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L’analisi dell’istituto Toniolo: giovani tiepidi verso il nuovo governo

I dati sulla condizione dei giovani in Italia continuano ad essere sconfortanti. Tra i peggiori in Europa sono i valori della dispersione scolastica, dell’occupazione under 30, del rischio di povertà all’uscita dalla famiglia di origine, del flusso netto di laureati verso l’estero. Al superamento degli anni peggiori della crisi economica non ha corrisposto l’avvio di un solido processo di crescita con al centro la promozione di un ruolo attivo e qualificato delle nuove generazioni.
Il Governo giallo-verde su questo fronte non si è distinto in modo particolare. Reddito di cittadinanza e Quota 100, in particolare, nonostante le risorse investite, sono apparse agire più in logica assistenziale che come strumenti di welfare attivo in grado di agevolare l’accesso al lavoro dei giovani. In mancanza di risultati concreti, la disillusione verso la politica non può che continuare ad essere elevata. Nei riguardi di chi si alterna al governo e sui singoli partiti l’atteggiamento rimane molto disincantato e pragmatico, con solo una minoranza di fortemente schierati.

Secondo i dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, il 41,9% dei residenti tra i 20 e i 34 anni concede un voto di sufficienza al concluso governo a trazione leghista, con solo il 13,3% che assegna un giudizio decisamente positivo (voto 8 e oltre su scala da 1 a 10).
Il Governo attuale presenta un forte continuità con quello precedente, avendo mantenuto lo stesso Presidente del Consiglio e il determinante sostegno pentastellato. A partire dal discorso alla Camera nel giorno della fiducia il premier Giuseppe Conte ha messo in varie occasioni in primo piano la necessità di riattivare la “speranza dei giovani” attraverso un concreto miglioramento delle loro opportunità. La discussione sulla legge di Bilancio non ha però evidenziato una vera svolta. Non emerge un chiaro progetto in grado di mettere le basi di un riposizionamento delle nuove generazioni nei processi di crescita del Paese. Gli intervistati riconoscono, in ogni caso, la necessità di misure a sostegno immediato della crescita economica (considerata l’urgenza maggiore dal 32,7%), seguita da concreti investimenti sull’occupazione giovanile (12,1%) e da misure simbolo come il taglio dei parlamentari (11,3%).

L’atteggiamento rimane quindi attualmente tiepido, solo leggermente più favorevole rispetto al primo governo Conte. A dare complessivamente un voto sufficiente è il 44,4%, ma con oltre la metà che esprime un giudizio tra il 5 e l’8. Questi dati ci dicono, insomma, che la maggioranza non è ostile all’attutale Governo, ma è in attesa di segnali più chiari prima di sbilanciarsi di più, in un senso o nell’altro. Alla domanda esplicita di confronto tra i due governi, il 30,8% si sente più in sintonia con il Conte bis rispetto al precedente, contro il 29,1% di opinione contraria. Il resto degli intervistati si sente lontano da entrambi. E’ il ritratto di un elettorato ancora tutto da convincere e da conquistare, senza preclusioni ma su cui pesa ancora un’ampia base di disillusione.

Su come conquistarlo, è vero che il tema dell’ambiente tocca una particolare sensibilità, ma è interessante vedere come si associ a una crescente attenzione al tema più generale della promozione di un modello di benessere equo e sostenibile, che non esclude la crescita economica ma che include dimensioni più ampie e promuova nuove opportunità. Di fronte a questo quadro coerente desiderato, le preoccupazioni sull’immigrazione e sull’impatto delle nuove tecnologie passano in secondo piano. Il contrasto alle diseguaglianze sociali e la parità di genere rivestono una propria importanza specifica ma è preferita la lettura positiva di ciò che promuove il benessere e le opportunità di tutti. In definitiva, l’immagine di una generazione che avrebbe voglia di trovarsi schierata in attacco rispetto ad un nuovo modello sociale e di sviluppo, non che da troppo tempo si trova schiacciata in difesa, sia rispetto a quello che non funziona nel Paese e sia a ciò che non decolla nelle loro vite.

Perché è giusto il diritto di voto ai sedicenni

Qualche giorno prima che venisse rilanciata dal mondo politico la proposta di abbassare di due anni l’età minima per il voto, avevamo sottolineato su queste pagine l’importanza di dar più peso alle ragioni del futuro. Ricordando, in particolare, che «mentre rimane irrisolta la questione di come tener conto dei diritti delle generazioni future (quelle non ancora nate), e mentre continuiamo ad escludere dai referendum e dalle consultazioni elettorali gli under 18 (i coetanei di Greta Thunberg), ci troviamo ad assistere anche alla riduzione stessa dei giovani con diritto di voto». Non possiamo quindi che registrare con favore l’ampia convergenza delle forze politiche verso l’inclusione di sedicenni e diciasettenni nell’elettorato attivo.

