E’ difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre di meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat. In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema paese.
Topic: millennials
La metropoli sempre più attrattiva per gli studenti
Quando ci si avvicina alle elezioni amministrative l’attenzione verso i giovani inizia a crescere. Le nuove generazioni sanno però distinguere chi cerca opportunisticamente il loro voto e chi genuinamente si rivolge a loro. Non a caso sono molto diffidenti rispetto alla politica e molto in sintonia con papa Francesco. La distinzione tra attenzione sincera e quella strumentale ha una componente sia emotiva che oggettiva. Conta il linguaggio, la capacità di toccare le corde giuste, ma anche quello che in concreto si fa, non solo “per” ma “con” loro.
Politiche per una generazione da rimettere in gioco
L’acronimo, come ricorda il “Rapporto sul mercato del lavoro 2014” del CNEL, nasce poco dopo il 2000 per indicare la quota di giovani “Not in Education, Employment or Training”, vale a dire gli under 30 che non stanno utilizzando il proprio tempo né per migliorare la propria formazione, né per mettere in pratica le proprie competenze nel mercato del lavoro e contribuire alla crescita del paese. La quantità di giovani lasciati in tale inoperosa attesa era già elevata prima della crisi ma è diventata poi via via una montagna sempre più elevata: la più alta in Europa dopo la Grecia. Siamo quindi uno dei paesi che maggiormente si sono distinti in questi anni nella capacità di trasformare i giovani da potenziali soggettivi attivi a costo sociale.
La generazione stage chiede vero lavoro
Il lavoro per un paese è come il vento per una barca a vela. Se non soffia, la barca rimane ferma. Ma ciò accade anche se le vele, per imperizia, non sono ben disposte. E’ inoltre vero, citando Seneca, che nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare. In questi anni abbiamo sentito molte discussioni sul vento che mancava o che cambiava, ma poco si è ragionato sulla direzione da intraprendere. Irrisolta è rimasta, in particolare, la questione di quale lavoro per quale modello di sviluppo.
Expat, la generazione delle opportunità
Si sono spesi fiumi di inchiostro e fiato da riempirci mongolfiere, sui giovani che se ne vanno dall’Italia. Peccato che quell’inchiostro e quel fiato, in molti casi, siano troppo spesso spesi male. Per piangerci addosso, per maledire un Paese che non sa valorizzare i propri talenti, per puntare il dito contro chi – politici, imprenditori, insegnanti, genitori – quei talenti (nell’accezione più ampia) non è riuscito a valorizzarli. Nella retorica dei ”cervelli in fuga” è implicito il senso di una duplice sconfitta. Di chi se ne va, perché è stato costretto a farlo. Di chi l’ha lasciato partire, per i supposti costi mal investiti nell’educazione di chi parte.
È una retorica che non ci piace e che vogliamo decostruire, mattone dopo mattone. In primo luogo perché è depressiva. Soprattutto, però, perché è sbagliata. Basterebbe guardare la realtà senza farsi inquinare la vista dall’autocommiserazione per capire che non è così e che la retorica della “fuga” è limitativa rispetto alla portata e alle implicazioni dei grandi processi in atto nel mondo che vedono protagoniste le nuove generazioni.