Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Si è ristretta la famiglia italiana

I dati dell’Annuario statistico 2019, appena pubblicati dall’Istat, ci dicono che i nuclei familiari sono sempre più stretti – scesi a una media di 2,3 componenti – ma, soprattutto, che è ormai in corso il sorpasso delle famiglie unipersonali rispetto alle coppie con figli. La prima tipologia, in continuo aumento, ha raggiunto quota 33,0 percento del totale, mentre la seconda, in costante riduzione, è oggi al 33,2. Nel senso comune una famiglia è formata da persone in relazione orizzontale (di coppia), e/o verticale (legame genitori-figli). Ma nel linguaggio anagrafico rientra nelle tipologie familiari anche quella di chi vive solo. Questo significa che paradossalmente il numero massimo di famiglie in Italia lo si avrebbe se non ci fosse alcuna famiglia, ovvero se vivessimo tutti indipendentemente come single. Il sorpasso di quest’ultima tipologia rispetto a quella che prevede gli elementi base del nucelo familiare – ovvero la relazione orizzontale (‘coppia..’) assieme a quella verticale (‘…con figli’) – è un segnale che invita a riflettere.

E’ importante però distinguere tra cambiamenti di fondo, che riguardano tutti i paesi occidentali, e ciò che contraddistingue il nostro paese. In combinazione con questo, è utile anche distinguere tra trasformazioni legate a nuove modalità di intendere, formare e vivere le relazioni di coppia, comprese le scelte riproduttive, rispetto a ciò che vincola verso il basso scelte comunque desiderate nella costruzione dei propri progetti di vita.

Un primo grande processo di lungo periodo è quello della semplificazione delle strutture familiari. Se torniamo ai primi decenni della storia unitaria, era comune per un bambino alla nascita trovarsi in una famiglia che, oltre ai genitori, sotto lo stesso tetto comprendeva molti altri bambini, ma anche nonni e zii con un proprio nucelo o come membri aggregati. Nei primi decenni dell’Italia repubblicana era, invece, comune nascere in una famiglia che oltre ai genitori, comprendeva solo due o tre fratelli. E’ l’esito del processo di “nuclearizzazione”, che ha interessato tutti i paesi industrializzati.

Un secondo processo – avvenuto dagli anni Sessanta del secolo scorso ad oggi – ha riguardato, invece, l’aumento della varietà delle tipologie come conseguenza dell’estensione, riscontrabile soprattutto sui percorsi femminili, delle possibilità di scelta. Convivere senza essere sposate, essere in coppia senza volere figli, avere figli senza essere in coppia, vivere come single senza essere considerata una “zitella”, sono diventate condizioni comunemente accettate solo da poche generazioni. Quello che pero’ caratterizza il nostro paese è – all’interno del mondo che cambia – la carenza di strumenti di policy in grado di sostenere le scelte individualmente desiderate che hanno ricadute positive sullo sviluppo economico e sulla sostenibilità sociale. Promuovere le condizioni di autonomia e di lavoro dei giovani e delle donne – mettendoli non solo nelle condizioni di realizzare le scelte professionali ma anche di integrarle al rialzo con i progetti di vita e familiari – è la strada maestra per le società moderne avanzate che voglio continuare ad essere vitali. L’alternativa – attualmente lo scenario più plausibile per l’Italia – è trovarsi sempre più ad essere un paese che invecchia e che, oltre agli anziani soli e a chi è single per scelta, vincola nella condizione di famiglia unipersonale anche chi avrebbe desiderato formare una famiglia più ricca e articolata nella dimensione orizzontale e verticale.

Guardando al futuro, «benvenuti, bambini!»

Nelle società moderne avanzate una fecondità attorno ai due figli per donna consente alla popolazione un adeguato ricambio generazionale. Quasi tutti i Paesi occidentali sono però scesi sotto tale soglia, anche se si possono distinguere tre diverse categorie. La prima è quella dei Paesi in cui la fecondità si è mantenuta su livelli vicini a tale soglia. La seconda è quella di quelli scesi molto sotto, ma poi, con investimento solido in politiche efficaci, sono recentemente risaliti su valori vicini alla media europea. La terza è quella dei Paesi con fecondità molto bassa e che non presentano segnali di ripresa. Tra i grandi Paesi europei la Francia appartiene al primo gruppo, la Germania al secondo, l’Italia al terzo.

Nel 2018 le nascite nel nostro Paese hanno battuto il record negativo dell’anno precedente e nei primi sei mesi del 2019 il dato è ulteriormente peggiorato rispetto al 2018. Gli squilibri strutturali prodotti sono tali che nel nostro Paese il numero di nati è sceso sotto il numero di ottantenni.

