In democrazia il voto va sempre rispettato e accettato qualsiasi esito produca. Quando si chiama il popolo a decidere – anche su questioni complesse che richiederebbero conoscenze approfondite – non c’è un risultato giusto o sbagliato, ma solo da accettare e a cui dar seguito. Tutto questo in teoria. Poi c’è Brexit e tutto salta. Chi ha votato per l’abbandono dell’Unione europea presenta segni di ripensamento; i politici che hanno vivacemente sostenuto le ragioni dell’uscita appaiono ora più cauti e in parte ritrattano le promesse fatte; chi ha perso raccoglie firme per fare un altro referendum. A monte una campagna referendaria mal condotta dal fronte Remain e spregiudicata sul fronte Brexit, che ha anche conosciuto momenti tragici come l’assassinio della deputata laburista Jo Cox. A valle un risultato che pochi si aspettavano, come mostra l’euforia delle Borse il giorno prima, e nessuno era preparato a gestire, come rivela l’assenza di un piano vero di attuazione da parte del governo inglese. Si è votato per l’uscita dall’Ue, ma l’effetto più forte del voto sembra l’uscita degli scozzesi dallo Uk. Questa più che democrazia sembra una sua grottesca rappresentazione. Brexit è un caso da studiare attentamente per capire cosa dobbiamo cambiare per far funzionare davvero i meccanismi democratici.
Tra gli aspetti che hanno suscitato un acceso dibattito del post referendum c’è inoltre il fatto che ha vinto il voto degli anziani, corsi in massa alle urne, ma le conseguenze principali le vivranno i giovani, che in larga parte si sono astenuti. La divisione generazionale, sia nell’affluenza che nell’orientamento al voto, è un tema complesso e delicato, che produce opinioni molto contrastanti e richiede quindi un surplus di riflessione.
Partiamo da una premessa. Le nuove generazioni nei confronti dell’Unione europea, come mostrano varie ricerche, hanno nel complesso un atteggiamento ambivalente. Sono molto critiche rispetto alle istituzioni, a come è stato sinora realizzato il progetto europeo, a come è stata gestita la crisi, alla mancanza di un vero modello sociale. Condividono però i valori comuni (la combinazione unica tra cultura, libertà e valore della persona), ne intravedono le potenzialità e apprezzano soprattutto la possibilità di mobilità per fare esperienze di formazione e lavoro. In sintesi, questa Europa non piace ai giovani ma anziché abbandonarla vorrebbero un salto di qualità, una Europa socialmente più solida all’interno e politicamente più forte all’esterno.
Il voto degli under 35 inglesi è coerente con questo atteggiamento. Un’elevata astensione (maggioritaria per gli under 25, ma sopra il 50% comunque nella fascia 25-34) con una alta prevalenza del Remain tra chi ha votato, ben esprime l’idea di un mandato a continuare per il progetto europeo ma tenendo conto di un’ampia quota di insoddisfazione (sentita soprattutto dalle classi sociali più basse). Questo è il messaggio che sarebbe arrivato se avessero votato solo gli under 35. Questo «sì» poco entusiastico è stato però del tutto sommerso dal «no» convinto e compatto all’Europa dato delle generazioni più mature. Hanno così, di fatto, deciso gli anziani su una questione che non cambia molto la vita di un ottantenne ma che avrà conseguenze rilevanti sui ventenni sia inglesi che europei.
È interessante inoltre notare come, di fatto, i giovani che si sono astenuti non abbiano lasciato che altri coetanei decidessero per loro, hanno invece subìto la scelta di generazioni molto lontane dalla propria come sensibilità e interessi. Questo era più difficile in passato quando i giovani erano tanti e gli anziani pochi. Il rischio che – quando è in gioco una scelta che ha conseguenze soprattutto sulle nuove generazioni – la scelta dell’elettorato più giovane venga contraddetta da un orientamento contrario dell’elettorato più anziano è in continua crescita per l’invecchiamento della popolazione.
Il tema che si pone non è tanto se sia migliore il voto di un ventenne o quello di un ottantenne, visto però che sarà soprattutto il primo a beneficiare o subire domani le conseguenze delle scelte collettive prese oggi, si può pensare che sia giusto che al suo parere venga dato adeguato peso. Detto in altri termini, se da una decisione comune Ego può guadagnare 2 e perdere 2 e Alter invece al massimo può perdere 1 o guadagnare 1, è giusto che entrambi contribuiscano allo stesso modo alla scelta da prendere?
La necessità di far contare di più il futuro sulle scelte del presente è sempre più riconosciuta nel dibattito pubblico dei Paesi occidentali, anche se stenta a trovare una via innovativa di concretizzazione. In un seminario organizzato dalla Corte costituzionale nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Gustavo Zagrebelsky ha affrontato la questione dei diritti delle generazioni future partendo dalla storia dell’Isola di Pasqua, «grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro, per gigantismo e imprevidenza». Come fare in modo che le generazioni di oggi non facciano scelte miopi, a danno di chi verrà dopo? Per riconoscere i diritti delle generazioni future è necessario ribilanciarli con i doveri di quelle presenti. Per estendere i diritti «nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente».
Un tema davvero molto complesso e delicato che richiederebbe una grande e profonda riflessione collettiva in grado di trovare soluzioni nuove, anche rimettendo in discussione vecchie e consolidate certezze.