Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Demografia, democrazia e la scelta (cinese) di un futuro dinamico

Se il XX secolo è stato dominato dalla preoccupazione per l’eccessiva crescita della popolazione, quello attuale sarà sempre più caratterizzato dall’attenzione verso le conseguenze di un inedito declino demografico. Un momento chiave di tale passaggio è stata la decisione, presa nel 2013, dalle autorità cinesi di dare addio alla politica del figlio unico. Il processo messo in moto da tale decisione arriva a compimento con l’apertura, annunciata in questi giorni, verso la possibilità di andar oltre anche al secondo figlio. Di fatto un riconoscimento che sono cambiate le condizioni alla base sia delle dinamiche demografiche che del contesto in cui i cittadini operano le loro scelte. Più che proibire e sanzionare chi ha figli diventa auspicabile incentivare e favorire la propensione ad averne.

I dati aiutano a capire più chiaramente tale passaggio epocale. Nel 1950 gli abitanti del pianeta risultavano saliti oltre 2,5 miliardi, dei quali oltre mezzo miliardo viveva in Cina. Tale ammontare della popolazione mondiale risultava raddoppiato alla fine degli anni Ottanta, ma all’inizio di tale decennio la Cina da sola aveva già superato il miliardo.

E’ quantomeno da Marco Polo che gli osservatori esterni associano numeri impressionanti alla terra del Dragone, ma in questo caso il dato era tale da suscitare ancor più preoccupazioni interne. In tale contesto la Cina decise di entrare nella storia con la decisione di imporre alle coppie quanti figli avere, piegando brutalmente la demografia agli obiettivi di crescita economica. L’impatto della “politica del figlio unico”, adottata dal 1979, è riscontrabile nel confronto relativo con l’evoluzione mondiale. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite gli abitanti del pianeta nel 2050 saranno circa il doppio rispetto al momento in cui Pechino avviò tale politica, mentre la Cina nello stesso periodo risulterà cresciuta solo del 50%. Dopo essersi fermata sotto il miliardo e mezzo, inizierà nei prossimi anni un progressivo declino che la ricondurrà vicina a un miliardo nel 2100. Prima della fine di questo decennio verrà superata dall’India, ma anche quest’ultima entrerà in fase discendente poco dopo il 2050. A quell’epoca rimarranno solo un numero sempre più ristretto di paesi con fecondità elevata, concentrati nell’Africa sub-sahariana. Il mondo entrerà, quindi, nel XXII secolo con la crescita esuberante archiviata e una demografia a ricambio lento, con poche nascite e persone che vivono sempre più a lungo.

La questione vera non è, però, l’aumento della longevità e nemmeno il declino, in sé, degli abitanti del pianeta. Quando la fecondità rimane posizionata attorno ai due figli per donna, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente, mantenendo un sostanziale equilibrio tra generazioni. Se invece la fecondità scende repentinamente e rimane a lungo sensibilmente sotto tale soglia si determina un’alterazione strutturale che può avere forti ripercussioni negative sulla crescita economica. In particolare, la denatalità va progressivamente ad erodere la componente attiva che produce ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema sociale, a fronte di una accentuata crescita della popolazione anziana.

Un meccanismo che l’Italia conosce bene. La fecondità cinese non è ancora così bassa come quella del nostro paese, ma partiva da livelli più elevati. Inoltre il sistema di welfare è molto meno sviluppato. Quando entrò in vigore la politica del figlio unico gli under 25 costituivano circa il 55% della popolazione totale e gli over 65 non arrivavano al 5%. Entro la metà di questo secolo i primi risulteranno più che dimezzati e saranno superati dai secondi.

Ma gli squilibri demografici tendono anche ad autoalimentarsi. La denatalità passata riduce la popolazione in età riproduttiva, che corrisponde anche alla componente più rilevante per i consumi interni, la partecipazione al lavoro, la produttività e l’innovazione. In particolare, la fascia 25-49 si ridurrà di quasi un terzo entro la metà del secolo.

Ora per il governo cinese, come una sorta di nemesi storica, è l’esito prodotto sulla struttura per età della politica del figlio unico a rappresentare una delle principali minacce alla crescita economica. Ma se può essere efficace una politica che impone di non avere figli, molto più complessa è quella che mira a favorire la scelta libera di averne in più. Si tratta di un tema che diventerà sempre più sensibile nel rapporto tra demografia e democrazia, oltre che tra entrambe e le sfide dello sviluppo sostenibile, nel resto di questo secolo.