Nel suo tradizionale Discorso alla città l’arcivescovo dedica parole molto forti e sentite alla crisi demografica (cfr. Benvenuto, futuro! primo capitolo «Benvenuti, bambini!», ndr). Le conseguenze negative sono preoccupanti «sia per il mondo del lavoro, sia per la sostenibilità dell’assistenza a malati e anziani, sia per il funzionamento complessivo della società». Il «Laboratorio futuro» dell’istituto Toniolo ha presentato recentemente una ricerca che evidenzia gli scenari a cui va incontro il Paese se non inverte la rotta. Un Paese con record di debito pubblico e con accentuato invecchiamento della popolazione se non investe in una solida e qualificata presenza delle nuove generazioni rischia il tracollo. Ma «ancora più inquietanti sono le radici culturali» del fenomeno. Quella che è entrata in crisi è l’idea di un futuro migliore che impegni le scelte personali e collettive del presente.

La scelta di avere figli è diventata sempre meno scontata nel mondo occidentale. Se in passato la condizione comune era quella di averne e la decisione si esercitava esplicitamente in riduzione, oggi la situazione si è ribaltata. La condizione comune è quella di non averne e la scelta viene esercitata in aggiunta. In particolare, in Italia il numero di donne con meno di due figli è salito da circa una su tre tra le nate negli anni Cinquanta a una su due per le nate a fine anni Settanta, rischia quindi di diventare una condizione maggioritaria nelle generazioni successive.

Nel nostro Paese, a parità di numero di figli desiderato, maggiore è la posticipazione continua che diventa poi spesso rinuncia, a causa di vari motivi intrecciati. Il primo è il fatto che un figlio in Italia è più considerato un costo privato dei genitori anziché un bene collettivo che rende più solido il futuro di tutta la società. Questo è intrecciato anche al secondo motivo, ovvero la cronica carenza di politiche pubbliche a sostegno delle famiglie con figli, sia in termini fiscali sia di servizi per l’infanzia. A sua volta intrecciato con il terzo motivo, ovvero con la sensazione di abbandono che hanno percepito i giovani italiani nel percorso di transizione alla vita adulta e le giovani famiglie durante la crisi economica. Non è un caso che i Paesi che vedono oggi un andamento più favorevole della natalità sono quelli che sono intervenuti con più forza, in termini di politiche familiari e di autonomia dei giovani, proprio durante la recessione. Dove questo non è avvenuto è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro che anziché stemperarsi dopo la crisi sembra essere sceso in profondità. Anche la Lombardia e anche Milano hanno subito questo effetto.

Il caso di Milano è particolarmente interessante perché la città si è posta in condizioni favorevoli su tre cruciali aspetti, in controtendenza rispetto al resto del Paese. Il primo è il clima di aspettative crescenti che si è creato, che consolida l’idea di potersi inserire in un processo di opportunità crescenti e dinamismo economico. Il secondo è quello dell’attrazione di giovani intraprendenti. Il terzo è l’occupazione femminile, quantomeno nella città, su livelli comparabili al resto d’Europa.

Perché però questi elementi favorevoli possano essere intesi come parti di un vero e proprio modello sociale e di sviluppo che metta le basi di un solido futuro, è necessario che i giovani, anche quelli che partono da condizioni più svantaggiate, trovino effettive opportunità di mobilità sociale e che i progetti professionali si possano integrare al rialzo con i progetti di vita. I dati sul tasso di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) che continua ad essere più alto rispetto alla media europea e sul tasso di fecondità, addirittura più basso rispetto alla media italiana, dicono che anche questa città ha bisogno di consolidare una propria prima spinta endogena prima di poter dire, con forza e convinzione, «Benvenuto, futuro!».

Demografia, benessere e città nel XXI secolo

Viviamo in un mondo in grande mutamento. Una delle trasformazioni principali è quella demografica, con inedite implicazioni sul piano sociale, economico e anche politico. Per lunga parte della storia dell’umanità nascite e popolazione giovanile sono state abbondanti, ma alto era anche il rischio di morte prematura. Ancora all’epoca del primo censimento dell’Unità d’Italia il numero medio di figli per donna era attorno a cinque, circa un nato su quattro non arrivava al primo compleanno e solo una stretta minoranza riusciva a compiere tutto il percorso della vita adulta fino ad arrivare in età anziana. Ma ovunque si fosse nati nel mondo la situazione non era molto diversa. A metà del XIX secolo il paese con più alta aspettativa di vita era la Svezia con un valore attorno ai 40 anni. Mentre il livello più basso di fecondità era quello della Francia, sopra i tre figli e mezzo. Tali due paesi avevano all’epoca appena iniziato la transizione demografica.

