Posts By: Alessandro Rosina

Dalla demografia un dividendo per India e Africa

La demografia è una delle grandi forze di cambiamento del nostro tempo. Il suo ruolo è stato a lungo sottovalutato perché nel passato la popolazione tendeva a crescere molto lentamente e a mantenere una struttura stabile. Per gran parte della storia dell’umanità il funzionamento della società e dell’economia ha potuto contare su una larga base di giovani e relativamente pochi anziani. Del tutto nuova è, invece, la sfida di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui le nuove generazioni diventano una risorsa scarsa a fronte di un continuo aumento della componente più matura.

Come evitare un’Europa senza nascite

Una delle conquiste maggiori della storia dell’umanità è il passaggio da un mondo in cui la morte prematura di un figlio era una condizione del tutto normale a uno nel quale questo è un evento raro. Dove questo passaggio è già di fatto compiuto, come in Europa, è sufficiente una fecondità totale (numero medio di figli per donna) attorno a due per mantenere un equilibrio tra generazioni (soglia di rimpiazzo). Posizionarsi al di sotto di tale soglia porta le generazioni dei figli a ridursi progressivamente rispetto a quelle dei genitori. La conseguenza maggiore non è tanto il declino demografico quanto, soprattutto, un’alterazione nell’impianto strutturale della popolazione con il peso dei più anziani che diventa soverchiante sui più giovani.

Il Rapporto. I giovani adesso vogliono contare. L’Italia impari a dare più ascolto

I dati dell’edizione 2023 del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo ci dicono soprattutto che i giovani italiani vorrebbero scegliere e vorrebbero poter contare, ma forse mai come in questo momento storico si trovano in difficoltà a farlo.

Come società sappiamo bene come e dove vogliamo che i giovani siano. Li vogliamo trovare nelle scuole, nelle aziende, nelle organizzazioni impegnate nel sociale, nei luoghi di culto, nei seggi elettorali, nella condizione di persone autonome, nella formazione di nuovi nuclei familiari, nell’esperienza genitoriale.

Quello che è certo è che tutti tali luoghi sono sempre meno popolati dalle nuove generazioni. Un motivo strutturale è ben noto, chiama in causa la bassa natalità che caratterizza in particolare il nostro paese e che sta alla base del processo di degiovanimento.

Le stesse trasformazioni demografiche vanno soprattutto considerate una questione di rinnovo generazionale. Gli squilibri nel rapporto quantitativo tra giovani e anziani sono la conseguenza dell’indebolimento dei meccanismi qualitativi che regolano il ricambio tra vecchie e nuove generazioni. Nessuna società può funzionare senza essere generativa verso il futuro, ovvero senza dar vita alle generazioni successive, metterle nelle condizioni di: crescere in un contesto sano e sicuro; formarsi bene; trovare sostegno nella capacità, a propria volta, di generare valore.

Ciò che non aiuta chi è nella fase giovanile a compiere in modo solido la transizione scuola-lavoro, a fare esperienze di valore sociale che rafforzano senso di appartenenza e fiducia in se stessi, a conquistare una propria autonomia abitativa e a formare una propria famiglia, rende più deboli i progetti di vita delle nuove generazioni. Il degiovanimento quantitativo è, quindi, a sua volta, soprattutto conseguenza di un degiovanimento qualitativo, ovvero della bassa presenza di giovani nei contesti in cui si apprende e agisce il cambiamento come soggetti attivi, responsabili e consapevoli.

Ma basta, allora, fare in modo che i giovani siano dove ci aspettiamo, come società, che debbano trovarsi? Non è più così, ci dicono le analisi del Rapporto giovani 2023, o comunque lo è molto meno che in passato.

