Capita spesso di leggere sui giornali o sentire nei dibattiti televisivi che il lavoro se uno lo cerca bene e si adatta lo trova. Se quindi molti giovani sono disoccupati è soprattutto colpa loro che non si rimboccano le maniche quanto serve. Come spesso accade la realtà è un po’ più complessa rispetto agli stereotipi di cui è piena l’opinione pubblica. Sono vari i motivi della presenza di opportunità di lavoro che faticano a trovare manodopera adeguata in un contesto di alta disoccupazione giovanile. Ne elenchiamo quattro, ben intrecciati tra di loro. Il primo è legato al fatto che molte aziende non utilizzano modalità e contenuti adeguati nel pubblicizzare l’offerta rispetto al target specifico di interesse. Il secondo è da ricondurre alla carenza di solidi canali istituzionali di incontro tra domanda e offerta, tanto che la larga maggioranza delle persone continua a trovare lavoro attraverso la rete parentale e amicale. Il terzo fattore è di tipo culturale.
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Neet ed Expat: i giovani che stiamo perdendo
E’ difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre di meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat. In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema paese.
La metropoli sempre più attrattiva per gli studenti
Quando ci si avvicina alle elezioni amministrative l’attenzione verso i giovani inizia a crescere. Le nuove generazioni sanno però distinguere chi cerca opportunisticamente il loro voto e chi genuinamente si rivolge a loro. Non a caso sono molto diffidenti rispetto alla politica e molto in sintonia con papa Francesco. La distinzione tra attenzione sincera e quella strumentale ha una componente sia emotiva che oggettiva. Conta il linguaggio, la capacità di toccare le corde giuste, ma anche quello che in concreto si fa, non solo “per” ma “con” loro.
I giovani italiani non sono una “generazione perduta”
Nei giovani di ogni epoca è sempre alta la propensione a partire, ad allargare i propri orizzonti. Il “dove si va” e a “fare cosa” è spesso meno importante della spinta in sé ad avventurarsi oltre confini prestabiliti. Non è però mai stato così facile andarsene come oggi. Da un lato, è sempre più riconosciuto che andare a studiare all’estero e fare una esperienza di lavoro in un altro paese arricchisce molto conoscenze, competenze, network e aumenta il senso di autonomia e intraprendenza; tanto che l’Unione europea promuove con programmi specifici la mobilità tra paesi membri. D’altro lato, le difficoltà oggettive che i giovani incontrano nel nostro paese hanno creato un’ampia accettazione sociale del fatto che un neolaureato cerchi migliori opportunità altrove. Se poi si moltiplicano i messaggi negativi sulle prospettive di chi rimane in Italia, l’adozione di una “exit strategy” non può che consolidarsi e ampliarsi. La grande enfasi sulla “generazione perduta” e sui lunghi decenni che serviranno per tornare ai livelli pre-crisi, recentemente ripresa anche dal Fondo Monetario Internazionale, è un efficace invito a partire.
Sulla decisione di emigrare agiscono sia fattori di push che di pull: i primi sono gli elementi negativi che ci si lascia alle spalle, i secondi sono gli aspetti positivi a cui si va incontro. I fattori di pull sono in crescita anche per la maggior propensione delle nuove generazioni a muoversi, oltre che per la maggior facilità a farlo rispetto al passato. A questo si aggiunge l’azione dei fattori di push, particolarmente rilevante in paesi come l’Italia dove le opportunità – non solo attuali ma anche quelle attese nel breve e medio periodo – vengono percepite come sensibilmente più basse rispetto a gran parte degli altri paesi sviluppati.
Va inoltre considerato che le migrazioni sono un processo che, una volta messo solidamente in moto, si autoalimenta attraverso il meccanismo delle “catene migratorie”: più giovani se ne vanno e più coetanei saranno portati a fare tale scelta, sia perché è una esperienza sempre più comune tra i propri amici e conoscenti, sia perché chi si trova già all’estero diventa punto di riferimento per informazioni pratiche e primo appoggio logistico. Su questi meccanismi contano sempre di più anche le nuove tecnologie e il web. Viene utilizzato spesso il termine Expat per indicare i giovani espatriati, proprio per distinguerne atteggiamento e caratteristiche rispetto alle emigrazioni del passato. Un frutto di questa diversità è la crescita esponenziale di siti ed app di Expat e per (potenziali) Expat, che stanno mutando il modo di partire e di stare nel mondo.
L’enfasi sulla “generazione perduta” oltre che esagerata è quindi, a ben vedere, sbagliata. Non sono i giovani che si perdono ma è l’Italia che li perde. Più adeguato è invece parlare di “generazione smarrita”, ma nel senso di chi sta cercando la propria strada e fa fatica a trovarla nel nostro paese. Con il rischio quindi di diventare anche una “generazione dispersa”, non solo e non tanto in senso geografico, ma più nell’accezione di energia non usata in modo efficiente per produrre cambiamento e sviluppo. Se vogliamo che l’Italia nei prossimi anni cresca – evitando che la profezia del Fondo monetario internazionale si autoadempia – è questo rischio che va soprattutto evitato.
L’istruzione rende di più all’estero che in Italia
Un territorio può crescere e prosperare se mette i propri abitanti nelle condizioni di realizzare, come singoli e come parte di una comunità, obiettivi economici e sociali rilevanti. Tali obiettivi possono essere ottenuti con tanto più successo quanto maggiore è la dotazione di capitale umano del territorio. I processi di sviluppo delle economie avanzate hanno, in particolare, bisogno di formazione di qualità e competenze continuamente aggiornate. Il titolo di studio è una buona misura del capitale umano non solo perché chi ha formazione più elevata parte con un patrimonio maggiore di conoscenze e competenze di base, ma anche perché con più facilità viene immesso in un percorso virtuoso di miglioramento e aggiornamento continuo.