Il Paese al bivio del declino. Non bastano le misure in pista

Due figli per donna. E’ il livello che consente di mantenere, nelle società mature avanzate, un equilibrato rapporto tra generazioni. L’Italia è uno dei paesi maggiormente crollati sotto tale soglia negli ultimi due decenni del secolo scorso. Era possibile evitarlo? Si. Molti stati, come Francia e Regno Unito, sono riusciti a mantenere il tasso di fecondità poco sotto valore.

L’Italia rischia il collasso

L’Italia è stata, verso la fine del secolo scorso, il primo Paese al mondo a vedere gli under 15 inabissarsi sotto gli ultra 65enni. La conquista di tale primato non si deve alla longevità, che viaggia su livelli comparabili ad altre economie avanzate, ma alla più accentuata riduzione delle nascite.

Dopo la recessione del 2008-2013 il quadro si è ancor più aggravato. In valore assoluto le nascite sono passate da oltre 560 mila nel 2010 a 404 mila nel 2020. L’Istat riteneva altamente improbabile precipitare così in basso. Nelle previsioni pubblicate nel 2011 si trova scritto che, considerate le ipotesi più plausibili, «le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità».

Le dinamiche recenti, prima dell’impatto della pandemia, sono state molto più negative delle attese, facendo entrare la popolazione italiana verso un percorso di progressivo declino già a partire dal 2015. Il saldo naturale negativo, ovvero l’eccedenza di decessi sulle nascite, è oramai tale che nemmeno più l’immigrazione è sufficiente a compensarlo.

Dal punto di vista demografico il declino è quindi diventato irreversibile. Ma se il numero medio di figli per donna continuerà a rimanere molto basso (pari a 1,24 nel 2020, saldamente in fondo alla classifica europea), andranno ad ampliarsi sempre di più gli squilibri strutturali interni. Gli over 65, attualmente circa 14 milioni, sono destinati a salire sopra i 19 milioni entro la metà di questo secolo. Ciò che più complica, però, il percorso dell’Italia rispetto al resto d’Europa sono i meccanismi di indebolimento delle generazioni più giovani. Oltre a presentare valori di fecondità tra i più bassi, la persistente denatalità passata va a ridurre maggiormente in Italia il numero di donne al centro della vita riproduttiva. La conseguenza è un accentuato avvitamento dei nuovi nati verso il basso.

Gli effetti di tali squilibri sono già oggi chiaramente evidenti. La fascia di età tra i 45 e i 54 anni conta circa 9,5 milioni di residenti. Si scende attorno ai 7,5 milioni nella classe 35-44 e a meno di 6,5 in quella 25-34. Via via, quindi, che i trentenni diventeranno prima quarantenni e poi cinquantenni si andrà a ridurre di quasi 1 su 3 la popolazione in età lavorativa. Mantenere bassa la natalità significa lasciare che questi squilibri si allarghino ulteriormente, con le conseguenze sociali ed economiche che portano con sé. Per farsene un’idea, basti pensare a com’era l’Italia del 2019 e immaginare di aggiungere cinque milioni di anziani e togliere altrettante persone nelle età più produttive. Sarebbe stato un Paese in maggiore o minore condizione di crescere e garantire la sostenibilità del suo sistema di welfare? E come avrebbe affrontato la pandemia? Questo è lo scenario che andrà a realizzarsi nel prossimo futuro se nulla cambierà rispetto al percorso sin qui osservato. Secondo le stime dell’ OECD pubblicate prima della pandemia, l’Italia è tra i Paesi sviluppati che più rischiano di trovarsi a metà di questo secolo con un rapporto uno a uno tra lavoratori e pensionati, uno scenario difficilmente sostenibile dal punto di vista sociale ed economico.

Il riconoscimento che l’Italia si trova in questa situazione è molto debole nel Piano nazionale di ripresa e resilienza ( PNRR ), il documento strategico che pone le sfide e le priorità per il rilancio del Paese oltre la discontinuità della pandemia. Vi si trova l’esplicito riferimento agli squilibri economici, sociali e ambientali, ma non appare mai l’espressione “squilibri demografici”. Ci sono solo alcuni occasionali e generici passaggi che fanno riferimento alle tendenze demografiche e c’è poi un rinvio al Family act. La conseguenza è che il PNRR in sé non si assume l’impegno di valutare come le misure proposte saranno in grado di agire sulle cause degli squilibri demografici e di monitorare la loro azione in tale direzione (ad esempio sull’impatto sull’età media al primo figlio e sul numero medio di figli per donna). Ci si deve accontentare dell’auspicio che indirettamente sortiscano anche tale effetto.