Basta che essi siano a scuola? Se vogliamo che ci rimangano di più è sufficiente spostare a 18 anni l’obbligo scolastico? No, non basta come contrasto alla dispersione scolastica (ovvero l‘abbandono precoce del percorso formativo) e ancor meno per ridurre la dispersione implicita (ovvero il conseguimento del diploma ma con livelli di preparazione e competenza molto bassi, insufficienti per affrontare con successo la vita e il mondo nelle società moderne avanzate). Serve di più. Serve che i ragazzi scelgano di stare a scuola e di investire sul proprio percorso formativo. Ma questo significa creare ambienti stimolanti e motivanti, riconoscere i mutamenti nelle modalità di apprendimento delle nuove generazioni, andare incontro alle specificità dei singoli, mettere in relazione ciò che si impara a scuola con il proprio essere e fare nel mondo.

Basta, poi, per aumentare la presenza nel mondo del lavoro, rendere più facili le modalità di assunzione dei giovani da parte delle aziende? La flessibilità intesa come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non  più funzionale non si è certo rivelata una soluzione efficace per migliorare la condizione lavorativa delle nuove generazioni. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. A questa richiesta di adattamento continuo al ribasso, che limita la capacità di dare il meglio di sé nel lavoro e frena i progetti di vita, i giovani sono diventati sempre più insofferenti. L’impatto della pandemia ha, inoltre, accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e sull’idea di lavoro. La flessibilità di cui le nuove generazioni hanno bisogno è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali.

Non basta, detto in altre parole, formare bene i giovani, potenziare i servizi per l’impiego e dare incentivi per l’occupazione (tutti aspetti comunque più carenti in Italia rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo), è necessario anche essere attrattivi nei loro confronti e saper valorizzare al meglio il loro specifico contributo. Nei membri della Generazione Zeta è forte il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero, prima di tutto, portare quello che sono. Il fenomeno della “Great resignation” è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione richiesta, ma generare valore con la novità che rappresentano. Questo non vale solo nel mondo del lavoro, ma anche in molti altri campi, compreso quello della partecipazione politica e sociale.

Su quest’ultimo fronte, non basta, allora, aumentare i posti di Servizio civile, come non basta abbassare a 18 anni l’età al voto al Senato. I dati disponibili sembrano indicare che nonostante tali misure la presenza dei giovani nel volontariato e nei seggi elettorali non sia aumentata. Riguardo al Servizio civile, perché sia davvero “universale” deve diventare effettivamente accessibile a ciascun giovane. Questo significa chiedersi continuamente come renderlo attrattivo (capace di farsi scegliere) e come migliorare continuamente le condizioni perché sia vissuto come esperienza trasformativa (che rafforza la capacità di sentirsi soggetti attivi del mondo che cambia). Su come farlo non ci sono risposte definitive e risultati scontati.  Quello che i dati dicono è, in ogni caso, che non è diminuita l’offerta di partecipazione e tantomeno la voglia di protagonismo. C’è, in particolare, un forte desiderio di esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la propria spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

A differenza delle generazioni socializzate nei primi decenni del secondo dopoguerra, lo stesso voto alle elezioni risulta sempre meno una pratica a cui si attribuisce un valore in sé e, di conseguenza, è sempre meno una scelta scontata. È l’interesse verso l’esito atteso che porta le nuove generazioni a “prendere parte”. Ed è, poi, il riscontro che fornisce l’esperienza fatta che le porta poi a riconoscerne utilità e valore, rafforzando anche il senso di appartenenza. Vale, in generale, per il lavoro e le scelte professionali, per la partecipazione sociale e politica, ma vale, sempre più, anche per la scelta di avere un figlio (che da desiderio deve farsi esperienza di valore che rafforza il senso di comunità).

Ma tutto questo, per evolvere nella direzione più virtuosa, ha bisogno di due condizioni. La prima è il rafforzamento della capacità di scegliere – o meglio di discernere – da parte dei giovani, ovvero di rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla positivamente). La seconda è che i luoghi nei quali i giovani possono diventare soggetti attivi e generativi siano attrattivi, questo non significa solo saper offrire un’esperienza positiva, ma essere disposti anche a mettersi in discussione con la novità che portano, in grado di riconoscere la specificità del contributo dei singoli ma allo stesso tempo far sentire di essere parte di un processo che genera valore condiviso.

