempo pieno. Le donne laureate si dividono quasi equamente tra chi diminuirebbe e chi manterrebbe l’impegno lavorativo, mostrando un forte interesse a combinare la realizzazione in entrambi gli ambiti di vita. Le donne con basso titolo di studio in quasi due casi su tre opterebbero invece per una riduzione sul fronte occupazione.

Dal lato maschile la situazione si ribalta, rendendo evidente anche come le scelte di conciliazione siano legate alle strategie di coppia, a loro volta dipendenti non solo da preferenze ma anche da mancanza di opportunità e vincoli presenti sul mercato del lavoro. In particolare il 29,5% dei laureati afferma che aumenterebbe l’impegno lavorativo per incrementare il reddito, contro il 34,6% di chi ha titolo di studio basso. I primi nel 50,1% dei casi manterrebbero lo stesso carico di lavoro e il 20,4% lo ridurrebbe “per dedicare più tempo alla famiglia”. I corrispondenti valori sono 48,5% e 16,9% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo.

In sintesi, il tempo paterno continua ad essere una risorsa scarsa per i bambini italiani. Per un cambiamento del ruolo dei padri è necessario che maturino nuovi modelli culturali, favoriti da esempi positivi come il caso dello chef stellato, ma serve anche che migliorino i redditi da lavoro delle fasce sociali medio-basse e che siano potenziati gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Si tratta di fattori che, nel loro insieme, agiscono positivamente sia sulla quantità delle nascite, particolarmente bassa in Italia, sia sull’occupazione femminile, sia sulla riduzione della povertà infantile, sia sull’equilibrio dei rapporti di genere, oltre che sulla qualità del rapporto tra padri e figli. Con conseguenze positive di lungo periodo sul benessere economico e relazionale della famiglia.

***

Recessione demografica

Se l’Italia economica è in recessione tecnica, l’Italia demografica è in recessione cronica. Il segno meno sulla popolazione italiana persiste dal 2015, come certificato dagli ultimi dati Istat. Abbiamo buone ragioni per temere di trovarci nell’anticamera di una lunga fase di declino destinata a caratterizzare il resto del secolo.

Non siamo i soli, ma siamo più soli degli altri. In un’Europa che vede diminuire il suo peso nel mondo, l’Italia mostra di anticipare e accentuare tale tendenza: nessun altro grande paese europeo si trova in sistematica diminuzione. La Spagna ha superato i 46 milioni di abitanti nel 2008, ha subito una frenata negli anni acuti della crisi, ma ha poi ripreso a salire avvicinandosi ai 47 milioni. Più solida la crescita della Germania che ha guadagnato oltre un milione e mezzo di residenti dal 2015. Simile la situazione del Regno Unito. A metà tra Germania e Spagna si colloca invece la Francia.

L’Italia, che era nella top 10 dei paesi più popolati al mondo a metà del secolo scorso, ora non è più nemmeno nella top 20 ed è destinata a scendere sempre più in basso nei prossimi decenni. Il nostro peso relativo sul pianeta è sceso sotto lo 0,8 percento. Cina e India assieme superano il 35 percento. E’ evidente, da questi numeri, come avere ruolo in un’Europa che ha un suo ruolo nel mondo sia l’unico modo per non diventare del tutto marginali.

I dati demografici ci dicono però che manteniamo il non invidiabile podio mondiale dei paesi con più intenso invecchiamento della popolazione. Anche su questo punto anticipiamo e accentuiamo le tendenze: nel continente più vecchio l’Italia è il paese con più alta percentuale di anziani. Nel mondo l’incidenza di chi ha 65 anni e oltre è sotto il 10 percento. Tra i grandi paesi europei Francia, Spagna e Regno Unito si mantengono ancora sotto il 20 percento. La Germania arriva a superare il 21 percento. I recenti dati Istat posizionano il nostro paese al 22,8 percento.

In un editoriale redazionale pubblicato su Neodemos, la rivista online dei demografi, l’Italia è ritratta come “un sottomarino che sembra aver perso la spinta per riemergere”, bloccato sul fondo da una “questione demografica” di cui c’è bassa consapevolezza e scarsa capacità di cura.

La popolazione è come un organismo che per crescere ha bisogno di essere alimentato. A sostenerla sono le nascite e gli arrivi dall’estero. L’immigrazione è stata rilevante negli anni precedenti la crisi, ma è scoraggiata dalla bassa crescita economica ed è disincentivata oggi dalle forze politicamente maggioritarie nel paese. In compenso non viene offerto nessun solido e convincente rafforzamento dell’altra fonte della crescita demografica, ovvero la natalità. Tant’è vero che il numero medio di figli per donna rimane inchiodato ai livelli più bassi in Europa. Nelle scelte di vita dei cittadini italiani la ripresa post crisi non si è (ancora) vista. La fecondità anziché diminuire dopo la lunga congiuntura negativa e poi risalire, sembra essersi solo riposizionata su livelli più bassi. Evidentemente non appare ancora così solido il miglioramento delle condizioni economiche dei giovani e delle famiglie, o non ancora ben ancorato a politiche credibili di sviluppo in grado di rilanciare la fiducia del paese verso il proprio futuro. Ecco allora che le nascite del 2018 risultano ridotte del 22 percento rispetto al dato del 2008.

Oltre ad aver reso deboli le entrate abbiamo nel contempo rafforzato le uscite. Il quadro di incertezza e basse prospettive non solo tiene bassa la fecondità ma incentiva anche la scelta di cercare migliori opportunità altrove. Le emigrazioni nel 2018 sono salite a 160 mila. Fatto che contribuisce ulteriormente a far diminuire la popolazione e aumentare il peso della componente anziana.

Più che il declino della popolazione preoccupa la struttura sempre più indebolita sul versante delle nuove generazioni, sia per i vincoli che pone allo sviluppo economico e alla sostenibilità sociale, sia perché denatalità ed espatri sono spie sensibili delle difficoltà a costruire un futuro solido per sé e per chi verrà dopo. Se rinunciamo a questo rimane solo la rassegnazione e l’assuefazione a questi e a peggiori dati.