Posts By: Alessandro Rosina

Il tempo dei padri

Avere un figlio ti cambia la vita. Questo è senz’altro vero per le madri italiane, molto meno per i padri. La difficoltà della politica a rafforzare il congedo di paternità, la resistenza passiva dei datori di lavoro, la poca determinazione dei padri italiani a pretenderlo, sono una chiara conferma. Esiste qualche segnale dell’emergere di un nuovo ruolo paterno, all’interno però di un cambiamento ancora lento. Il recente caso del trentenne chef stellato Metullio, che lascia provvisoriamente da parte una brillante carriera per dedicare il suo tempo al figlio, si pone sulla punta di un iceberg che ha ancora un’enorme parte sommersa.

Alcune indicazioni interessanti dell’atteggiamento delle nuove generazioni sul rapporto tra lavoro e famiglia si possono trarre da un’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, condotta a gennaio su un campione rappresentativo di giovani tra i 20 e i 34 anni, fascia in cui rientra lo stesso Metullio.

I dati evidenziano come per le giovani donne italiane sia fortemente sentito il tema della conciliazione tra carriera e figli, per la carenza di servizi per l’infanzia ma anche per la scarsa collaborazione dei padri. La preoccupazione principale è quella di mantenere il lavoro e le laureate sono quelle che maggiormente riescono a gestire i due ruoli. Sul fronte maschile, sono soprattutto coloro che hanno un titolo di studio basso a intensificare l’attività lavorativa quando arrivo un figlio, per far fronte alle maggiori spese. Questo accade ancor di più se la madre non lavora o si trova a dover lasciare l’occupazione. La bassa occupazione femminile e i bassi redditi da lavoro di ampie fasce sociali costituiscono un freno sia per la natalità, sia per il tempo verso i figli da parte dei padri. Esiste però anche un aspetto culturale, messo in evidenza dai dati sui giovani che non hanno ancora figli e a cui è stato chiesto che cosa deciderebbero di fare nel caso diventassero genitori avendo un lavoro a tempo pieno. Le donne laureate si dividono quasi equamente tra chi diminuirebbe e chi manterrebbe l’impegno lavorativo, mostrando un forte interesse a combinare la realizzazione in entrambi gli ambiti di vita. Le donne con basso titolo di studio in quasi due casi su tre opterebbero invece per una riduzione sul fronte occupazione.

Dal lato maschile la situazione si ribalta, rendendo evidente anche come le scelte di conciliazione siano legate alle strategie di coppia, a loro volta dipendenti non solo da preferenze ma anche da mancanza di opportunità e vincoli presenti sul mercato del lavoro. In particolare il 29,5% dei laureati afferma che aumenterebbe l’impegno lavorativo per incrementare il reddito, contro il 34,6% di chi ha titolo di studio basso. I primi nel 50,1% dei casi manterrebbero lo stesso carico di lavoro e il 20,4% lo ridurrebbe “per dedicare più tempo alla famiglia”. I corrispondenti valori sono 48,5% e 16,9% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo.

In sintesi, il tempo paterno continua ad essere una risorsa scarsa per i bambini italiani. Per un cambiamento del ruolo dei padri è necessario che maturino nuovi modelli culturali, favoriti da esempi positivi come il caso dello chef stellato, ma serve anche che migliorino i redditi da lavoro delle fasce sociali medio-basse e che siano potenziati gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Si tratta di fattori che, nel loro insieme, agiscono positivamente sia sulla quantità delle nascite, particolarmente bassa in Italia, sia sull’occupazione femminile, sia sulla riduzione della povertà infantile, sia sull’equilibrio dei rapporti di genere, oltre che sulla qualità del rapporto tra padri e figli. Con conseguenze positive di lungo periodo sul benessere economico e relazionale della famiglia.

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Recessione demografica

Se l’Italia economica è in recessione tecnica, l’Italia demografica è in recessione cronica. Il segno meno sulla popolazione italiana persiste dal 2015, come certificato dagli ultimi dati Istat. Abbiamo buone ragioni per temere di trovarci nell’anticamera di una lunga fase di declino destinata a caratterizzare il resto del secolo.

Non siamo i soli, ma siamo più soli degli altri. In un’Europa che vede diminuire il suo peso nel mondo, l’Italia mostra di anticipare e accentuare tale tendenza: nessun altro grande paese europeo si trova in sistematica diminuzione. La Spagna ha superato i 46 milioni di abitanti nel 2008, ha subito una frenata negli anni acuti della crisi, ma ha poi ripreso a salire avvicinandosi ai 47 milioni. Più solida la crescita della Germania che ha guadagnato oltre un milione e mezzo di residenti dal 2015. Simile la situazione del Regno Unito. A metà tra Germania e Spagna si colloca invece la Francia.