Condizioni entrambe fondamentali per non rassegnarsi a contare anno dopo anno sempre meno giovani in un paese in cui i giovani contano sempre di meno.

Troppi squilibri tra generazioni, occorrono case servizi e lavoro

L’Italia è uno dei paesi da più lungo tempo in crisi demografica, ovvero in forte deficit rispetto alla capacità di garantire un ricambio generazionale equilibrato nella popolazione (e, conseguentemente, nei processi sociali e produttivi).

La fecondità italiana è precipitata da valori superiori a due figli in media per donna (soglia di rimpiazzo tra generazioni) a metà degli anni Settanta del secolo scorso, a meno di 1,5 figli prima della metà degli anni Ottanta. Non è poi più risalita sopra tale valore. Questo ha profondamente alterato la struttura per età, con un progressivo sbilanciamento negativo verso le età più giovani. Nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui la popolazione inferiore ai 15 anni è scesa sotto quella di chi ha 65 anni e oltre. Successivamente siamo diventati il paese con più bassa incidenza di under 35 in Europa, entrando quindi, in modo più accentuato delle altre economie mature avanzate, in una fase di inedita e marcata riduzione delle coorti entranti in età lavorativa (oltre che riproduttiva).

Queste dinamiche hanno portato all’esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone per l’Italia non è più far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciar aumentare gli squilibri interni tra generazioni. Il rischio maggiore è ora quello di superare il punto di non ritorno anche rispetto alla curva delle nascite.

Nelle “Considerazioni finali”, presentate il 31 maggio in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha indicato la crisi demografica come una delle maggiori debolezza di fondo del Paese. Ha, in particolare, indicato l’immigrazione come uno dei fattori principali per mitigare la riduzione della forza lavoro potenziale, conseguenza della persistente denatalità. Per quanto rilevante sia e possa continuare ad essere il contributo dei flussi migratori, se la natalità continua a diminuire tali ingressi saranno sempre più insufficienti a colmare gli squilibri strutturali crescenti nel rapporto tra popolazione anziana e in età lavorativa. Se, da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, senza solide politiche familiari e generazionali a trovarsi ancor più in difficoltà nei propri progetti di vita saranno ancor più i figli degli immigrati e le famiglie straniere.

Non è possibile, quindi, affrontare la sfida demografica pensando solo di gestire gli squilibri, spostando in avanti l’età pensionabile e aumentando l’immigrazione, è cruciale intervenire in modo concomitante sulle cause.

I dati, del resto, sono eloquenti. Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario mediano delle più recenti previsioni Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario alto delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione.

Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario, insomma, convergere verso i paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due.

Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. Intervenire in questa direzione in modo sistemico non favorisce solo la vitalità del territorio ma porta anche a migliorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni da realizzare dopo l’impatto ulteriormente depressivo della pandemia.

E’ però bene essere consapevoli che non esistono misure in grado di essere da sole trasformative, vanno disegnate e implementate in modo da produrre un effetto leva in modo integrato. Il sostegno economico fornisce senz’altro il riscontro più immediato del valore collettivo dato alla scelta di avere figli. Ma perché a tale spinta si agganci un processo di inversione di tendenza che continui nel medio-lungo periodo serve un forte investimento sulle misure di conciliazione. L’asse portate è un solido sistema di servizi per l’infanzia con offerta accessibile – in termini di copertura, costi e qualità adeguata – sul tutto il territorio. La cultura della conciliazione deve, poi, essere aiutata a svilupparsi e consolidarsi nelle aziende (comprese le piccole e medie, aiutandole a trovare soluzioni specifiche in termini di part-time e smart working) e sul versante maschile (promuovendo i congedi obbligatori di paternità). Va, inoltre, rafforzato il percorso di autonomia dei giovani, con adeguate politiche abitative e di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Siamo, del resto, il paese in Europa con età più tardiva al primo figlio.

Su tutti questi fronti continuiamo, da troppo tempo, ad essere molto più deboli rispetto alle altre economie avanzate con le quali ci confrontiamo, con conseguenti squilibri che vincolano al ribasso sviluppo e benessere futuro.

