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Le debolezze della generazione da cui dipende il futuro del Paese

Se non si interviene al più presto con un’inversione di marcia, con una direzione chiara per lo sviluppo avanzato del paese, sarà sempre più difficile uscire dalla trappola di bassa crescita economica e ampie diseguaglianze sociali alla quale sembra volerci condannare la combinazione tra alto debito pubblico, crescenti squilibri demografici, fragilità formative e inefficienze del mercato del lavoro.

Indebitamento pubblico e invecchiamento della popolazione – in un paese con bassa capacità di far crescere la ricchezza pubblica e con alta sfiducia che arrocca in difesa la ricchezza privata – vanno a ridurre ulteriormente le possibilità di investimento nei processi individuali e collettivi che possono ridare vigore al percorso di sviluppo. Interessi sul debito e spesa previdenziale e sanitaria verso la crescente popolazione anziana, non sono insostenibili di per sé, ma rischiano di farci collassare se diventa più debole anche la forza lavoro. La differenza tra l’Italia che è entrata in questo decennio e quella che ne uscirà, verrà allora determinata proprio dal numero di persone attive e qualificate che andranno a rafforzare il centro della vita produttiva del paese.

Se questo è vero abbiamo due problemi combinati e tre risposte possibili da fornire in modo integrato, come evidenzia il report “Un buco nero nella forza lavoro italiana” pubblicato dal Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo. Tale rapporto prende come riferimento la fascia d’età in cui attualmente occupazione e produttività toccano i livelli più elevati, ovvero quella 40-44 anni. Il primo problema evidenziato è strettamente demografico. La popolazione italiana che si trova in tale fase della vita era nel 2019 pari a 4,4 milioni circa. Nel corso del decennio appena iniziato verrà via via sostituita da coloro che hanno oggi tra i 30 e i 34 anni, che risultano però essere oltre un milione di meno. Si tratta della più consistente riduzione in Europa di quello che può essere considerato l’asse portante dell’economia di un paese. Il secondo problema riguarda invece l’effettiva partecipazione alla produzione di ricchezza. Il tasso di occupazione dei 40-44enni risulta attorno al 74%, poco meno di dieci punti sotto la media europea. Quello che però è più preoccupante constatare è che tale coorte dieci anni fa (quando aveva 30-34 anni), presentava un tasso solo leggermente più basso (attorno al 73%), mentre chi ha oggi 30-34 anni parte già da cinque punti percentuali in meno (attorno al 68%).

Questi dati ci dicono che l’Italia sta entrando in una nuova fase della sua storia che corrisponde ad un inedito impoverimento della forza lavoro, ma anche che finora ha fatto molto meno del resto d’Europa per rafforzare la presenza qualificata delle generazioni che si apprestano ad occupare le posizioni centrali della vita attiva. In particolare abbiamo meno trentenni che arrivano al più alto titolo di studio e tra essi più bassa è la quota di chi ha un lavoro. Secondo i dati comparativi, relativi al 2018, la percentuale di laureati nella fascia 30-34 anni è la più bassa in Europa dopo la Romania (27,8% contro una media del 40,7%). Il tasso di occupazione dei laureati a tale età è circa dieci punti inferiore alla media europea e a far peggio è solo la Grecia. Di particolare rilievo è inoltre il fenomeno della sovraistruzione: secondo i dati Istat oltre un terzo degli occupati diplomati e laureati svolge un’attività che richiede un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Questo significa che più che negli altri paesi avanzati è maggiore sia la parte di giovani che arrivano ad affacciarsi all’età adulta con competenze inadeguate, sia la parte di chi arriva ben preparato ma non trova adeguata collocazione e valorizzazione nel mondo del lavoro.

Insomma gli attuali trentenni proiettati tra dieci anni rischiano non solo di portare la loro debolezza quantitativa (la più marcata in Europa) al centro del motore del paese, ma anche la loro maggiore fragilità in termini di percorso formativo e professionale (la più penalizzante in Europa).

Se non vogliamo che le nuove generazioni rappresentino uno svantaggio competitivo – come rivela il record di NEET under 35 (la maggiore evidenza dei giovani come costo sociale anziché produttori di valore) – ma che al contrario siano forza principale per far tornare il paese a crescere con una spinta più che compensativa rispetto ai freni del debito pubblico e dell’invecchiamento, dobbiamo con urgenza agire su tre fronti interdipendenti.