L’Italia, che era nella top 10 dei paesi più popolati al mondo a metà del secolo scorso, ora non è più nemmeno nella top 20 ed è destinata a scendere sempre più in basso nei prossimi decenni. Il nostro peso relativo sul pianeta è sceso sotto lo 0,8 percento. Cina e India assieme superano il 35 percento. E’ evidente, da questi numeri, come avere ruolo in un’Europa che ha un suo ruolo nel mondo sia l’unico modo per non diventare del tutto marginali.

I dati demografici ci dicono però che manteniamo il non invidiabile podio mondiale dei paesi con più intenso invecchiamento della popolazione. Anche su questo punto anticipiamo e accentuiamo le tendenze: nel continente più vecchio l’Italia è il paese con più alta percentuale di anziani. Nel mondo l’incidenza di chi ha 65 anni e oltre è sotto il 10 percento. Tra i grandi paesi europei Francia, Spagna e Regno Unito si mantengono ancora sotto il 20 percento. La Germania arriva a superare il 21 percento. I recenti dati Istat posizionano il nostro paese al 22,8 percento.

In un editoriale redazionale pubblicato su Neodemos, la rivista online dei demografi, l’Italia è ritratta come “un sottomarino che sembra aver perso la spinta per riemergere”, bloccato sul fondo da una “questione demografica” di cui c’è bassa consapevolezza e scarsa capacità di cura.

La popolazione è come un organismo che per crescere ha bisogno di essere alimentato. A sostenerla sono le nascite e gli arrivi dall’estero. L’immigrazione è stata rilevante negli anni precedenti la crisi, ma è scoraggiata dalla bassa crescita economica ed è disincentivata oggi dalle forze politicamente maggioritarie nel paese. In compenso non viene offerto nessun solido e convincente rafforzamento dell’altra fonte della crescita demografica, ovvero la natalità. Tant’è vero che il numero medio di figli per donna rimane inchiodato ai livelli più bassi in Europa. Nelle scelte di vita dei cittadini italiani la ripresa post crisi non si è (ancora) vista. La fecondità anziché diminuire dopo la lunga congiuntura negativa e poi risalire, sembra essersi solo riposizionata su livelli più bassi. Evidentemente non appare ancora così solido il miglioramento delle condizioni economiche dei giovani e delle famiglie, o non ancora ben ancorato a politiche credibili di sviluppo in grado di rilanciare la fiducia del paese verso il proprio futuro. Ecco allora che le nascite del 2018 risultano ridotte del 22 percento rispetto al dato del 2008.

Oltre ad aver reso deboli le entrate abbiamo nel contempo rafforzato le uscite. Il quadro di incertezza e basse prospettive non solo tiene bassa la fecondità ma incentiva anche la scelta di cercare migliori opportunità altrove. Le emigrazioni nel 2018 sono salite a 160 mila. Fatto che contribuisce ulteriormente a far diminuire la popolazione e aumentare il peso della componente anziana.

Più che il declino della popolazione preoccupa la struttura sempre più indebolita sul versante delle nuove generazioni, sia per i vincoli che pone allo sviluppo economico e alla sostenibilità sociale, sia perché denatalità ed espatri sono spie sensibili delle difficoltà a costruire un futuro solido per sé e per chi verrà dopo. Se rinunciamo a questo rimane solo la rassegnazione e l’assuefazione a questi e a peggiori dati.

Una vera politica nuova nell’«ora grave» del Paese

Caro direttore,

l’occorrenza del centenario dell’Appello ai Liberi e Forti ispirato dal pensiero e dalla visione di don Sturzo ha sollecitato vari eventi e interventi sia di analisi del messaggio nel contesto storico dell’epoca sia di riflessione sulle possibili indicazioni da trarre per il momento attuale. Queste riflessioni possono risultare una forzatura se strumentali alla legittimazione di operazioni di parte nello scenario politico di oggi, sono invece utili quando contribuiscono al confronto costruttivo sull’impegno dei cattolici italiani a servizio del bene comune. Il valore di questo dibattito può essere misurato nella capacità di svilupparsi anche oltre la data del centenario e dai frutti che potrà produrre oltre le singole scadenze elettorali.

Ci sono almeno tre motivi per ritenere attuale l’appello. Il primo è quello del linguaggio, dello stile comunicativo: molto snello, diretto, incisivo, appassionante. C’è la scelta di non parlare alla pancia, ma di rivolgersi contemporaneamente alla testa e al cuore.