Cambiare il lavoro

Il mondo del lavoro si trova di fronte ad un grosso problema: le nuove generazioni si sono messe in testa di voler e poter scegliere. Un cambiamento che trova molti datori di lavoro impreparati e in certa misura sconcertati. Eppure si tratta di una notizia positiva. Ma non per tutti. Solo per i contesti in grado di essere attrattivi verso i giovani e metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé.

Questo ha bisogno di alcune condizioni. Serve, innanzitutto, preparare a saper scegliere, ovvero a rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla). La carenza di orientamento nel sistema scolastico e nei servizi delle politiche attive rende i giovani italiani più fragili rispetto alla capacità di scelta e più esposti ad esperienze negative. I dati pubblicati nel “Rapporto giovani 2023” dell’Istituto Toniolo, in uscita in questi giorni, evidenziano come nelle nuove generazioni ci sia una forte richiesta di rendere più coerente il rapporto tra scuola e lavoro. Gli imprenditori italiani si  accorgono dei limiti della manodopera quando devono assumere, mentre molto meno si fa, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua delle aziende con le scuole e i servizi del territorio. Ma interagire con i giovani mentre sono ancora nelle ultime classi della secondaria consente anche di iniziare a prendere le misure reciproche, a capire come cambia il modo di pensare al lavoro, a riconoscere fragilità e potenzialità specifiche nei processi di apprendimento, motivazione e impegno attivo.

Oltre ad adeguata formazione e migliori sistemi di orientamento e accompagnamento all’ingresso nel mondo del lavoro, è sempre più sentita la necessità di mettere in relazione coerente crescita personale e professionale. La flessibilità in Italia è stata interpretata, più che nelle altre economie avanzate, come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non più funzionale all’azienda. La bassa qualità della domanda di lavoro ha reso più fragile anche l’offerta, per il basso rendimento dell’istruzione, indebolendo sia le opportunità delle nuove generazioni che la capacità di innovazione e competitività (puntando sulla qualità di prodotti e servizi) del nostro sistema produttivo. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. Non a caso, le scelte più accentuate rispetto ai coetanei degli altri paesi sono quelle di rimanere più a lungo a vivere con i genitori in attesa di condizioni migliori e quella di cercare migliori opportunità all’estero. Questa distorsione della lettura della flessibilità – intesa come richiesta di adattarsi ad un esistente sempre più scadente che porta l’esistenza a diventare sempre meno soddisfacente – ha portato ad indebolire non solo il ruolo economico delle nuove generazioni ma anche le loro scelte di vita. A tutto questo i giovani sono diventati sempre più insofferenti. Lo stesso impatto della pandemia ha accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e all’idea di lavoro, che risulta incompatibile con questo tipo di flessibilità. Inoltre, le dinamiche demografiche rendono ancor più prezioso che in passato il ruolo dei giovani qualificati per organizzazioni e territori che vogliano alimentare processi di sviluppo avanzato e sostenibile.

La flessibilità che davvero serve è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali. L’attenzione, in quest’ottica, più che sulla singola azienda che perde il lavoratore dovrebbe essere sulla persona che migliora la propria capacità di essere attiva nei processi di crescita e produzione di benessere del paese, in grado di portare di più nella nuova azienda in cui entra rispetto a quella che ha lasciato. E’ sul rafforzamento di questi percorsi che si misura la salute del mercato del lavoro nelle società moderne avanzate in continuo e rapido cambiamento. In questa prospettiva le dimissioni sono fisiologiche e spingono le stesse imprese, nel medio periodo, a migliorarsi in tensione continua con la novità che portano le nuove generazioni. Più quindi che preoccuparsi per il fenomeno della Great resignation, va interpretato e accompagnato un processo di mutamento che è articolato e complesso, i cui esiti potenzialmente positivi non sono scontati. Sappiamo, però, che va nella direzione giusta ciò che favorisce il rafforzamento e la valorizzazione dei percorsi formativi e professionali in tutte le fasi di una lunga vita attiva, a partire dai nuovi ingressi.