Va precisato che tale operazione, in sé, ha costo zero per le casse dello Stato. Chi non ha ancora diciotto anni non potrebbe in ogni caso essere eletto. Inoltre si potrebbe prevedere tale estensione solo per le amministrative. Quest’ultima scelta da un lato risponderebbe alle obiezioni di chi non ritiene che i sedicenni siano abbastanza maturi per occuparsi della complessa politica nazionale, d’altro lato è coerente con il principio no taxation without representation: dato infatti che i sedicenni possono avere un contratto di lavoro e pagare le tasse, è del tutto giusto riconoscere che possano dire la loro su chi utilizzerà le risorse pubbliche per migliorare il quartiere e la città in cui vivono.

Rafforzare il ruolo delle nuove generazioni nelle scelte collettive risponde inoltre, in questo momento storico, a due esigenze. La prima è quella di compensare gli effetti della loro riduzione di consistenza demografica sul peso elettorale, a fronte dell’aumento della popolazione anziana. Un ottantenne può certo nel proprio voto responsabilmente premiare chi investe più sulla produzione di benessere futuro che a protezione delle rendite del passato, ma è anche giusto ritenere che chi avrà più da perdere e da guadagnare sulle conseguenze di medio e lungo periodo delle scelte collettive, ovvero le generazioni più giovani, possa prendersi la maggiore responsabilità nel determinarle. La seconda esigenza risponde al fatto che l’impatto sul futuro delle scelte presenti è maggiore oggi che in passato. Basti pensare alle decisioni che riguardano l’enorme debito pubblico cumulato, l’impatto ambientale, l’innovazione tecnologica, la combinazione tra contratti di lavoro, continuità di reddito e condizioni per una pensione dignitosa.

La riduzione quantitativa delle nuove generazioni, maggiore da noi per la persistente denatalità, si combina poi con la presenza di soglie anagrafiche tra le più alte nelle democrazie occidentali sull’elettorato attivo e passivo. Bisogna avere almeno 25 anni per essere eletti alla Camera e la stessa età per votare al Senato, nel quale chi non ha compiuto 40 anni non può entrare. Dato che le leggi devono passare anche attraverso l’approvazione del Senato, gli under 40 sono di fatto esclusi dalle decisioni finali sulle scelte del Paese.

Non estendere il diritto di voto ai sedicenni e mantenere tali soglie non significa lasciare le cose come stanno, ma accettare il fatto che progressivamente si ridimensioni il peso elettorale dei giovani. In Italia ci sono circa 1 milione e 100 mila sedicenni e diciasettenni. Dal 2000 a oggi gli over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni e, prima del 2050, cresceranno di oltre 6 milioni.

 

Un governo che restituisca futuro in Italia ai giovani

Nel discorso al Senato di chiusura dell’esperienza del primo Governo Conte, il premier dimissionario ha lanciato uno sguardo in avanti sugli impegni che dovrebbe assumersi “una politica con la P maiuscola”. Al primo punto ha posto il “lavorare per offrire ai giovani giuste opportunità di vita personale e professionale: ogni giovane che parte e non torna è una sconfitta per il futuro del Paese”. Nel discorso di accettazione del mandato per la formazione di un Governo Conte bis, il premier incaricato ha poi ribadito tra le sfide principali quella di rendere l’Italia “un Paese che non lasci che le proprie energie giovanili si disperdano fuori dei confini nazionali”, ma “sia anzi fortemente attraente per i giovani che risiedono all’estero”.

La dispersione del capitale umano delle nuove generazioni viene evidentemente considerata da Giuseppe Conte uno dei segnali più preoccupanti del declino del Paese. Ne è infatti allo stesso tempo causa e conseguenza. Meno il paese cresce e offre opportunità, più i giovani ben preparati e dinamici se ne vanno. Ma più ci si priva delle “energie giovanili”, meno spinta per crescere ha il Paese.

Capacità e competenze delle nuove generazioni sono considerate la risorsa principale per produrre crescita ed innovazione nelle economie mature del XXI secolo. In Italia questa risorsa è scarsa per l’accentuata denatalità, per la più bassa incidenza di laureati rispetto alle altre economie avanzate, ma anche per la maggior facilità con cui la sprechiamo e disperdiamo. Deteniamo in Europa, del resto, anche il record di Neet, ovvero di under 35 che dopo aver concluso gli studi non riescono ad entrare saldamente nel mondo del lavoro.