Il secondo riguarda i contenuti. C’è l’apertura al nuovo e l’invito a guardare oltre i confini del presente. C’è la spinta a una modernizzazione culturale ed economica in coerenza con le specificità del Paese, con particolare attenzione al territorio e allo sviluppo della cooperazione. Ci si rivolge a tutti, non solo ai cattolici, pur partendo dall’ispirazione dei princìpi universali del cristianesimo. C’è la convinzione di un futuro migliore nell’ambito della Società delle nazioni, che si prenda carico degli ideali di giustizia sociale e delle condizioni di lavoro. C’è la preoccupazione verso i più deboli, ai quali offrire vere soluzioni contrastando, con approccio autenticamente popolare, la seduzione corrosiva delle correnti disgregatrici. C’è, infine, la chiamata all’impegno per gli interessi «superiori della Patria senza pregiudizi né preconcetti».

Il terzo motivo è il riconoscimento dell’importanza di un ruolo attivo dei cattolici nella vita politica del Paese, non in quanto tali, ma come portatori di un atteggiamento positivo e propositivo, di un approccio orientato al mettersi a servizio, di valori coesivi. Non quindi una chiamata a formare un partito dei cattolici, ma, appunto, un appello a tutti i liberi e forti che si riconoscono negli ideali di giustizia e libertà. Liberi perché non asserviti a interessi di parte e quindi volontariamente spendibili per il bene comune. Forti perché in grado di mettere energie e intelligenze a disposizione degli interessi superiori del Paese.

L’attualità è anche riconducile al fatto che, pur in modo molto diverso, l’Italia vive una «grave ora» e rischia di perdersi. È triste riconoscerlo, ma siamo un Paese allo sbando. Dal punto di vista degli squilibri demografici siamo come di fronte alle conseguenze di una grande guerra, che però ci siamo autoinflitti: i ventenni sono oltre un terzo in meno rispetto ai cinquantenni. Oltre il livello di guardia è il debito pubblico; per troppi manca un lavoro dignitoso; aumentano le diseguaglianze; basse sono la produttività e la competitività internazionale; nonostante le potenzialità il Paese non riesce a tornare a crescere in modo solido. Forte è l’incertezza verso il futuro e crescente il senso di sfiducia. Il clima sociale è cupo, pieno di rancore, paura e rassegnazione. Prevale un’offerta politica che si rivolge soprattutto alla ‘pancia’ del Paese, che identifica nemici, che porta a vedere chi è diverso come ostile, che fonda il consenso sulla chiusura e la divisione.

Avremmo quindi anche oggi bisogno di una chiamata che abbia la capacità, come l’Appello ai liberi e forti, di rivolgersi allo stesso tempo al ‘cuore’ e alla ‘testa’ degli italiani. Ovvero in grado di mettere assieme ‘valori’ e ‘competenze’, due ingredienti entrambi diventati scarsi all’interno di una dieta politica italiana diventata sempre più povera e indigesta. Non è però da vecchi partiti e da una riedizione di operazioni del passato che si può trovare la soluzione, né si può sperare nell’emergere di un leader carismatico. Serve un modo nuovo di intendere l’impegno politico, con la capacità di creare un protagonismo diffuso a partire dalle realtà sociali più dinamiche e positive nel territorio del Paese, all’interno delle quali il mondo cattolico è spesso tra le componenti più vitali.

Senza politiche sulla famiglia ci areniamo

Dato che su queste pagine per anni, nella rubrica “La città che cambia”, ho raccontato una Milano che meglio del resto del Paese stava affrontando la crisi economica e che metteva in atto processi di innovazione inclusiva, posso ora permettermi di sollevare qualche critica. Stiamo gigioneggiando un po’ troppo: il vantarsi di essere diversi dal resto d’Italia sta diventando un po’ stucchevole e anche pericoloso. Da un lato il clima di aspettative crescenti incentiva il fare, sperimentare, partecipare ad un processo in cui la torta collettivamente si allarga (non schiacciati in difesa della propria fetta limitata). D’altro lato, si può rischiare di fare la fine della rana della favola di Esopo, che pur di mostrare di crescere si gonfia oltre misura.