In un mondo che cambia a velocità impensabile rispetto al passato – dove i mutamenti avvenivano da una generazione alla successiva mentre oggi avvengono nel giro di pochi anni – il tema della formazione è prioritario, sia con riferimento alle competenze avanzate (come quelle digitali) sia a quelle trasversali (come l’apprendere ad apprendere, la creatività, l’intraprendenza). Le competenze da aggiornare e potenziare non riguardano solo i giovani, ma, a partire dall’entrata del mondo del lavoro, devono poi essere estese, rafforzate e aggiornate in tutte le fasi della vita.

In secondo luogo va urgentemente ridotto il disallineamento tra domanda e offerta che porta oggi al paradosso di molti giovani e giovani-adulti che possiedono le caratteristiche richieste sul mercato ma non trovano lavoro e, allo stesso tempo, molte aziende che faticano a coprire posizioni ben remunerate. In carenza di sistemi esperti efficienti di orientamento e supporto negli snodi del percorso di vita e professionale, troppi giovani rischiano di perdersi e di portare nella vita adulta delusioni e frustrazioni anziché energie e competenze per realizzarsi e far crescere il paese.

Va infine, ma non per ultimo, data particolare attenzione alla formazione e alla valorizzazione del capitale umano femminile. Le trentenni raggiungono un titolo di studio più alto rispetto ai coetanei maschi ma il loro tasso di occupazione risulta poi più basso. Proprio su questo fronte, sottolinea il report del Toniolo, si possono ottenere i maggiori risultati in termini di riequilibrio generazionale della forza lavoro, che però richiede un riequilibrio del rapporto di genere e tra vita e lavoro.

Dall’impegno ad agire contestualmente su questi tre fronti interdipendenti dipende molta della capacità di superare gli squilibri attuali e dar solidità al percorso di sviluppo del paese.

La vera crescita passa dai giovani

Chi è nato nel 2000 entra quest’anno nella sua terza decade di vita. Ha ancora davanti tutte le tappe più importanti del suo percorso di transizione alla vita adulta. Dalla possibilità di impostare bene tali tappe, nei tempi e nei modi più adatti, dipende molto di quanto saprà “poter essere e fare” nel resto della sua vita. Ma dal successo della realizzazione delle scelte (formative, professionali, di vita) delle nuove generazioni dipende anche gran parte della qualità del futuro di una comunità, ovvero della solidità dei processi di produzione di benessere in senso ampio.

Il mondo migliora quando i giovani sono messi nella condizione di essere ben preparati per le sfide del proprio tempo, di poter riconoscere e raffinare i propri specifici talenti, di vederli valorizzati e moltiplicati nella società e nel mondo del lavoro attraverso il proprio impegno. Il cambiamento diventa miglioramento quando le nuove generazioni non pretendono semplicemente di occupare il posto delle precedenti, ma generano nuovo valore attraverso la loro capacità di essere e fare. Una società che disinveste sulla presenza quantitativa e qualitativa dei giovani si trova, invece, fatalmente a veder vincolate le proprie possibilità di crescita e ad allargare squilibri demografici e sociali (come mette in guardia il recente report “Un buco nero nella forza lavoro” pubblicato dal Laboratorio futuro dell’istituto Toniolo).

E’ dal basso che una società si rinnova e mette solide basi per il proprio futuro. Ma proprio tali basi rischiano in questo secolo di trovarsi drammaticamente erose. In Europa, ancor più in Italia, la spinta positiva dal basso è indebolita dalla riduzione quantitativa delle nuove generazioni e dall’aumento delle diseguaglianze sociali. Questo indebolimento – ben leggibile sui principali indicatori economici, sociali e demografici – è la conseguenza dell’aumento di incertezza e fragilità nei percorsi di vita, a partire dalle scelte formative e professionali. Pesano soprattutto i limiti della transizione scuola-lavoro. L’Italia presenta, in particolare, il record negativo di cittadini che prima dei 30 anni si trovano nella condizione di NEET (fuori dal percorso formativo ma senza un lavoro) e non hanno ancora avviato un progetto familiare. Va aggiunto che il rischio di povertà assoluta delle coppie under 35 con figli è oltre il doppio rispetto alle famiglie composte da persone di 65 anni e oltre.

