I paesi che forniscono ai giovani strumenti efficaci di incontro tra domanda e offerta di lavoro, che consentono ai giovani di formarsi con adeguate capacità e competenze, che stimolano il sistema produttivo a valorizzare il capitale umano dei nuovi entranti, sono quelli che meglio possono crescere facendo leva sulla qualità del contributo delle nuove generazioni. Al contrario, i paesi che meno agiscono in tale direzione sono quelli che trasformano maggiormente i giovani da potenziale risorsa per la crescita a costo sociale.
Topic: giovani
Senza passione non si insegna
Quand’è che una scuola è davvero buona? Quando ospita gli alunni in edifici non fatiscenti, se possibile anche accoglienti. Quando offre di strutture avanzate di apprendimento, se possibile anche digitali. Quando consente di trasmettere ai giovani non solo conoscenze ma anche competenze, se possibile non solo utili per il lavoro ma anche per la vita. Tutto questo è importante, perché è esattamente quello che i ragazzi chiedono e spesso non trovano nel loro percorso di istruzione. Non se ne accorgono subito ma un po’ dopo, quando affrontano il mondo del lavoro e le grandi scelte della vita. E’ in quel momento che quello che manca nel loro bagaglio formativo e culturale si fa sentire e penalizza il loro successo sociale e professionale. Non è un caso se l’Italia è uno dei paesi con incidenza più elevata di Neet in Europa, ovvero di giovani che dopo esser usciti dai portoni della scuola si perdono nel tortuoso e nuboloso percorso che porta ai cancelli del mercato del lavoro. Quello che chiedono, documentato dai dati dell’indagine Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, sono competenze avanzate ma anche competenze sociali. Considerano la scuola importante non solo e non tanto per ottenere un lavoro ma per trovare il proprio posto nel mondo.
La condizione di molti giovani è quella di disorientamento di fronte ad una realtà sempre più complessa e in continuo mutamento. Per non trovarsi ai margini di tali cambiamenti, per non trovarsi schiacciati in difesa dai rischi, ma cogliere le nuove opportunità, hanno bisogno di strumenti utili a capire come il mondo cambia e come agire con successo in esso. Hanno bisogno di riempire di senso e di valore le proprie scelte, per non cadere nella condizione di “insignificanza” che rende tutto buio, sia la realtà circostante sia il futuro che li aspetta. Riesce maggiormente a inserirsi in un percorso virtuoso di riconoscimento delle proprie capacità, di incoraggiamento a mettersi in gioco, di miglioramento della propria condizione chi trova attorno a sé figure educative solide, stimolanti e appassionate.
Torniamo allora alla domanda iniziale. Quand’è che una scuola è davvero buona? Tutte vere le risposte date sopra, ben presenti negli intenti del Governo. Ma c’è una risposta ancora più importante che spesso sottovalutiamo quando confrontiamo le diverse ragioni del Ministero e degli insegnanti, come nel caso delle richieste di trasferimento e delle reazioni accese suscitate.
Il punto di vista da tener sempre presente è quello degli alunni. Quello che per loro conta più di tutto, perché lascia i segni più positivi sulla loro crescita, è il vedere l’attenzione, la passione, la dedizione con la quale l’insegnante svolge il proprio ruolo. Quello che dobbiamo chiedere a tutti è, pertanto, che venga migliorato soprattutto questo aspetto della scuola se vogliamo che sia davvero buona per le nuove generazioni. Se il Ministero, pur nelle migliori intenzioni, impone proprie scelte non chiare nei fini e con inefficienze a carico degli insegnanti sui mezzi, rischia di produrre effetti secondari negativi che compromettono i benefici finali attesi. Se gli insegnanti si trincerano in difesa e rifiutano scelte di interesse collettivo per ottenere qualche vantaggio personale, rischiano di perdere il vero valore del proprio ruolo e di trovarsi poi con classi ingestibili e con un Ministero che si sente legittimato ad imporre.
Tutto questo è lo scenario che dobbiamo evitare se davvero interessa a tutti una buona scuola non solo come slogan.
Dare più peso al futuro nelle scelte di oggi
Regna ancora grande incertezza sulle implicazioni di Brexit, alcune questioni che stanno alla base dell’esito del referendum sono però chiare. Una prima questione è la debolezza del progetto europeo, per come sin qui interpretato e realizzato. Una seconda è la difficoltà a comprendere e gestire i grandi processi di cambiamento in atto, con la conseguenza di percepire come minaccia tutto ciò che è nuovo e diverso.
Una terza questione, che qui ci interessa sviluppare, riguarda l’impatto della demografia sulla democrazia. In una popolazione che invecchia, la struttura demografica evolve verso un depotenziamento del peso elettorale delle nuove generazioni. Questo di per sé non è né un male e né un bene, ma ha delle implicazioni. In particolare, sulle scelte collettive che riguardano il futuro, conta di meno chi maggiormente subirà o beneficerà delle conseguenze.