Per usare una metafora sportiva è come se in una partita della nazionale noi relegassimo i giovani in panchina o li regalassimo alle altre squadre concorrenti. Nella costruzione di squadre vincenti per le sfide di questo secolo è in atto una guerra dei talenti, intesi nell’accezione più ampia, che riguarda non solo le aziende ma i “sistemi paese” più in generale. Tale guerra, ci dicono le sottrazioni annuali di laureati e dottori di ricerca, l’Italia la sta perdendo rischiando di scivolare sempre più ai margini dei processi più solidi e virtuosi di crescita dei prossimi decenni. I contesti che si collocano al centro di tale processi sono, invece, proprio quelli che offrono opportunità alle nuove generazioni. Non è un caso che in questo secolo abbiano ripreso consistenza i flussi di uscita dal Sud verso il Nord Italia e dall’Italia verso l’estero. Giovani che non partono con la valigia di cartone, ma sempre più con un tablet pieno di idee, alte aspirazioni e voglia di eccellere in contesti aperti e stimolanti. Partono per andare dove le cose accadono, per farsi parte attiva del mondo che cambia. Ciò è del tutto naturale che avvenga. Il problema non è la mobilità dei giovani in sé, ma i motivi che rendono l’Italia un polo sempre meno attrattivo all’interno dei processi che – attraverso le energie e le intelligenze delle nuove generazioni – forniscono spinta e direzione alla produzione di nuovo benessere. Una delle eccezioni più rilevanti è Milano che, in controtendenza con il resto del paese, ha visto negli ultimi dieci anni la fascia tra i 20 e i 29 anni aumentare di circa il 25 percento.

L’Istat misura il fenomeno della mobilità internazionale, da e per l’Italia, attraverso l’iscrizione e la cancellazione dall’anagrafe. Tale criterio porta a una sottostima rilevante, come documentato in varie ricerche, perché molti fuoriusciti mantengono, soprattutto nei primi anni, la residenza in Italia finché la permanenza all’estero non è consolidata e si ha necessità di formalizzarla. In ogni caso il bollettino di guerra è impressionante. Nel Rapporto annuale Istat del 2019 rivela che nell’ultimo decennio “le cancellazioni dall’anagrafe per l’estero sono aumentate in maniera marcata, passando da 62 mila a 160 mila”. Per il Mezzogiorno si aggiunge inoltre il flusso verso le regioni italiane del Centro-nord: a spostarsi sono stati circa 483 mila giovani di 20-34 anni, di cui oltre l’80 percento con istruzione medio-alta.

Generare opportunità all’altezza delle migliori aspirazioni dei giovani è l’unica vera risposta al rischio di “degiovanimento” cronico del paese, che alla persistente denatalità somma la continua emorragia verso l’estero. Cosa fare dunque? Per le nuove generazioni più che le condizioni attuali offerte da un territorio (o una azienda), conta il sentirsi parte attiva di un processo credibile di miglioramento. Anche nel Sud Italia molte aree possono diventare attrattive se in grado di coniugare le specificità locali con la valorizzazione delle competenze dei giovani, la loro spinta all’innovazione con l’apertura al mercato internazionale. In questo modo si favorirebbe sia la scelta di restare sul territorio, sia quella di tornare dopo un periodo all’estero, portando come arricchimento il valore aggiunto di tale esperienza. Un governo “per” l’Italia dovrebbe partire, con scelte nette e coraggiose, proprio da qui.

Il futuro va costruito puntando sui giovani

La politica è esercizio di potere ma prima ancora è responsabilità, come ha recentemente ricordato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Una responsabilità nei confronti di tutti cittadini, ma ancor più verso le nuove generazioni. Chi è al Governo prende decisioni dalle quali dipende il benessere di tutto il paese, con ricadute non solo sul presente ma anche sul futuro. Più che impegnata a far crescere il benessere la politica italiana sembra però sempre più accontentarsi di cavalcare il malessere, più spendibile a fini di immediato consenso.

I bisogni delle nuove generazioni e gli errori della politica

Se c’è un bene che manca più all’Italia di altri paesi sono i giovani. Se c’è un bene che l’Italia valorizza meno rispetto alle altre economie avanzate sono le nuove generazioni.

Eppure un paese che voglia cogliere positivamente la sfida della longevità e produrre benessere ha bisogno di una qualificata presenza delle nuove generazioni nei propri processi di cambiamento e sviluppo. A livello collettivo, un’adeguata consistenza della popolazione giovane-adulta (con buoni tassi di occupazione e livelli di produttività), consente al paese di crescere, di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL, oltre che di mantenere la sostenibilità del sistema di welfare in un paese che invecchia. A livello individuale, buona formazione e inserimento nei tempi e modi adeguati nel mondo del lavoro consentono un futuro previdenziale, di salute e benessere personale più solido.