Questo valore è il più basso non solo di questo secolo, ma anche di quello precedente e di quello prima ancora, quantomeno da quando l’Italia è unita. Ma già nel 2013 avevamo fatto meno bambini di sempre. Poi nel 2014 abbiamo ritoccato al ribasso tale valore. Siamo scesi ancor di più nel 2015 e nel 2016 abbiamo fatto ancora peggio. Detto in altre parole, il declino delle nascite italiane oramai non è più una notizia. Intanto però la demografia è implacabile – se non si fanno le scelte giuste per tempo – nell’erodere i margini del nostro futuro. E come lo fa?
Posts By: Alessandro Rosina
Immigrazione, i numeri dei nuovi italiani
L’immigrazione è una sfida complessa e delicata che non si vince né con i muri né con l’accoglienza disordinata e indiscriminata. Fa parte di un mondo diverso dal passato che va prima di tutto capito. Questa difficoltà a capire e a trovare soluzioni convincenti la sta vivendo, pur in modi diversi, sia l’Europa che gli Stati Uniti. In questa fase stanno nettamente prevalendo i timori, ma la direzione della storia ci porta comunque verso un pianeta in cui sarà sempre più facile e normale trovarsi a vivere in un luogo diverso da quello in cui si è nati. Un mondo di questo tipo è anche quello che le nuove generazioni sono portate per propria pulsione interna a desiderare. Le resistenze arrivano però da come stiamo vivendo oggi le implicazioni di questo cambiamento.
Inutile girarci attorno: niente figli, niente futuro
Non siamo esseri immortali. Il mondo evolve attraverso il ricambio generazionale. Se facciamo pochi figli la popolazione tende ad invecchiare in modo insostenibile rispetto alla possibilità di creare ricchezza e benessere. Lo slogan del “Ferility Day” che invitava a considerare la fertilità (ovvero la capacità riproduttiva dei singoli) un bene comune è discutibile, dovremmo invece considerare le nuove generazioni come una ricchezza collettiva da accrescere e valorizzare.
Altro errore è far sentire in colpa chi non ha bambini. Non bisogna agire sul sentirsi in dovere di generare, ma sulla possibilità di realizzare con successo scelte desiderate. Ciò significa far sì che chi desidera avere un figlio possa trovare un contesto che lo incoraggi e lo sostenga in tale scelta. In Italia invece l’avere figli è considerato un costo privato, non a caso siamo uno dei Paesi in cui meno si fanno figli ma più alto è anche il rischio di povertà di chi li ha.
La fertilità, l’attitudine fisica a concepire, è quindi un aspetto privato, da gestire con assoluta libertà di scelta. Ma il bene delle nuove generazioni deve riguardare tutta la collettività, a partire dalle politiche pubbliche (un tema cruciale approfondito su: A.Rosina, S.Sorgi, Il futuro che (non) c’è, Bocconi editore, 2016). La crisi demografica più di ogni altra rivela come l’Italia stia attraversando una fase delicata e problematica rispetto alla capacità di dare basi solide e prospettive prosperose al proprio futuro. L’indicatore più sensibile ai livelli di fiducia sociale e di incoraggiamento a fare scelte di impegno positivo verso il domani è proprio la natalità.
La scelta di avere un figlio va, infatti, allo stesso tempo intesa come conferma del senso di appartenenza alla comunità in cui si vive e di impegno positivo verso il futuro. Il bello del mondo di oggi, rispetto al passato quando si davano per scontati, è che ora i figli si scelgono. Il brutto, invece, è che non stiamo favorendo le condizioni perché tale scelta – pur desiderata e socialmente virtuosa – possa essere pienamente realizzata arricchendo le vite delle famiglie italiane e rendendo più solida la nostra società.
Il dato recente sul numero di nascite annue sotto il mezzo milione, risulta particolarmente negativo per vari motivi: perché equivale a meno della metà dei nati negli anni Sessanta, perché si tratta del valore più basso dall’Unità d’Italia ad oggi, perché è il quarto anno consecutivo che battiamo tale record negativo.