Una possibile proposta è il voto ponderato legato all’aspettativa di vita residua. In questo modo un ventenne, avendo davanti una vita più lunga rispetto all’elettore medio, si troverebbe con un peso un po’ superiore ad uno e, viceversa, un ottantenne avrebbe un peso un po’ inferiore. Questo meccanismo va a mettere in discussione il principio di “una testa, un voto” e trova quindi una forte resistenza nel dibattito pubblico. L’esito del referendum inglese – rispetto al quale c’era un orientamento prevalente per il Remain tra gli under 35, annullato dalla forte preponderanza del Leave tra gli over 65 – ha riproposto il tema suscitando reazioni accese. Alcuni esempi sono Luisella Costamagna su ilfattoquotidiano.it, Martino Cervo su Libero, e Federico Gnech su Gli Stati Generali. La loro accusa, a chi sostiene le ragioni del voto ponderato per età, è di considerare implicitamente gli anziani egoisti, di non tener conto che anche essi hanno figli e nipoti, di aprire uno scenario in cui si potrebbero penalizzare anche i fumatori, o i meno benestanti, o quelli con titolo più basso rispetto agli altri.
E’ forse allora il caso di ribadire ulteriormente alcuni punti, sviluppati nella letteratura sul tema, a beneficio di una riflessione più equilibrata. Partiamo dalla prima critica: alla base c’è l’idea che i giovani votino “meglio” degli anziani? La risposta è no. Non viene messo in discussione come votano i cittadini, ma chi pagherà le conseguenze. Se da un voto collettivo Ego può perdere o guadagnare 2 e Alter può perdere o guadagnare 1, è giusto che Ego sia più responsabilizzato nel determinare l’esito finale? E’ questa la domanda giusta da porsi.
Seconda critica: derogando al principio “una testa, un voto” si creano diseguaglianze tra cittadini? Anche qui la risposta è no. A differenza delle proposte (spesso provocatorie) di dar più peso ai più istruiti o altre categorie, il peso legato all’aspettativa di vita non crea discriminazioni. E’ di fatto un patto che si fa con se stessi: accetto che quando sarò anziano il mio voto pesi un po’ di meno perché oggi pesi un po’ di più. Tutti i cittadini nel corso della loro vita hanno lo stesso profilo di peso elettorale. La critica vera riguarda, semmai, la possibilità di concreta applicazione. Solo con il voto elettronico la ponderazione è possibile.
In ogni caso, i temi intrecciati di come dar più peso ai “nuovi”, come rispondere alle sfide che le trasformazioni demografiche pongono, come dar più rilevanza alle implicazioni future delle scelte di oggi, non sono certo risolti dal voto ponderato ma non possono nemmeno essere liquidati con superficialità e fastidio come avviene troppo spesso nel dibattito italiano.
I giovani possono amare l’Unione solo se la conoscono e la vivono
L’uscita delle Gran Bretagna dall’Europa impone riflessioni che vanno oltre le ragioni e le conseguenze immediate di un sì o un no su una scheda referendaria. Brexit va considerato prima di tutto il riscontro di quanto il progetto europeo sia diventato debole e non pienamente convincente. A sua volta tale risultato può indebolire ancor più il percorso di integrazione e farlo implodere. E’ però anche possibile che inneschi una reazione positiva, in grado di produrre un rinsaldamento nell’immediato e metta le basi per un rilancio nel medio e lungo periodo. La possibilità che questo avvenga realmente è bassa ma non ci sono alternative e va quindi non solo auspicata ma favorita ad ogni livello. Gli attori principali per un salto qualitativo – dopo il processo di allargamento quantitativo che ha portato ad estendere ad est perdendo però ora ad ovest – sono due: le istituzioni e le nuove generazioni. Di fatto significa spingere verso l’alto il rapporto tra domanda e offerta di una migliore Europa, la prima riferita soprattutto ai giovani e la seconda alla politica.
Le generazioni che hanno subito la guerra mondiale e quelle successive che hanno vissuto il clima della guerra fredda si sono riconosciute in un desiderio di Europa diversa dal passato, che al suo interno non si sentisse divisa tra parti ostili. Oggi tale spinta si è esaurita e più che ridurre il rischio di conflitto interno serve ora un processo di vera comunione. Questo significa superare non solo i confini geografici tra popoli ma anche le barriere mentali che li separano tra di loro e che li rendono vittime delle proprie paure. Per un’Europa così si sarebbe un posto di primo piano nel mondo, mentre i singoli paesi sono destinati a smarrirsi andando da soli verso il futuro. Nel 1950 ben tre delle cinque città più popolate al mondo stavano in Europa, ora nessuna metropoli di questo continente è tra le prime quindici nel pianeta. Nello stesso lasso di tempo l’Italia è scesa dal decimo posto al ventitreesimo posto tra i paesi demograficamente più consistenti. Nel 2050 nessun paese europeo sarà tra i primi venti, nemmeno la Germania, attualmente il più popoloso ma in sensibile sofferenza demografica. Se però l’Europa fosse uno Stato verrebbe superata, come abitanti, solo da Cina e India.