Gli occhiali giusti per vedere dove va il mondo

Per capire come il mondo sta cambiando e quali scenari ci attendono, dobbiamo indossare le lenti della demografia. Prima di tutto per la chiave di lettura che offre, mettendo al centro i meccanismi del rinnovo generazionale. In secondo luogo perché le grandi trasformazioni di questo tempo, che possiamo sintetizzare con quattro “i”, sono direttamente o indirettamente legate alle dinamiche demografiche: si tratta dell’invecchiamento della popolazione, dell’immigrazione, dell’innovazione tecnologica e dell’impatto ambientale.

Quei 140 mila bimbi in meno nell’Italia delle culle vuote

I nuovi dati Istat sulle nascite restituiscono il ritratto di un’Italia che si sta sempre più impoverendo dal basso, con la conseguenza di rendere strutturalmente sempre più fragile tutto il sistema paese. Se consideriamo il periodo seguito agli anni più acuti della crisi, ovvero dal 2013 al 2017, le nascite nel complesso dell’Unione europea sono rimaste poco sopra ai 5 milioni. Tra i grandi paesi europei la Germania ha ottenuto un aumento di circa il 15%, mentre Francia e Regno Unito hanno subito una moderata flessione, ma partendo da valori elevati. L’Italia è il paese con il crollo maggiore, superiore al 10%. Risulta quindi lo stato membro che più sta contribuendo in modo assoluto a trascinare verso il basso la natalità europea.

Nel 2018 i dati non sono certo migliorati: rispetto al 2017 il tasso di fecondità è sceso da 1,32 a 1,29 e le nascite si sono ridotte da 458 mila a meno di 440 mila. I primi sei mesi del 2019 mostrano, poi, una ulteriore riduzione di 5 mila rispetto al primo semestre del 2018. Gli squilibri prodotti sono tali che gli attuali ottantenni italiani, oltre 517 mila, hanno più coetanei rispetto ai nati nel 2018.

Alla luce di queste dinamiche possiamo lasciar da parte l’obiettivo di tornare a crescere nei prossimi decenni in termini demografici e dare per scontato l’aumento della popolazione anziana. Quello che però ancora possiamo fare – per un futuro che consenta di continuare a produrre benessere in un sistema sociale sostenibile – è potenziare quantitativamente e qualitativamente la presenza delle nuove generazioni. Ma è soprattutto sulla dimensione qualitativa che bisogna fortemente investire per avere come ricaduta anche un irrobustimento quantitativo dei giovani nella popolazione, nella società e nel sistema produttivo.

Una sfida non scontata, visto che un altro record negativo che caratterizza il nostro paese è l’elevata percentuale di NEET, ovvero di chi ha concluso gli studi ma non si è inserito nel mondo del lavoro. Tale indicatore – per una combinazione di fragilità educative e inefficienti politiche attive – presenta uno dei valori più alti in Europa non solo tra i ventenni ma anche tra i trentenni. Nella fascia 30-34 anni si posiziona 10 punti percentuali sopra la media europea e risulta essere il doppio rispetto al dato tedesco. Le difficoltà di conquista di una propria autonomia dalla famiglia di origine e di pieno ingresso solido nel mondo del lavoro portano l’età media al primo figlio ad essere la più tardiva del continente, pari a 31,2 anni per le donne italiane.

I dati di una indagine comparativa internazionale condotta nel 2018 dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo sui giovani tra i 20 e i 34 anni, mostrano come nonostante la preferenza sul numero di figli rimanga vicina a due, sia progressivamente aumentata, più in Italia che nel resto d’Europa, l’accettazione della possibilità di non averne o averne solo uno. Forte risulta inoltre il legame con le risorse socio-culturali di partenza. Proiettandosi nel futuro, a 45 anni, il 21,9% degli intervistati pensa che non avrà figli, ma si sale a ben il 29,6% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. Inoltre, su una scala da 1 a 10 del valore assegnato all’avere figli come traguardo positivo nella propria realizzazione personale, a rispondere 6 e oltre risulta essere quasi il 60% tra i laureati contro meno del 45% di chi ha titolo di studio basso. Un presente con basse prospettive porta non solo a ridurre gli obiettivi raggiungibili ma anche il valore assegnato ad essi, minimizzando così il costo psicologico del non raggiungerli.

Questi dati suggeriscono come in assenza di politiche adeguate – in grado di dare un segnale forte e siano il coerente avvio di un processo di miglioramento delle prospettive occupazionali delle nuove generazioni e di potenziamento dei servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia – il rischio sia quello di andare verso un futuro in cui la scelta di avere un figlio risulta sempre più limitata a chi ha proprie motivazioni forti e appartiene alle classi sociali più benestanti.