Una delle misure più rilevanti contenute nel PNRR è quella sui servizi per l’infanzia. Come messo però in luce, tra gli altri, dalla rete EducAzioni, lo stanziamento, pur rilevante, non è sufficiente per raggiungere una copertura del 33% (obiettivo che l’Italia avrebbe dovuto raggiungere nel 2010) e di garantire che ciò avvenga su tutto il territorio nazionale. Riguardo al Family act, va riconosciuto che si tratta di un sistema integrato di misure che potenzialmente possono far fare un salto di qualità alle politiche familiari italiane. Il primo passo è l’assegno unico universale per i figli, su cui pesa però l’incertezza dei tempi di pieno avvio e l’effettiva incidenza sul ceto medio.

Il momento è grave. C’è bisogno di scelte chiare sulle priorità e di politiche coraggiose, oltre che lungimiranti. Sarà in grado l’Italia di mettere solide basi per una nuova fase di sviluppo dopo la pandemia? La risposta più chiara arriverà dalle dinamiche della natalità dal 2022 in poi. È tale indicatore, infatti, il segnale più sensibile della fiducia che un Paese ha nel proprio futuro.

Fallire stavolta non possiamo

L’Assegno unico universale per i figli (AUUF) può essere una pietra miliare sul percorso di sviluppo del nostro paese: il primo atto di una rivoluzione nelle politiche familiari. Ma siamo ancora in tempo per rovinare tutto.

Di tale rivoluzione abbiamo gran bisogno se non vogliamo che la pandemia peggiori ulteriormente le fragilità delle famiglie e indebolisca ancor più le loro scelte, con conseguente aumento delle disuguaglianze sociali e degli squilibri demografici già a livelli record.

La Germania questa rivoluzione l’ha avviata poco prima della Grande recessione del 2008 riuscendo a contrastare il declino delle nascite. Lo ha fatto rafforzando i servizi per l’infanzia (facendo diventare un diritto l’accesso al nido) in combinazione con un assegno universale tra i più consistenti in Europa.

Se vogliamo che l’AUUF italiano possa contribuire a fare la differenza tra quello che eravamo prima della pandemia e una nuova fase solida e vitale di sviluppo, dobbiamo consolidare alcuni punti sui quali non tornare indietro e prendere impegni precisi sui punti che ancora mancano per andare nella giusta direzione.

Rispetto al primo gruppo, un punto cruciale è il fatto che le politiche familiari non possono essere limitate al contrasto alla povertà. Devono poter andare oltre, con l’obiettivo di favorire il realizzarsi della scelta libera e desiderata di avere un figlio, oltre che migliorare le condizioni che un bambino trova alla sua nascita, sul versante relazionale, educativo ed economico. Un secondo punto importante presente nell’AUUF su cui non recedere, è il principio universalistico combinato con la messa al centro delle politiche familiari l’interesse del bambino. Destinatari sono i figli stessi – indipendentemente dalle caratteristiche della famiglia, dalla condizione professionale dei genitori e di come varia nel tempo – come valore che il paese riconosce alla loro presenza solida e per la qualità della loro crescita.

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Una rivoluzione che mette al centro le nuove generazioni

“Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso” dice un proverbio cinese attribuito a Confucio. Lo stesso vale per l’Assegno unico e universale per i figli (AUUF). Sarebbe stato utile alle famiglie italiane per rispondere alle difficoltà economiche e all’insicurezza verso il futuro durante la Grande recessione del 2008. O quantomeno in tempo per affrontare l’impatto della crisi sanitaria. Una proposta di istituzione di tale misura è rimasta, invece, per vari anni ferma in Parlamento, per poi trovare nuovo impulso nel contesto del Family Act. Dopo un percorso di rallentamenti e accelerazioni si è ottenuto solo ieri il via libera definitivo. Il Parlamento ha cercato di dare un segnale positivo con l’approvazione finale fatta arrivare qualche giorno prima della seconda Pasqua in confinamento e qualche giorno dopo la pubblicazione dei drammatici dati Istat sulla dinamica demografica durante la pandemia.