Ciò che caratterizza il nostro Paese non è solo l’essere uno dei Paesi meno prolifici, ma la persistenza della fecondità su valori molto bassi: da oltre tre decenni il numero medio di figli per donna è sotto la soglia di uno e mezzo. Difficilmente si trova un Paese in tali condizioni. Le regioni del Nord Italia, sono state precursori di questa revisione al ribasso delle scelte riproduttive. Se nel complesso del Paese il tasso di fecondità totale è sceso sotto il valore di 2 nel 1977 e sotto il valore di 1,5 nel 1984, arrivando poi al punto più basso nel 1995 con 1,19 figli, in Lombardia già nel 1979 si era caduti sotto un figlio e mezzo per scivolare ulteriormente fino a 1,07 a metà anni Novanta. È però vero che a partire dalla metà degli anni Novanta è iniziato un percorso nuovo che ha visto per la prima volta le regioni del Nord e quelle del Sud seguire percorsi diversi. L’area centro-settentrionale ha avviato un processo di lenta progressiva crescita, mentre il meridione ha proseguito un processo di tendenziale declino. L’esito di tali due opposte dinamiche ha portato prima all’annullamento del secolare vantaggio riproduttivo del Sud e successivamente ad un inedito sorpasso del Nord.
È però importante tener presente che il numero medio di figli desiderato non è invece mai sceso sotto il valore di 2, questo vale anche per le generazioni più giovani come mostrano i dati del “Rapporto Giovani” dell’Istituto Toniolo. Se ne deduce che nelle regioni del Nord le condizioni sono state relativamente più favorevoli per la realizzazione della scelta di un figlio in più rispetto al resto d’Italia (ma non rispetto al resto dei Paesi sviluppati), mentre nell’area meridionale le maggiori difficoltà dei giovani a trovare lavoro e formare nuove coppie, in com- binazione con una più carente rete di servizi per l’infanzia, hanno compresso la fecondità verso il basso.
Il legame oggi più stretto e diretto tra economia, welfare e demografia sembra trovare conferma anche dall’impatto della grande crisi iniziata nel 2008. Un effetto negativo sulle nascite si osserva in tutta Europa, ma con maggior accentuazione sul nostro paese. In un contesto già problematico come quello italiano, si sono ristretti i fondi pubblici a favore dei servizi di conciliazione; sono cresciute le coppie in difficoltà economica; i giovani hanno trovato ancor più difficoltà a formare nuovi nuclei familiari; ma oltre ai motivi economici e strutturali, è aumentata l’incertezza verso il futuro. La moderata ripresa delle nascite si è così negli ultimi anni fermata, anche nelle regioni del Nord, in attesa di tempi migliori e politiche lungimiranti.
Non c’è, in molti casi, una vera rinuncia ad avere un figlio. Spesso la scelta positiva – soprattutto in condizione di contesto culturale e strutturale poco favorevole – rimane ferma in un punto indefinito del processo decisionale senza mai veramente sbloccarsi. Via via però che il tempo passa e che l’età avanza, da un lato ci si adatta ad uno stile di vita fatto di abitudini che si ha sempre meno voglia di rimettere in di- scussione, d’altro lato, soprattutto sul versante femminile, ci si accorge che avere un figlio è sempre più difficile e complicato anche perché gli anni più fertili sono passati.
L’evidenza di tutto questo la si trova nel fatto che la quota di donne che arrivano ai 50 anni senza figli è raddoppiata rispetto alle generazioni precedenti, salendo oltre il 20%. Tale valore può aumentare ancor di più se la crisi economica porta alcune strategie adattive a diventare vincoli verso il basso. Negli anni più recenti è, infatti, aumentato soprattutto il numero di donne arrivate attorno ai 35 anni senza figli. Se esse non incroceranno in tempi brevi le condizioni per recuperare i loro progetti di vita, la discesa congiunturale delle nascite negli anni di crisi rischia di trasformarsi in rinuncia definitiva.
