Topic: giovani

Un’anomalia da correggere con il piano di rilancio

L’Italia di inizio 2022 è uno dei paesi in Europa con più debole presenza delle nuove generazioni nei luoghi in cui si è messi nelle condizioni di contribuire alla crescita e allo sviluppo economico. Ma anche con meno giovani presenti nelle classi scolastiche fino a completare il percorso di istruzione secondaria di secondo grado, oltre che nelle aule universitarie fino a raggiungere con successo la laurea o un titolo di formazione terziaria professionalizzante (fornita dagli Istituti Tecnici Superiori).

Giovani: Italia, la peggiore in Europa

Esiste un’ampia variabilità in Europa di incidenza dei NEET (i giovani non occupati e non inclusi in alcun percorso formativo). All’estremo inferiore troviamo i Paesi Bassi con un valore pari all’8,2 percento nella fascia tra i 20 e i 34 anni, mentre a quello superiore è saldamente assestata l’Italia con il 29,4 percento. I giovani italiani presentano, quindi, un rischio di trovarsi nella condizione di NEET pari a 3,6 volte rispetto ai coetanei olandesi. A mettere in luce questo divario è il report Eurostat “Statistics on young people neither in employment nor in education or training” pubblicato online a giugno 2021 (con dati aggiornati al 2020).

Vent’anni perduti. Il Paese è dei vecchi

Il rischio maggiore che sta correndo oggi l’Italia è trovarsi nei prossimi anni senza le risorse più preziose, costituite da giovani ben preparati con le competenze necessarie per alimentare i processi di sviluppo competitivo del paese. Eppure per lungo tempo si è sentito obiettare che in realtà, per quanto pochi, i membri delle nuove generazioni italiane sono in realtà troppi (un’idea sintetizzata dalla frase: “se ce ne fossero ancora di meno avremmo meno giovani disoccupati”).

Ci sono almeno quattro fattori che, in combinazione tra di loro, hanno portato i giovani entrati nel mercato del lavoro in questo secolo a “sentirsi di troppo” rispetto alla capacità del sistema produttivo di includerli efficacemente e valorizzarli adeguatamente.

Il primo è il fatto che finora il centro della vita attiva del paese è stato solidamente presidiato dalle consistenti generazioni nate nei primi decenni del secondo dopoguerra, mentre ora stanno spostando il proprio peso progressivamente in età anziana. Il secondo fattore è il percorso di basso sviluppo del Paese. La prima decade di questo secolo è stata indicata come “decennio perduto” per il rallentamento della crescita rispetto ai decenni passati e la perdita di competitività rispetto alle altre economie avanzate. Il periodo 2008-13 è stato poi segnato dalla Grande recessione che ha colpito in modo particolare l’Italia e ancor più i giovani.

Nello stesso periodo, e passiamo così al terzo fattore, è andata sensibilmente aumentando l’occupazione nella fascia più anziana della forza lavoro. L’invecchiamento della popolazione porta i Governi a porsi la questione di come affrontare i costi crescenti associati alle pensioni, alla salute e all’assistenza sociale. Una delle risposte principali è quella di favorire virtuosamente le coorti più mature a rimanere più a lungo nel mercato del lavoro. In Italia ciò è stato fatto quasi esclusivamente spostando per legge in avanti l’età di pensionamento. Basso è stato, invece, lo sviluppo degli strumenti di Age management, ovvero delle politiche a supporto della lunga vita attiva nelle aziende. La combinazione tra invecchiamento demografico, posticipazione del ritiro dal lavoro, bassa crescita economica e basso sviluppo dei settori più innovativi e competitivi, ha portato ad un aumento dell’occupazione degli over 55 senza una espansione generale delle opportunità di occupazione. Ovvero la torta non si è allargata e le porzioni sono andate sempre più a favore della fascia più matura della forza lavoro. Detto in altre parole, la politica si è accontenta di ridurre i costi dell’invecchiamento senza favorire un salto di qualità delle condizioni di lunga vita attiva nel mondo del lavoro, da un lato, e senza affrontare le conseguenze del “degiovanimento”, dall’altro.

Il quarto fattore che, in combinazione con i precedenti, ha contribuito al surplus di giovani italiani rispetto alla capacità di inclusione attiva di nuove energie ed intelligenze nei processi di sviluppo del Paese, sono state tutte le carenze nei servizi che si occupano dell’incontro efficiente tra domanda e offerta. Un persistente basso investimento in politiche attive ha determinato un deficit di strumenti adeguati – all’altezza delle economie più avanzate e alle sfide che pone questo secolo – per orientare e supportare le nuove generazioni: nella formazione delle competenze richieste; nella ricerca di lavoro; nella realizzazione armonizzata dei progetti professionali e di vita.

Come ho descritto nel libro “Crisi demografica. Politiche per una paese che ha smesso di crescere” (Vita e Pensiero 2021), ci troviamo oggi con uno dei peggiori intrecci nelle economie mature avanzate tra crisi demografica e questione generazionale,. Gli squilibri demografici stanno sempre più riversando i propri effetti all’interno della popolazione attiva. Attualmente in Italia, la fascia dei 30-34enni risulta decurtata di circa un terzo rispetto a quella dei 50-54enni: valori inediti sia rispetto al passato sia nel confronto con il resto d’Europa.