Un segnale che fa riflettere è l’aumento di popolazione a fronte di una riduzione delle nascite. Ma Milano può essere meglio del resto del Paese se attrae senza far fiorire i progetti di vita? Può costruire un futuro migliore solo crescendo dall’alto? Può aprirsi al mondo senza essere luogo in cui venire al mondo? Durante la recessione la fecondità ha tenuto meglio rispetto al dato nazionale, ma preoccupa ora la mancanza di ripresa superata la burrasca. Interessante il confronto con Berlino, che presenta nascite in aumento. Berlino oggi è attraente per le condizioni economiche, ma anche per l’attenzione specifica ai servizi per le famiglie. Una coppia che decide di avere un figlio in tale complessa realtà, soprattutto se non ha una rete parentale di supporto, sa di poter trovare tutte le informazioni necessarie sul portale dedicato e accedere a una rete ampia di servizi (anche con soluzioni ad hoc) continuamente monitorati e migliorati. Se non ci si prende cura dei progetti di vita qualsiasi crescita rischia di essere una bolla che prima o poi implode.

Crescita, l’Italia dimentica la demografia

Italia sta andando da tempo nella direzione sbagliata e l’ultima manovra varata, purtroppo, risulta tutt’altro che un cambio di direzione.

Per capirlo basta far riferimento a un indicatore demografico con forti implicazioni economiche e sociali, guardato con molta attenzione nelle società moderne avanzate. Si tratta del rapporto tra chi ha 65 anni e oltre sulla popolazione in età attiva (tasso di dipendenza degli anziani). Non sappiamo come saranno la società e l’economia italiana nel 2030 o nel 2050, ma siamo in grado con buona precisione di anticipare come sarà la struttura per età della popolazione. Da questo punto di vista il futuro italiano risulta essere uno dei meno rassicuranti della vecchia Europa. La demografia non è di per sé una condanna se si fanno per tempo le scelte giuste, noi però continuiamo a non farle, aggravando ulteriormente le condizioni e le prospettive del Paese.

Sono cinque le leve su cui dovremmo sinergicamente agire nel presente per risollevare il nostro futuro. Una è l’immigrazione, ma il governo ha fatto abbastanza esplicitamente capire di non volerla prendere in considerazione.

La seconda è la natalità, che in Italia ha toccato livelli particolarmente bassi ed è in continua caduta. Nonostante tanta retorica, l’ultima Legge di bilancio offre ben poche speranze di un’inversione di tendenza visto che contiene misure che non cambiano approccio e impostazione rispetto a quelle timide, occasionali e frammentate degli anni precedenti. Crescita della popolazione anziana e diminuzione della popolazione attiva continueranno quindi a caratterizzare in modo più accentuato il nostro Paese rispetto alle altre economie avanzate.

Ma gli squilibri che ci portano fuori rotta risultano ancora più marcati se, al posto degli anziani in senso anagrafico, si prendono in considerazioni gli inattivi e li si mette in rapporto alla popolazione effettivamente attiva, cioè a chi lavora e produce ricchezza che può essere redistribuita. Tale indicatore, noto come Economic old-age dependency ratio, è oggi attorno al 60% in Italia con la prospettiva che possa progressivamente salire vicino al 100% entro la metà di questo secolo.

Sugli inattivi la manovra non sembra poter produrre un forte contenimento, anzi con quota 100 tenderanno ad aumentare. Mentre è certo l’aumento di spesa pubblica per finanziare tale misura e il reddito di cittadinanza, molta più incertezza c’è sulla capacità di aumentare la platea di attivi da cui dipendono sostenibilità e benessere futuro.

E su questo aspetto pesano le altre tre leve. Una è l’occupazione femminile che assieme alla natalità è vincolata verso il basso dalla cronica carenza di politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Come l’occupazione delle donne, anche quella dei giovani è tra le più basse in Europa. Chi è senza lavoro potrà avere nel presente un maggior aiuto economico, ma la vera necessità del Paese è aumentare la platea di chi produce ricchezza se vogliamo evitare un futuro sempre più scadente. Purtroppo continua a mancare un piano solido e credibile per trasformare le nuove generazioni in una vera leva per la crescita competitiva del Paese. Anche su questo nella manovra non si vede una vera discontinuità con i governi precedenti. Su alcuni strumenti di potenziamento della transizione scuola-lavoro c’è addirittura un arretramento.

La quinta leva è il contributo alla crescita attraverso le nuove opportunità, grazie alla longevità e alla tecnologia, di una lunga vita attiva. Sembra che la politica italiana sia solo in grado di pensare a forzare i sessantenni a continuare lavorare o lasciare che le aziende se ne liberino il prima possibile. Molto meno degli altri Paesi avanzati investiamo sulle condizioni che favoriscono una lunga vita attiva, soddisfacente per il lavoratore maturo e produttiva per le aziende.

La demografia non condanna, ma la politica sì.