L’Italia non è più quella di una volta. Non lo è più perché dal 2014 la popolazione è entrata in una fase di progressiva riduzione. Non lo è più perché dall’inizio di questo decennio gli anziani (65enni e più) hanno definitivamente superato i giovani (under 25). Non lo è più perché, oltre al declino demografico e all’invecchiamento, ha preso avvio, con effetti che diventeranno sempre più evidenti nei prossimi anni, un processo di indebolimento della popolazione in età attiva.
Posts By: Alessandro Rosina
Esigua, fragile, demotivata. Una generazione fantasma si aggira per l’Italia
Il rapporto tra giovani e mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Alto è il rischio, in particolare, che la generazione Zeta, la prima a svolgere tutta la propria vita in questo secolo e la prima a proiettare tutta la propria carriera lavorativa nel post pandemia, diventi una ghosting generation.
L’Italia, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ha concentrato la sua attenzione sulla necessità di dare una infrastruttura al paese che, da un lato, superi i limiti del passato e, dall’altro, sia coerente con le sfide del futuro legate alla transizione verde e digitale. Tutto questo, però, non può essere realizzato come un vestito con modello, foggia e materiale pensati per il cambio di stagione ma senza aver preso misure, caratteristiche e preferenze di chi dovrà indossarlo. Misure, caratteristiche e preferenze delle nuove generazioni corrispondono a tre ordini di fattori sottovalutati nel recente passato, ma destinati ora a pesare in modo combinato sulla possibilità di rilancio del paese con il rischio di vincolarla al ribasso.
Il primo è quello che ha cause più strutturali e radicate nei processi di medio-lungo periodo. Ci siamo preoccupati negli ultimi decenni dell’invecchiamento, ovvero del continuo aumento della popolazione anziana, ma molta meno attenzione abbiamo dato alla progressiva e accentata riduzione della consistenza quantitativa delle nuove generazioni. I dati Eurostat più recenti evidenziano come l’Italia sia lo stato membro con percentuale più bassa di under 30: 28,3% contro valori superiori al 33% in gran parte d’Europa.
Il riscontro dell’essere il paese che sta affrontando la più drastica riduzione del potenziale di forza lavoro in modo del tutto inedito rispetto al passato, lo si può ottenere dal confronto tra la fascia di età 30-34 e la fascia 50-54. In Italia la prima risulta ridotta del 33% rispetto alla seconda, mentre il divario è più contenuto in Francia (meno del 10 percento) e in Germania (meno del 15 percento). Insomma, la generazione che si sta immettendo all’interno dei processi produttivi nel nostro paese è un terzo in meno rispetto a chi ha occupato sinora la parte centrale della forza lavoro. Nessun altro paese in Europa sta sperimentando un crollo di questa entità. Come ci siamo preparati sinora?
Questo processo di “degiovanimento”, finora trascurato, va considerata una delle sfide principali di tutto il paese, rispetto alla quale le nuove generazioni non vanno considerate il problema ma aiutate a diventare la soluzione. Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.
Finora il nostro paese si è però rivelato tra quelli in Europa con politiche meno efficaci su questo fronte. E qui sta il secondo ordine di fattori che nel dopo pandemia si stanno ulteriormente complicando. E’ ben noto il fatto che il nostro paese da troppo tempo detiene il record in Europa di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le cause vanno attribuite a limiti e inefficienze in tutto il percorso di transizione scuola-lavoro. La risposta non sta, però, solo nel rafforzamento dei centri per l’impiego. Come molte ricerche sul tema evidenziano, a monte c’è anche un deficit di formazione e di competenze di molti ragazzi che escono dal sistema dell’istruzione. Oltre alla preparazione culturale e tecnica, a fare la differenza tra chi rischia di trovarsi intrappolato nella condizione di Neet e chi, invece, trova la propria strada, è la debolezza delle soft skill (o delle life skill più in generale).
