Posts By: Alessandro Rosina

Una trappola da evitare

(ESTRATTO)

E’ bene essere consapevoli che per la situazione in cui l’Italia si trova (come combinazione di persistente bassa fecondità e struttura demografica sbilanciata a sfavore delle nuove generazioni) la possibilità di dare impulso a una solida nuova fase che porti verso lo scenario alto si può ottenere solo allineandosi alle migliori esperienze europee.

Le esperienze europee ci dicono che l’aiuto economico è la leva più efficace come effetto di breve periodo per risollevare le nascite, perché consente di sbloccare – tanto più dopo una crisi e in condizioni di incertezza – una scelta lasciata in sospeso e continuamente rinviata. Ma affinché a tale impulso si agganci un effettivo processo di inversione di tendenza che prosegua nel medio-lungo periodo serve un processo di solido miglioramento di servizi e strumenti a favore delle famiglie e a sostegno delle scelte genitoriali (con monitoraggio e valutazione continua dell’efficacia rispetto ai risultati attesi).

La longevità è una chance, ma serve un welfare solido e funzionante

I dati recentemente pubblicati dall’Istat sulla natalità italiana risultano particolarmente preoccupanti perché vedono vincolato il nostro paese su livelli molto bassi senza alcun segnale di ripresa. Mostrano come la combinazione tra le difficoltà oggettive del presente e l’incertezza verso il futuro continui a bloccare la scelta di avere figli, con scarsa capacità delle politiche pubbliche di intervenire in modo efficace. L’Assegno unico e universale è uno strumento che va nella direzione giusta, ma la parte universale rimane molto debole e al di sotto delle migliori esperienze europee. Lo stesso vale per i congedi di paternità. Il potenziamento su tutto il territorio dei nidi, attraverso il PNRR, si confronta con difficoltà di implementazione proprio nelle aree che più ne hanno bisogno. Non c’è nessun paese con basso divario di genere nei tassi di occupazione e basso divario tra numero di figli desiderato e realizzato che non abbia investito in solide politiche di conciliazione. Non è un caso che l’Italia si trovi con la peggiore combinazione in Europa di tali due indicatori.

Rischi di un’Italia in crisi di nascite

Meno di un figlio e un quarto, è poco?

L’Istat ha reso ufficiale il dato della fecondità italiana nel 2022, che risulta pari a 1,24 figli. Dobbiamo considerarlo un dato basso? Quanto basso? Una prima risposta è che è tra i più bassi in Europa. Una seconda è che è molto inferiore al livello di 2,1 che corrisponde alla soglia di equilibrio nel rapporto quantitativo tra vecchie e nuove generazioni. La terza è che è molto lontano dal numero medio di figli desiderato (valore che varie indagini, comprese quelle Istat, collocano attorno a due).

C’è però un ulteriore motivo per considerarlo basso ed è legato all’effetto che ha sulle nascite. La persistenza della fecondità italiana su livelli molto inferiori alla soglia di equilibrio tra generazioni ha assottigliato le basi della piramide demografica, arrivando a erodere sempre di più la fascia in cui si fanno i figli. Ogni nuova generazione di potenziali madri risulta, pertanto, progressivamente più esigua. Ne consegue che più si va avanti nel tempo e più alla bassa fecondità corrisponderà un ancor più basso numero di nati.

Nel contempo, la longevità fa aumentare la popolazione anziana, cosicché le nascite in diminuzione rendono ancor più accentuati gli squilibri nel rapporto tra generazioni.

Le conseguenze di squilibri fuori controllo

Tutto questo significa che, per gli effetti che ne derivano, un numero medio di figli per donna pari a 1,24 è oggi ancor più grave che nei decenni precedenti e sarà ancor più grave nei decenni che ci aspettano.

In particolare, venticinque anni fa, a livelli di fecondità analoghi a quelli di oggi corrispondevano più di 520 mila nascite, mentre il dato attuale è inferiore a 400 mila (393 mila nel 2022). E se la fecondità dovesse rimanere sui bassi valori attuali, tra venticinque anni le nascite scenderanno a circa 340 mila. In più, venticinque anni fa i 75enni erano poco più di 480 mila, oggi sono oltre 650 mila e tra venticinque anni saranno più di 820 mila.

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Una manovra attenta alle famiglie ma debole nel favorire un’inversione di tendenza delle nascite

(di Alessandro Rosina e Chiara Saraceno)

Il disegno di Legge di Bilancio approvato il 16 ottobre dal Consiglio dei Ministri prevede circa un miliardo di euro destinati a misure a favore della famiglia, in particolare a sostegno delle scelte positive di natalità. Non è poco se l’idea è quella di dare un segnale a favore delle coppie con figli, non è abbastanza se l’obiettivo è sostenere un solido processo di ripresa delle nascite. Per il livello molto basso del numero medio di figli per donna e la struttura per età italiana squilibrata a sfavore delle età riproduttive, un’inversione di tendenza è possibile solo allineando le politiche familiari, di genere e generazionali italiane alle migliori esperienze europee. Anche dopo gli interventi previsti dalla manovra rimaniamo molto lontani da tale obiettivo. Servirebbe quindi un impegno maggiore in termini di risorse destinate, dato che nel tempo la crisi demografica è andata ad aggravarsi.