Per ottenere un’Europa più forte nel mondo non basta però sommare nazioni diverse e nemmeno è sufficiente porsi regole e vincoli per stare assieme come famiglie di uno stesso condominio (peraltro composte da anziani o coppie con un solo figlio). Sono due le sfide principali che un rilancio del progetto europeo deve allora porsi e vincere: quella demografica e quella culturale, in parte intrecciate tra di loro. L’investimento quantitativo e qualitativo sulle nuove generazioni è cruciale per qualsiasi realtà sociale, economica, politica che voglia aprirsi alla produzione di nuovo benessere e non chiudersi a difesa di vecchie sicurezze. Ma allo stesso tempo è difficile che le coppie abbiano figli, che i giovani siano incoraggiati ad essere attivi e intraprendenti, che l’accoglienza di immigrati si inserisca in un contesto favorevole, se non ci si sente parte di un processo di crescita culturale comune, con valori solidi e condivisi alla base e la visione di un futuro desiderabile da raggiungere. Che le generazioni più mature abbiano perso le ragioni iniziali del progetto europeo è ben rappresentato dal voto degli over 65 al referendum inglese, caratterizzato da alta partecipazione ma con orientamento spiccato verso il Leave. Che le nuove generazioni non si sentano pienamente coinvolte in un processo di crescita comune è ben espresso dalla forte astensione degli under 25. Se un rilancio è possibile non può però che far soprattutto leva sui più giovani. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo, il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa è ambivalente. Da un lato sono molti critici: quelli con titoli di istruzione più bassi soprattutto per come è stata gestita la crisi economica, per la difficoltà a proteggere le fasce più deboli, per i timori verso l’immigrazione, per la crescita di insicurezze economiche e sociali; quelli con titoli più alti soprattutto per una “delusione da attese”. D’altro lato, si riconoscono nella combinazione unica di cultura, libertà e valore della persona, intravedono le potenzialità di un salto di qualità verso gli Stati Uniti d’Europa e considerano una conquista irrinunciabile la possibilità di muoversi liberamente senza confini. Questi aspetti positivi sono ampiamente condivisi ma prevalgono, sui punti critici sopra elencati, soprattutto in chi ha capitale umano elevato e ha svolto periodi di studio o lavoro in altri paesi.
Questi dati suggeriscono la necessità di rafforzare la qualità di domanda di Europa favorendo nelle nuove generazioni processi di aumento dei livelli di formazione; migliorando la conoscenza specifica delle istituzioni europee; potenziando la possibilità di fare esperienze (in età molto giovane e con particolare attenzione per chi proviene da classi sociali basse) di crescita personale, confronto culturale, impegno civile in ambito internazionale.
Serve però, allo stesso tempo, un miglioramento dell’offerta di Europa, più in sintonia con le esigenze e le sensibilità specifiche delle nuove generazioni. Per andare in questa direzione abbiamo bisogno di istituzioni con maggior capacità di visione: in grado di favorire – all’interno – la creazione di un modello di sviluppo che sappia coniugare innovazione e inclusione sociale, ma in grado anche di esprimere – all’esterno – una posizione comune e incisiva sulle grandi questioni internazionali.
Al di là del voto inglese e dei suoi esiti, è dalle nuove generazioni e dalla loro Europa desiderata e partecipata che bisogna in ogni caso ripartire. Sempre che, anziché rassegnarsi alla disgregazione, ci sia l’effettiva volontà di scommettere su un vero progetto di rilancio.
