Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Un’Europa in crisi demografica: di cosa dobbiamo preoccuparci e quale è la strategia d’azione?

Europa che il 6-9 giugno va al voto è in crisi demografica conclamata. La questione non è solo quella della prospettiva del declino della popolazione, ma soprattutto di squilibri interni nel rapporto tra generazioni e aree territoriali, e anche di indebolimento di peso verso l’esterno. Le misure di sostegno alla natalità non bastano e vanno soprattutto inserite all’interno di una più ampia strategia d’azione coerente con le sfide dello sviluppo sostenibile. Ce ne parla Alessandro Rosina e questa è “Otto Miliardi” la serie podcast di neodemos che illustra i maggiori fenomeni demografici, le loro cause e origini, i loro effetti di natura sociale, economica, politica, e molto altro ancora.

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Global Watch n.176 – Transizione demografica: viaggio nel XXI secolo

La Transizione demografica sta portando la popolazione in tutto il pianeta da livelli di elevata mortalità, caratteristici delle società del passato, a una longevità in continua espansione. Ne deriva anche il passaggio da una popolazione in cui gli anziani erano pochi a un’ampia presenza di persone in età avanzata. Siamo, detto in altre parole, nel mezzo della gestione del traghettamento dell’umanità verso la società matura o società della longevità.

Come garantire crescita, sviluppo, welfare sostenibile nella società della longevità è una sfida inedita e quindi aperta. Chi ci riuscirà meglio? Chi per tempo investirà su due fronti interdipendenti. Il primo è quello delle misure che consentono alle persone di essere attive a lungo e mantenersi in buona salute. Il secondo è quello di mantenere consistenti le coorti che entrano nel centro della vita attiva, in modo che rimanga solida la capacità di generare sviluppo economico, di finanziare e far funzionare il sistema di welfare.

Riaggiustamenti generazionali tra previsti e imprevisti
Il rapporto quantitativo tra generazioni che escono e quelle che entrano nella vita attiva (indicativamente compresa tra i 15 ai 64 anni) si sta sbilanciando a sfavore delle seconde non solo perché si vive più a lungo, ma anche perché con la transizione demografica va a ridursi la natalità. Da un numero medio di figli per donna attorno o superiore a 5 tutti i Paesi del mondo tendono a scendere verso il valore di 2 (che corrisponde all’equilibrio nel rapporto tra generazioni quando la mortalità dalla nascita alla piena età adulta è molto bassa). Questa fase di diminuzione del tasso di fecondità è la parte attesa del processo di transizione.

Inattesa è invece la riduzione sotto la soglia di equilibrio generazionale, che si sta osservando in tutti i Paesi arrivati alla fine del processo di transizione. L’Europa presenta un valore molto basso, attorno a 1,5 (i valori più alti sono quelli di Francia e Irlanda vicini a 1,8), gli Stati Uniti sono recentemente scesi sotto 1,7, la Cina è crollata a 1,2 circa (su livelli analoghi ai Paesi europei con più bassa fecondità). La stessa India, pur avendo superato recentemente la popolazione cinese, non ha più una fecondità sovrabbondante rispetto al livello di sostituzione generazionale. La base demografica di tale Paese è però ancora molto ampia e ciò garantirà per qualche decennio la fase favorevole del “dividendo demografico”, ovvero di una popolazione in età lavorativa prevalente. Fase invece che i Paesi occidentali, ma anche ampia parte dell’Asia orientale, hanno oramai alle spalle.

Il tasso di fecondità sensibilmente sotto la media dei 2 figli per donna porta a squilibri che nel tempo indeboliscono la forza lavoro potenziale e quindi, a parità di altri fattori, creano uno svantaggio ai Paesi che si trovano in tale condizione rispetto allo sviluppo economico e alla capacità di mantenere la spesa sociale.

Fare in modo che la natalità non scenda troppo in basso in combinazione con una adeguata gestione dei flussi migratori può consentire alla componente centrale della vita attiva di rimanere solida nella transizione verso la società matura.