In tutto il mondo le diseguaglianze sono crescenti e alto è il rischio di polarizzazione tra chi è in grado di cogliere le nuove opportunità delle grandi trasformazioni in atto e chi invece rischia di sovrapporre vecchi e nuovi rischi. In Italia, ancor più che altrove, chi proviene da una famiglia con minori risorse, più difficilmente accede all’università o riesce comunque a completare gli studi. Più alto è il rischio di trovarsi intrappolato, a parità di titolo di studio, in percorsi di basso profilo professionale. Questo sistema non è solo iniquo e poco dinamico, ma anche poco efficiente perché non consente un’allocazione ottimale delle risorse (dei talenti, nell’accezione più ampia). Comprime inoltre la mobilità sociale e favorisce la trasmissione delle disuguaglianze dai genitori ai figli.

Investire sulle nuove generazioni significa, invece, fornire strumenti efficaci in grado potenziare la capacità di comprendere e agire nel mondo proprio a partire da chi nasce nelle famiglie con minori risorse socio-culturali e nei contesti con minori opportunità. Mettere tutti nelle condizioni di essere parte attiva dei processi di crescita è la condizione principale per ridurre gli squilibri generazionali e sociali.

Se vogliamo che i nati in questo secolo non si rassegnino ad essere vittime del lavoro che manca, ma ambiscano ad essere protagonisti del mondo del lavoro che cambia, è necessario potenziare il ruolo della formazione e quello dei sistemi esperti di orientamento e intermediazione, in modo da favorire, al punto più alto possibile, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tutto questo come parte di un più generale incontro da favorire nel decennio appena iniziato, quello tra il meglio che gli attuali ventenni possono dare e il meglio che il Paese con essi può diventare.

Meno occupati e pochi manager. I giovani ai margini e il Paese non riparte

L’Italia non ha alcuna possibilità di uscire dalla crisi di futuro che la tiene bloccata se non ritrova fiducia in se stessa. Questo è il messaggio principale del Presidente Mattarella nel suo discorso tradizionale di fine anno (che apre ad un nuovo decennio). Una fiducia che prima di tutto deve riguardare i giovani e il ruolo che il Paese affida ad essi, chiedendo e offrendo responsabilità ad ogni livello.

Perché l’Italia non riesce a essere mai un Paese per giovani

Negli ultimi dieci anni il debito pubblico non è diminuito; la spesa sociale continua ad essere tra le più squilibrate in Europa a svantaggio dei giovani; le soglie anagrafiche dell’elettorato attivo e passivo continuano a essere tra le più restrittive tra le democrazie occidentali; la presenza delle nuove generazioni nella società e nel mondo del lavoro si è ulteriormente affievolita. Nelle conclusioni del libro “Non è un paese per giovani”, pubblicato nel 2009, quelli appena elencati erano posti come i quattro muri da abbattere per aprire alle nuove generazioni la strada verso il futuro. A dieci anni di distanza non solo sono ancora tutti lì, ma nel complesso appaiono più insormontabili. Il libro, scritto a quattro mani insieme a Elisabetta Ambrosi, nasceva come un pamphlet, con un titolo d’effetto per scuotere l’opinione pubblica. Invece negli anni successivi, complice la crisi economica, il titolo è via via diventato uno slogan che ritrae una condizione di fatto. Con il rischio ora di tramutarsi nella profezia che si autoadempie di un Paese condannato ad un ineluttabile declino.

Restituire ai giovani il ruolo che spetta loro

Sotto la spinta delle trasformazioni demografiche e tecnologiche, ogni generazione si trova a costruire in modo nuovo il proprio percorso rispetto a quelle precedenti, sia perché le età della vita non sono più le stesse, sia perché il mondo cambia e offre sfide inedite. Questo mette ancor più che in passato al centro il ruolo delle nuove generazioni, che vanno intese come il modo attraverso cui la società sperimenta il nuovo del mondo che cambia. Se messe nelle condizioni adeguate sono quelle maggiormente in grado di mettere in relazione le proprie potenzialità con le opportunità delle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal preparati, sono i primi a veder scadere le proprie prerogative e a trovarsi maggiormente esposti con le loro fragilità a vecchi e nuovi rischi. I giovani non sono solo una categoria anagrafica. La giovinezza rappresenta la fase progettuale di ogni nuova generazione. Dalla capacità, quindi, di creare progetti solidi e dalla possibilità di realizzarli con successo dipende la solidità e la prosperità di una comunità. Per crescere in termini di ricchezza economica e di benessere sociale la risposta più che dal conflitto dovrebbe arrivare dalla proficua collaborazione tra generazioni, che però deve avere come principale attenzione quello che di nuovo i giovani possono dare anziché quello che gli anziani possono conservare.