Brexit: un voto contro le giovani generazioni
In democrazia il voto va sempre rispettato e accettato qualsiasi esito produca. Quando si chiama il popolo a decidere – anche su questioni complesse che richiederebbero conoscenze approfondite – non c’è un risultato giusto o sbagliato, ma solo da accettare e a cui dar seguito. Tutto questo in teoria. Poi c’è Brexit e tutto salta. Chi ha votato per l’abbandono dell’Unione europea presenta segni di ripensamento; i politici che hanno vivacemente sostenuto le ragioni dell’uscita appaiono ora più cauti e in parte ritrattano le promesse fatte; chi ha perso raccoglie firme per fare un altro referendum. A monte una campagna referendaria mal condotta dal fronte Remain e spregiudicata sul fronte Brexit, che ha anche conosciuto momenti tragici come l’assassinio della deputata laburista Jo Cox. A valle un risultato che pochi si aspettavano, come mostra l’euforia delle Borse il giorno prima, e nessuno era preparato a gestire, come rivela l’assenza di un piano vero di attuazione da parte del governo inglese. Si è votato per l’uscita dall’Ue, ma l’effetto più forte del voto sembra l’uscita degli scozzesi dallo Uk. Questa più che democrazia sembra una sua grottesca rappresentazione. Brexit è un caso da studiare attentamente per capire cosa dobbiamo cambiare per far funzionare davvero i meccanismi democratici.
Tra gli aspetti che hanno suscitato un acceso dibattito del post referendum c’è inoltre il fatto che ha vinto il voto degli anziani, corsi in massa alle urne, ma le conseguenze principali le vivranno i giovani, che in larga parte si sono astenuti. La divisione generazionale, sia nell’affluenza che nell’orientamento al voto, è un tema complesso e delicato, che produce opinioni molto contrastanti e richiede quindi un surplus di riflessione.
Partiamo da una premessa. Le nuove generazioni nei confronti dell’Unione europea, come mostrano varie ricerche, hanno nel complesso un atteggiamento ambivalente. Sono molto critiche rispetto alle istituzioni, a come è stato sinora realizzato il progetto europeo, a come è stata gestita la crisi, alla mancanza di un vero modello sociale. Condividono però i valori comuni (la combinazione unica tra cultura, libertà e valore della persona), ne intravedono le potenzialità e apprezzano soprattutto la possibilità di mobilità per fare esperienze di formazione e lavoro. In sintesi, questa Europa non piace ai giovani ma anziché abbandonarla vorrebbero un salto di qualità, una Europa socialmente più solida all’interno e politicamente più forte all’esterno.
Il voto degli under 35 inglesi è coerente con questo atteggiamento. Un’elevata astensione (maggioritaria per gli under 25, ma sopra il 50% comunque nella fascia 25-34) con una alta prevalenza del Remain tra chi ha votato, ben esprime l’idea di un mandato a continuare per il progetto europeo ma tenendo conto di un’ampia quota di insoddisfazione (sentita soprattutto dalle classi sociali più basse). Questo è il messaggio che sarebbe arrivato se avessero votato solo gli under 35. Questo «sì» poco entusiastico è stato però del tutto sommerso dal «no» convinto e compatto all’Europa dato delle generazioni più mature. Hanno così, di fatto, deciso gli anziani su una questione che non cambia molto la vita di un ottantenne ma che avrà conseguenze rilevanti sui ventenni sia inglesi che europei.
È interessante inoltre notare come, di fatto, i giovani che si sono astenuti non abbiano lasciato che altri coetanei decidessero per loro, hanno invece subìto la scelta di generazioni molto lontane dalla propria come sensibilità e interessi. Questo era più difficile in passato quando i giovani erano tanti e gli anziani pochi. Il rischio che – quando è in gioco una scelta che ha conseguenze soprattutto sulle nuove generazioni – la scelta dell’elettorato più giovane venga contraddetta da un orientamento contrario dell’elettorato più anziano è in continua crescita per l’invecchiamento della popolazione.
Il tema che si pone non è tanto se sia migliore il voto di un ventenne o quello di un ottantenne, visto però che sarà soprattutto il primo a beneficiare o subire domani le conseguenze delle scelte collettive prese oggi, si può pensare che sia giusto che al suo parere venga dato adeguato peso. Detto in altri termini, se da una decisione comune Ego può guadagnare 2 e perdere 2 e Alter invece al massimo può perdere 1 o guadagnare 1, è giusto che entrambi contribuiscano allo stesso modo alla scelta da prendere?
La necessità di far contare di più il futuro sulle scelte del presente è sempre più riconosciuta nel dibattito pubblico dei Paesi occidentali, anche se stenta a trovare una via innovativa di concretizzazione. In un seminario organizzato dalla Corte costituzionale nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Gustavo Zagrebelsky ha affrontato la questione dei diritti delle generazioni future partendo dalla storia dell’Isola di Pasqua, «grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro, per gigantismo e imprevidenza». Come fare in modo che le generazioni di oggi non facciano scelte miopi, a danno di chi verrà dopo? Per riconoscere i diritti delle generazioni future è necessario ribilanciarli con i doveri di quelle presenti. Per estendere i diritti «nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente».
Un tema davvero molto complesso e delicato che richiederebbe una grande e profonda riflessione collettiva in grado di trovare soluzioni nuove, anche rimettendo in discussione vecchie e consolidate certezze.