Un confronto tra Europa, Stati Uniti e Cina
Rispetto a tale combinazione Stati Uniti, Europa, Cina mostrano esperienze diverse che trovano riscontro nelle dinamiche attese nei prossimi decenni.

Secondo le più recenti previsioni delle Nazioni Unite (con base 2022) la generazione degli Stati Uniti in età 15-19 anni nel 2025, ovvero in progressiva entrata nella vita attiva, risulta più consistente dei pari età nel 2000. Inoltre, grazie ai flussi migratori, tale coorte andrà a rafforzarsi ulteriormente via via che si sposta al centro dell’età lavorativa. Per la combinazione di queste dinamiche i 40-44 anni del 2050 nello scenario centrale sono stimati essere oltre 25 milioni contro i circa 22 milioni attuali. La denatalità sta però indebolendo ulteriormente le nuove generazioni. Si prevede che nel 2050 la fascia 15-19 sarà ridimensionata rispetto a quella attuale (con una consistenza che torna a quella del 2000).

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Contro l’inverno demografico serve una politica dell’inclusione per giovani, donne e immigrati

di EMANUELE FELICE E ALESSANDRO ROSINA

Quale sarà il futuro dell’Italia? Forse lo spopolamento interno, il declino demografico che porta con sé anche il declino economico e culturale? E come possiamo evitarlo? Se l’inverno demografico è un pericolo reale, già in corso, la politica più adatta a fronteggiarlo non è quella conservatrice e nazionalista, come una certa vulgata vuol far passare. Al contrario, è quella che proviene da una visione progressista fondata su diritti e inclusione, e su un approccio razionale e relazionale, privo di pregiudizi.

Partiamo dai dati. L’Italia si distingue in Europa soprattutto per una natalità da lungo tempo molto bassa: la media Ue è scesa a 1,5 figli in media per coppia, l’Italia è da 40 anni sotto tale livello, e di recente il dato è ulteriormente peggiorato. Questo aspetto si lega a un doppio svantaggio competitivo dell’Italia. Il primo è, a fronte dell’aumento della componente anziana, una maggior riduzione della forza lavoro potenziale.

Il secondo svantaggio competitivo è il sottoutilizzo del capitale umano delle nuove generazioni e delle donne: per il primo aspetto, si pensi che la Germania presenta una percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) pari a meno della metà dell’Italia; per il secondo, si pensi che la Svezia presenta un divario occupazionale di genere di circa 5 punti percentuale, nell’Unione è pari a 10, mentre in Italia siamo al doppio, quasi 20 punti (e questo è in buona parte riconducibile al gap fra l’occupazione delle donne senza figli e con figli).

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Così la denatalità taglia il futuro dell’Italia

Se in Italia si nasce sempre meno è perché sempre meno persone diventano genitori. Un motivo della riduzione di madri e padri è la stessa bassa natalità. Quando la denatalità persiste per vari decenni, come accade in Italia, si ottiene un progressivo restringimento  delle generazioni che entrano nell’età fertile.

Un secondo motivo è l’indebolimento della propensione ad avere figli. Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della crisi demografica. Tutti i paesi del vecchio continente si trovano sotto la media dei due figli per coppia, insufficiente a garantire un adeguato rapporto tra vecchie e nuove generazioni. La Francia è preoccupata per il tasso sceso attorno a 1,8. Le istituzioni europee sono molto preoccupate per il livello Ue sceso a 1,5. L’Italia da quarant’anni si trova tranquillamente sotto quest’ultimo valore e negli ultimi quindici anni è scesa ulteriormente, fino al recente 1,2.

Oltre a risultare il paese con maggior riduzione del potenziale di popolazione in età fertile (che coincide con la fascia più giovane della forza lavoro), l’Italia detiene anche il record del rinvio dell’età in cui si inizia ad avere figli. Al processo di posticipazione si associa anche un aumento della quota di donne che rimangono definitivamente senza figli (childless), arrivata in prospettiva a superare 1 su 4 per le nate dagli anni Ottanta in poi.