Riguardo al merito delle singole misure, ciascuna tocca punti importanti da migliorare, ma con due limiti di impostazione: quello di occuparsi del percorso riproduttivo saltando il primo figlio e quello di affrontare la conciliazione (tra lavoro e famiglia) lasciando debole la condivisione (tra madri e padri).

L’importanza di iniziare bene con il primo figlio

In particolare, è previsto un rafforzamento del “bonus asilo nido” che mira ad andare verso la gratuità, a partire dalle famiglie meno abbienti: obbiettivo condivisibile, ma non si capisce perché solo dal secondo figlio in poi. Inoltre il problema dei nidi in Italia non è solo il loro costo per le famiglie, ma la loro mancanza. Anche tenendo conto dei nidi privati, il cui costo non è calmierato e diversificato in base all’ISEE, come avviene per i nidi pubblici e convenzionati, solo un bambino su tre ha teoricamente un posto al nido a livello nazionale, una proporzione che nel Mezzogiorno diventa uno su dieci.

Bene, anche, favorire le madri che lavorano con incentivi all’assunzione, a cui si aggiunge la proposta di decontribuzione che rafforza la busta paga. Ma anche qui dal secondo figlio in poi e in modo strutturale solo a partire dal terzo figlio, una situazione che riguarda una frazione piccolissima di madri lavoratrici, dato che le madri vengono spesso scoraggiate dal rimanere nel mercato del lavoro già dal primo figlio.

Il freno maggiore in Italia nel processo di formazione della famiglia è costituito dalle difficoltà che incontrano le nuove generazioni se desiderano diventare genitori. Non a caso l’Italia è uno dei paesi in Europa con più bassa fecondità prima dei 30 anni e con maggior posticipazione dell’arrivo del primo figlio. Come mostrano i dati Istat, negli ultimi quindici anni il rischio di povertà ha colpito soprattutto le coppie più giovani con figli (circa il doppio rispetto alle famiglie di over 65). Senza politiche che rafforzino il passaggio cruciale dalla condizione di figlio dipendente dai genitori a persona autonoma in grado di assumere responsabilità genitoriali, anche tutto il resto del percorso rimane debole. L’incertezza che grava su tale fase deve trovare risposta con politiche abitative, sostegno economico alla decisione di avere il primo figlio, certezza di poter ottenere un posto al nido e senza costi gravosi. Se si vuole favorire la possibilità di avvicinare il numero medio di figli realizzati con quello desiderato, aiutare le coppie ad aggiungere il secondo figlio ha ridotta efficacia se permangono le difficoltà sul primo.

L’importanza di tenere assieme conciliazione e condivisione

Le proposte contenute del disegno della manovra tendono inoltre a rafforzare il ruolo materno nelle responsabilità e carico di cura verso i figli, lasciando più marginale il ruolo dei padri.  Le esperienze in Europa di miglioramento insieme dell’occupazione femminile e della fecondità sono quelle che promuovono un coinvolgimento dei padri. Proseguendo quanto già fatto con la legge di stabilità del 2023, quando si è introdotta una indennità dell’80% (invece del 30%) per il primo mese di congedo parentale, il Governo intende proseguire in questa direzione offrendo un’indennità del 60% per il secondo mese. Lascia invece invariato a dieci giorni il congedo di paternità, pagato al 100%. E’   una scelta che non va nella direzione di riequilibrare le responsabilità di cura tra madri e padri, sia perché il congedo parentale è opzionale, mentre quello di paternità è obbligatorio, sia perché questo è totalmente indennizzato. Se si vuole che i padri assumano responsabilità di cura per un tempo ragionevole, è più efficace agire sul congedo di paternità. Risulta difficile superare le resistenze dei datori di lavoro che tendono ad interpretare la domanda di congedo parentale come scarso impegno verso l’azienda. Estendere il congedo obbligatorio di paternità avrebbe più effetto. Prendere un congedo dal lavoro quando nasce un figlio dovrebbe diventare la normalità non solo per le madri ma anche per i padri. Come molti studi evidenziano questo non diminuisce solo la quantità del carico di cura femminile,  ma consolida soprattutto la relazione di attaccamento tra padre e figli, aiutando inoltre a sviluppare codici di cura maschili. Quando più la nascita del primo figlio viene vissuta come esperienza positiva per tutti sul versante relazionale e non negativa su quello lavorativo, tanto più viene presa in considerazione la possibilità di averne altri.

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Il Governo tradisce i giovani e le donne

L’Italia è il Paese delle divisioni irrisolte che frenano lo sviluppo economico, accentuano gli squilibri demografici e inaspriscono le diseguaglianze sociali. Difficile trovare un altro paese in Europa con un divario al proprio interno, su indicatori sociali ed economici, così ampio come quello tra Nord e Sud della penisola italica. Ma arduo è trovare anche un paese con disparità così rilevanti, in particolare nel mondo del lavoro, tra uomini e donne. Ed è un’impresa riscontrare altrove squilibri tanto accentuati tra generazioni. Rispetto ai coetanei degli altri paesi i giovani italiani si trovano con maggior debito pubblico, maggior peso della popolazione anziana, maggior gap nei livelli di occupazione e reddito rispetto alla fascia più matura.