Le generazioni più mature dovrebbero spostarsi dalla difesa di quanto raggiunto nel passato, al mettersi a disposizione per consentire alle nuove generazioni di disporsi in ruoli d’attacco verso il futuro. Questo è possibile solo con un diverso approccio culturale che abbandoni l’idea passiva del cambiamento come ciò che ci porta via qualcosa rispetto a ieri, per passare a considerare il cambiamento come un impegno attivo che consenta al domani di darci qualcosa in più rispetto ad oggi. Per costruire un futuro migliore – che apra alla speranza e non schiacci in difesa – serve quindi un impegno comune nel mettere ciò che è nuovo nelle condizioni migliori per trasformarsi in valore aggiunto a beneficio di tutto il Paese. L’Italia risulta purtroppo essere una delle economie avanzate che in questo secolo maggiormente hanno preteso di creare sviluppo e benessere senza promuovere un contributo qualificato delle nuove generazioni. La combinazione tra riduzione demografica dei giovani e il deterioramento delle loro prospettive occupazionali presenti e previdenziali future non ha quasi eguali in Europa. Il problema non è solo la carenza di politiche efficaci, manca a monte una vera attenzione nei confronti dei giovani e un approccio strategico nel-l’affrontare il tema della crescita con le nuove generazioni. Tutto quello che riguarda le nuove generazioni è sconsolatamente al ribasso nel nostro paese rispetto al mondo con cui ci confrontiamo. Ciò che è cresciuta in questi anni è la loro incertezza nel futuro e la ricerca di un miglior futuro all’estero. Una disattenzione pubblica che abbandona i giovani a sé stessi oppure li relega nella condizione di figli passivamente dipendenti dai genitori. Di conseguenza siamo uno dei paesi sviluppati che maggiormente hanno lasciato crescere accentuati squilibri generazionali. Questi squilibri costituiscono un rilevante freno allo sviluppo competitivo dell’economia, rendono meno stabile il sistema di welfare pubblico, alimentano diseguaglianze sociali e territoriali.

Questi squilibri si possono gestire e superare solo passando dalla preoccupazione dei rischi legati a vincoli e costi, all’investimento sulla capacità di produrre ricchezza e benessere delle nuove generazioni in tutto il loro corso di vita. Il rischio è, altrimenti, quello di scivolare in una spirale negativa di ‘degiovanimento’ quantitativo e qualitativo della società. Non investire sulle nuove generazioni porta ad una riduzione delle loro prospettive nel luogo in cui vivono. Partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dai genitori, si accontentano di svolgere lavori in nero o sottopagati, oppure se ne vanno altrove. Chi rimane riesce a fare molto meno rispetto ai propri desideri e alle proprie potenzialità. Fornisce un contributo produttivo e riproduttivo più basso. Così l’economia non cresce e non si formano nuove famiglie. Questo porta ulteriormente le nascite a diminuire e la popolazione ad invecchiare, con risorse sempre più scarse da redistribuire e conseguente aumento delle diseguaglianze. I dati del ‘Rapporto giovani 2018’ dell’Istituto Toniolo, evidenziano un desiderio nei giovani italiani di sentirsi riconosciuti positivamente come forza di sviluppo del Paese non certo inferiore rispetto ai coetanei europei. Si sentono però forniti di minori strumenti utili a superare le proprie fragilità e a far emergere le proprie potenzialità, fuori dall’ambiente protettivo della famiglia di origine. Per uscire da questa spirale negativa che combina scadimento delle condizioni dei giovani, crescita di squilibri demografici e di diseguaglianze sociali, indebolimento della capacità di crescita economica, è necessario cambiare strategia di sviluppo del Paese, non costringendo i giovani ad adattarsi al ribasso a quello che l’Italia oggi offre, come fatto sinora, ma consentendo all’Italia di crescere al meglio di quanto le nuove generazioni possono dare.

Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione quello che pesa, infatti, è soprattutto il non sentirsi inseriti in processi di crescita individuali e collettivi, ovvero inclusi in un percorso che nel tempo consenta di dimostrare quanto si vale e di veder riconosciuto pienamente il proprio impegno e il proprio valore. È necessario, di fondo, soprattutto un cambiamento culturale che sposti i giovani dall’essere considerati come figli destinatari di aiuti privati dalle famiglie, a membri delle nuove generazioni su cui tutta la società ha convenienza a investire in modo solido, riconoscendo ad essi il ruolo di ‘nuovo di valore’ in grado di generare nuovo valore.