Il fenomeno, beninteso, non riguarda solo le donne ma anche gli uomini e le coppie. Per le donne la percentuale di childless è più facile da stimare già attorno ai 45 anni, dato che la possibilità di avere una gravidanza oltre tale età risulta molto bassa.

Le persone che rimangono definitivamente senza figli possiamo distinguerle in 3 gruppi. Il primo è quello di chi è sterile o ha un partner sterile. Nel passato era il gruppo prevalente, oggi è minoritario all’interno delle childless. Inoltre le procedure di adozione e le tecniche di procreazione assistita possono ulteriormente ridurlo. Il secondo è quello delle childfree convinte, ovvero delle persone del tutto non interessate ad avere figli. Anche questo gruppo è minoritario ma in aumento come dimensione e visibilità. Il terzo, quello più ampio, è formato da chi aveva il desiderio di avere figli ma per varie circostanze alla fine non li ha avuti. Questo gruppo è molto eterogeneo per la combinazione diversa tra forza più o meno intensa del desiderio e tipo di circostanze incontrate. E’ anche quello in cui maggiormente può avere efficacia l’azione delle politiche pubbliche. Avere figli è sempre meno considerato, anche sul versante femminile, come un obbligo e come condizione imprescindibile per sentirsi realizzati. Ma è anche vero che è generalmente condiviso il desiderio di avere la possibilità di realizzarsi in modo pieno sia nella sfera lavorativa che personale e familiare. Non, invece, dover scegliere a cosa rinunciare per carenza di strumenti e condizioni adeguate.

Ed è proprio la capacità di dare risposte solide e convincenti a questa aspirazione a fare la differenza tra paesi poco sotto la media dei 2 figli e paesi poco sopra 1 come l’Italia.

Si fa presto a dire “childfree”!

Quello delle donne (degli uomini e delle coppie) che scelgono volontariamente di non avere figli è un tema caldo, di grande risonanza, soprattutto in un’epoca di crisi della fecondità come quella attuale. Perché cresce il numero di donne che arrivano al termine della propria vita fertile senza figli (l’Istat stima una su quattro fra le nate nel 1980)? Dipende solo dalle precarie condizioni economiche dei giovani e dalla mancanza di politiche per la conciliazione? In altri termini, è frutto della posticipazione indefinita di coloro che non trovano le precondizioni per avere figli? Oppure sono cambiate le preferenze, i valori, che muovono le progettualità di vita dei giovani, che quindi non valutano più positivamente la scelta di diventare genitori?

Scelta e non scelta di avere figli
Negli ultimi anni, analizzando i dati delle indagini dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo condotte con Ipsos, abbiamo messo in luce la necessità di rimodulare il sistema di indicatori con cui tradizionalmente si interpretano le intenzioni e i desideri di fecondità. In particolare, abbiamo evidenziato come sia utile considerare, accanto a desideri e intenzioni, la motivazione intrinseca ad avere figli: quanto le persone considerano l’avere figli una dimensione necessaria per sentire pienamente realizzata la propria vita?

Secondo i dati del Rapporto Giovani del 2020, fra i giovani italiani di età compresa fra i 25 e i 34 anni, il 41% dichiara che si sentirebbe comunque realizzato nella vita anche senza figli (li indichiamo come “debolmente motivati); fra di loro è incluso un 14.5% di chi dichiara di non desiderarli affatto (“childfree”), senza significative differenze di genere. Se ci si concentra sulla fascia centrale della vita riproduttiva, quella tra i 30 e i 34 anni, si osserva che tra chi è senza figli la percentuale di childfree e di debolmente motivati sale ulteriormente (perché una parte di chi è orientato ad averli li ha avuti): il 15% degli uomini e quasi il 19% delle donne afferma di non desiderare diventare genitore, mentre più genericamente i debolmente motivati risultano il 38% degli uomini e il 45% delle donne.

Va comunque considerato che orientamenti e decisioni possono mutare nel corso di vita: si può partire da una posizione di childfree ma poi cambiare opinione e avere figli (anche in funzione della presenza di un partner e dei suoi desideri), così come una donna che desidera diventare madre può successivamente valutare che tale obiettivo non sia prioritario e investire nella realizzazione professionale e in altri ambiti di vita.