Di fronte a tali squilibri e in combinazione con l’elevato debito pubblico, dovremmo essere il Paese più impegnato a favorire la partecipazione ampia e qualificata delle nuove generazioni nel mondo del lavoro. E invece i giovani italiani si sono trovati nei primi due decenni di questo secolo con persistenti limiti e ostacoli su tutta la transizione scuola-lavoro. Di conseguenza la forza lavoro italiana sta subendo un processo di degiovanimento ancora più accentuato rispetto alla popolazione generale. Dal 2005 al 2020 il peso degli under 35 sulla popolazione attiva è diminuito di 5 punti percentuali, ma quello sugli occupati si è ridotto del doppio.

L’efficacia di quanto verrà realizzato con i finanziamenti di Next Generation Eu va allora, prima di tutto, misurato sulla capacità di mettere il capitale umano delle nuove generazioni al centro dello sviluppo sostenibile, inclusivo e competitivo del Paese. Se non lo faremo non ci rimarrà che rassegnarsi alla crescente lamentazione di imprese che non troveranno le competenze e le professionalità richieste.

La maturazione politica di una generazione

E’ arrivata la generazione che salverà il mondo e nel caso non riesca a farlo ha ben chiaro a chi dare la colpa. Era annunciata da vari anni da segnali crescenti e sempre più forti. Ma l’evento Youth4Cimate che si è tenuto a fine settembre a Milano l’ha di fatto chiarito in modo definitivo. “We are unstoppable” ha affermato in modo deciso Greta Thumberg, che nel contrasto tra la sua fisicità e i toni dei suoi discorsi rappresenta perfettamente la Generazione Zeta, che dalla sua parte non ha la forza ma è fortemente convinta di aver ragione. Viene accolta dalle istituzioni quasi come fosse il capo di stato di una nazione di giovani che non ha confini ma che non vuole essere solo virtuale: sa scendere in strada e prendersi le piazze per dare concretezza al cambiamento. Da un lato le istituzioni del “mondo del bla bla bla” e dall’altro la “nazione del futuro adesso”. Mario Draghi dopo averla incontrata al Pre-Cop26 di Milano ha affermato ai giornalisti che “con Greta e andata benissimo”. E’ curioso vedere i grandi della terra, dopo essere stati ammoniti in modo sferzante, affrettarsi a dire che condividono l’accusa che ad essi viene rivolta. Di fondo c’è una sincera condivisione del fatto che, come afferma il premier italiano, si tratta della “generazione più minacciata dai cambiamenti climatici” e quindi ha ragione “a chiedere una responsabilizzazione, a chiedere un cambiamento”. Pochi giorni dopo papa Francesco, nel suo saluto ai giovani economisti riuniti a Perugia ha affermato: “Voi siete forse l’ultima generazione che ci può salvare, non esagero”

Gli Zeta (gli “unstoppables”), a differenza degli Xers e dei Millennials, stanno diventando una generazione “politica”. Come mette in luce un’ ampia letteratura sociologica che parte da Ortega y Gasset e Mannheim, ogni nuova generazione è chiamata a reinventare il mondo a partire dal sistema di vincoli e opportunità in cui viene posta nel contesto storico in cui vive. Molte subiscono i mutamenti del proprio tempo altre lasciano la propria impronta. La differenza la fa il giungere, come scrive Fogt, “in modo simile e consapevole a prendere posizione nei confronti delle idee e dei valori dell’ordinamento politico nel quale sono cresciuti”.

E’ da tempo che non si osservata una generazione che in modo così chiaro manifesta l’urgenza di agire, cercando nel contempo di maturare una propria visione di come il mondo va cambiato e con quali strumenti produrre il cambiamento. Prima degli Zeta lo sono stati i Boomers, una generazione che ha avuto successo nel farsi classe dirigente, molto meno nel migliorare le condizioni di chi veniva dopo.

La questione che i giovani oggi pongono al centro è ineludibile. E’ sentita dai coetanei di Greta come propria pur trovando riconoscimento trasversale. Va anche oltre il tema ambientale in senso stretto. In primo luogo perché aiuta ad adottare un approccio che consente di far uscire il futuro dalla sfera dell’inquietudine generica per collocarlo entro un orizzonte di scenari possibili dipendenti dai comportamenti di oggi. O, ancor più, a porre il domani desiderato come guida delle decisioni da prendere oggi. La spada di Damocle del futuro incerto e minaccioso che pende sulla testa dei giovani viene metaforicamente afferrata dalla generazione politica e brandita per reclamare diritti, spazi e opportunità per contare ora.

In secondo luogo perché lo stesso impegno per il futuro del pianeta consente di sperimentare modalità di partecipazione e di protagonismo non solo congeniali con le proprie competenze e predisposizioni ma anche pragmaticamente efficaci rispetto agli obiettivi e alla necessità di guadagnare visibilità e attenzione da un pubblico più vasto.

A differenza dei Boomers il punto di partenza non è l’adesione ad un’ideologia, ma l’esperienza concreta su un tema specifico di interesse e valore comune che consente di sentirsi parte di un cambiamento possibile grazie a un proprio contributo riconoscibile. Questa esperienza incentiva poi a informarsi meglio e a impegnarsi ancora di più, sviluppando progressivamente una visione del proprio ruolo come generazione “politica” che ingloba coerentemente il tema dell’ambiente all’interno di una riflessione più ampia sulla costruzione di un modello di sviluppo inclusivo e sostenibile.

Nessuno fermi la generazione Greta, ma teniamo ben presente che rimane responsabilità di tutti la direzione da dare al futuro comune.

La transizione verde, le nuove generazioni e 4 C da considerare

Il recente Rapporto Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), organismo dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, mette chiaramente in luce tre aspetti fortemente connessi tra di loro: la gravità della situazione, la responsabilità dell’attività umana, i crescenti costi del non agire.