Un nuovo progetto riformista con al centro le nuove generazioni
Senza riforme ci si tiene un Paese che non funziona o che funziona per sempre meno cittadini. Chi ha rendite di posizione e benessere passato da proteggere, migliora la propria situazione relativa. Chi è in difficoltà o fa il suo ingresso nella vita adulta e professionale, si trova invece con crescente rischio di esclusione e restrizione di opportunità. Nel complesso il paese stenta a crescere e aumentano le diseguaglianze.
Giovani e “bufale” online. Come usare bene quella libertà di cui non riusciamo più a fare a meno
Viviamo in un mondo nel quale la possibilità di confronto, di accesso alle informazioni ed espressione libera delle opinioni è incommensurabilmente superiore rispetto a qualsiasi epoca precedente. Questo non significa però che la nostra capacità di comprendere la realtà, di ascolto degli altri, di relazione autentica, sia migliorata. Umberto Eco è arrivato provocatoriamente ad affermare che “i social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Gli imbecilli, nell’accezione di Eco, sono coloro che non sanno formarsi una opinione fondata su un argomento ma sono ben pronti ad esprimere un proprio convinto giudizio. Antepongono la reazione emotiva e spontanea alla comprensione solida dei fatti. In passato la loro sfera di azione era limitata ai bar, senza danneggiare troppo la collettività, mentre ora hanno la stessa platea potenziale di un premio Nobel. Questa invettiva di Eco non deve però portare a pensare che il problema sia la Rete. Il web e i social network sono ormai irrinunciabili, non solo tra i giovani. La questione vera è allora come migliorarne l’uso e difendersi dalle insidie.
Questo tema è molto sentito dalle stesse nuove generazioni, come mostrano i dati della ricerca dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo che verrà presentata al convegno “Parole O_Stili” il 17 febbraio a Trieste. Emerge una convinzione forte da tale ricerca: la Rete e la libertà di espressione nei social network non possono essere messe in discussione. Questa convinzione non esclude l’aumento della consapevolezza sui limiti di questi strumenti. Per la grande maggioranza dei giovani intervistati il bello dei Social è proprio quello di poter esprimere apertamente il proprio punto di vista anche sulle questioni più controverse dell’attualità e farlo con linguaggio diretto e schietto. Esattamente come in passato avveniva nei bar, direbbe Eco. Il punto è quindi il fatto che oggi le opinioni non qualificate e le convinzioni infondate sono di dominio pubblico e possono essere rilanciate e amplificate senza limiti. C’è di più, gli imbecilli sono anche quelli più veloci a rilanciare notizie false perché non perdono tempo a verificarle, hanno quindi un vantaggio competitivo sugli altri nel decidere cosa far diventare virale (e quindi di successo) e cosa no. Questo i giovani lo sanno bene. Fanno molto uso dei Social ma ne hanno una fiducia molto bassa. Sanno che per la grande maggioranza sono un luogo di svago e divertimento, dove conta più ciò che di sé si vuol rappresentare che quello che si è veramente, la percezione più della realtà effettiva. Coerentemente con questo, l’86,6 percento degli intervistati ritiene che non vadano presi troppo sul serio perché i contenuti che vi si pubblicano possono essere tanto veri quanto “inventati”.
Se la convinzione che la Rete debba mantenersi luogo libero di espressione e la consapevolezza delle insidie presenti, sono trasversalmente condivise nelle nuove generazioni, molto articolati sono però gli stili e le strategie che i singoli adottano. C’è una parte minoritaria, ma non trascurabile, che non usa alcun tipo di protezione, ovvero si esprime senza filtri e condivide qualsiasi cosa in sintonia con il proprio stato emotivo, indipendentemente dall’autenticità dei contenuti. Una parte, non riuscendo a gestire i rischi si astiene, ovvero ritrae sfiduciata la propria presenza dai Social. Ma la parte più consistente è in continua ricerca di migliori strumenti per costruire relazioni creative e condividere informazioni utili sul web. E’ questa parte che va aiutata a crescere e a diventare vincente.