Il progetto di diventare genitori tende inoltre a indebolirsi non solo per questioni socio-economiche e culturali, ma anche per le accresciute incertezze con cui le giovani generazioni di oggi guardano al futuro. Secondo i dati pubblicati nel Rapporto Giovani 2024 (Frageri, Luppi e Zanasi, 2024), mentre il 68% dei giovani italiani non pianifica un figlio a breve perché preoccupato per la situazione economica del paese, il 62%1 dichiara di non farlo perché preoccupato per il futuro che attenderebbe il figlio in un mondo compromesso dal cambiamento climatico. I paesi, però, che in modo più solido investono sulla formazione delle nuove generazioni, che promuovono un loro ruolo attivo nei processi di sviluppo sostenibile, che sostengono i loro progetti di vita, mettono i giovani nelle condizioni di affrontare meglio tali preoccupazioni e abilitare maggiormente scelte impegnative e responsabilizzanti verso il futuro, come quella di avere un figlio

Fattori culturali e difficoltà oggettive coesistono
Tornando al nostro quesito iniziale, ovvero se contano di più i fattori socio-economici (contestuali e individuali) o quelli culturali, l’evidenza ottenuta dai nostri studi non supporta interpretazioni univoche, ma indica piuttosto la coesistenza di entrambi i fattori (Luppi, Rosina e Testa 2024). Il fenomeno delle donne “childfree” – ovvero di coloro che dichiarano di non desiderare figli e per cui la scelta di non averne è l’espressione di una esplicita preferenza individuale – è forse oggi meno semplice da interpretare di quanto lo fosse vent’anni fa. Se precedenti studi avevano evidenziato il carattere “progressista”, “postmaterialista” e l’orientamento alla carriera delle donne childfree (mediamente più istruite e più facilmente occupate delle donne con figli), le evidenze che riscontriamo sui dati del rapporto giovani offrono una prospettiva un po’ diversa e più articolata (Luppi, Rosina e Testa 2021; Luppi, 2022).

Considerando le donne di 30-34 anni senza figli, coloro che si dichiarano childfree risultano dalle nostre analisi mediamente meno istruite di chi desidera figli (25% di laureate vs 32%), sono meno frequentemente in una relazione stabile (31% vs 50%), sono in maggior percentuale nella condizione di Neet (27% vs 23%), oltre ad avere un reddito individuale mediamente più basso (il 41% guadagna meno di 500 euro al mese contro il 23% delle donne che desiderano figli). Fra le donne senza figli, quindi, sono le childfree quelle che si trovano in una condizione relazionale, lavorativa e di autonomia economica meno adatta per pianificare una famiglia. Le donne che rientrano nella categoria “debolmente motivate”, invece, hanno più facilmente una laurea, un partner e un lavoro con reddito elevato, anche maggiore in media rispetto alle coetanee più fortemente orientate alla famiglia con figli. Sono quindi le debolmente motivate quelle che hanno maggiormente da perdere incorrendo nella motherhood penalty.

È quindi molto difficile pensare che tutte le childfree non abbiano figli esclusivamente “per scelta”, così come invece è legittimo immaginare la difficoltà delle poco motivate alla maternità a conciliare l’idea di avere figli con quella di realizzarsi pienamente anche in altri ambiti della vita.

Se da una parte l’accresciuta accettazione sociale della possibilità di non avere figli nella vita e la necessità di realizzarsi pienamente in molti ambiti (e non solo in quello genitoriale) è sicuramente legata a un cambiamento valoriale fra le giovani generazioni, dall’altra ricondurre il fenomeno childfree a una sola spiegazione culturale sembra riduttivo. Se è sempre più accettabile non avere figli, dichiararsi childfree può avere anche la funzione di riduzione della dissonanza cognitiva fra il desiderio, quello non dichiarato, e una realtà antagonista.

(articolo di  and )

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