Proprio su questo tipo di competenze si registra il maggior peggioramento dopo l’impatto pandemico. I dati del Rapporto giovani 2022 dell’Istituto Toniolo, appena pubblicato, evidenziano come nel suo complesso la crisi sanitaria sia stata vissuta dai giovani come una grande esperienza collettiva negativa, che ha eroso in modo marcato le risorse positive interne e le competenze sociali in tutte le dimensioni. A diminuire è in particolare chi afferma di avere (“molto” o “moltissimo”) una “Idea positiva di sé” (scesi nei due anni di pandemia da 53,3% del 2020 a 45,9% nel 2022) ma anche chi ha “Motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni” (passati da 64,5 a 57,4%) e chi sa “Perseguire un obiettivo” (da 67,0 a 60,0%).
Il peggioramento è ancora maggiore per chi vive in contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza. Da un lato questi giovani hanno bisogno di rispondere all’esperienza collettiva negativa mettendosi alla prova con esperienze concrete personali positive. D’altro lato proprio l’erosione delle life skill li rende ancor più fragili rispetto alla capacità di ingaggio e impegno nella partecipazione sociale e lavorativa.
Se, quindi, già prima della pandemia molti giovani si trovavano fuori dal radar delle politiche di attivazione, oggi il non farsi rintracciare rischia per molti di diventare intenzionale. A prevalere sembra essere il bisogno di ritagliarsi un tempo di ritrovata normalità del presente senza restrizioni e complicazioni, ma rischiano di aumentare disorientamento e vulnerabilità se non vengono aiutati a ridefinire le coordinate in cui ritrovare una propria progettualità. Il rischio è che la Zeta diventi una “ghosting generation”, demograficamente leggera e con i singoli membri portati a sottrarsi. Giovani connessi ma con deboli segnali di presenza e con bassa propensione a dar spiegazioni del perché chi li cerca non li trova (non solo nella dimensione affettiva).
Molti si sottraggono anche (in questo caso soprattutto chi ha maggior formazione e più alte aspirazioni) perché lasciano i contesti – territori e organizzazioni – che non forniscono stimoli e valorizzazione all’altezza delle proprie aspettative. E qui si entra nel terzo ordine di fattori. Sempre i dati del Rapporto giovani, in coerenza con altri segnali emergenti, mostrano come la pandemia abbia accelerato anche un cambiamento nel sistema di priorità e indotto a ridefinire lo spazio strategico in cui collocare la propria azione nei processi di sviluppo economico e sociale, quindi anche rispetto a senso e valore da dare al lavoro.
Si tratta di un cambiamento che complica ancor di più i meccanismi, quantitativi e qualitativi, di confronto e incontro tra domanda e offerta. L’esito auspicato è che la debolezza demografica dei nuovi entranti possa favorire una crescente attenzione non solo rispetto a cosa possono portare nelle aziende in termini di competenze tecnologiche ma ancor prima a come riconoscere e valorizzarne le specificità antropologiche. Ciò significa dare più importanza, dal lato dell’offerta, a cosa sono portati a dare e desiderano essere rispetto a ciò che, lato domanda, ci si aspetta debbano conformarsi a fare (troppo spesso, finora, adattandosi al ribasso).
Da come il mondo del lavoro sarà in grado di gestire questo aumento di complessità dipende il destino di una generazione che oggi è al bivio tra essere lasciata diventare una ghosting generation ed essere aiutata a ricoprire un ruolo da protagonista nei processi di cambiamento e sviluppo del paese.
La sfida demografica di Delhi
L’India è destinata a guadagnare un ruolo crescente nel quadro mondiale lungo il resto del secolo. Un primato è comunque già certo, con tutte le implicazioni che porta con sé, ed è quello del Paese più popoloso del pianeta. Secondo le stime delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019), tale Stato, che conta attualmente poco meno di 1,4 miliardi di abitanti, è previsto diventare entro il 2030 il primo e unico al mondo a superare il miliardo e mezzo. La Cina, invece, rimarrà sotto tale soglia (si trova attualmente poco sopra 1,4 miliardi ma ha già, di fatto, smesso di crescere).
Africa, Cina, India: trend diversi
Sullo scenario globale, India, Cina, assieme all’Africa nel suo complesso, rappresentano oltre la metà degli abitanti del pianeta. Hanno un ammontare analogo di popolazione, ma con livelli di fecondità molto diversi e che stanno alla base dei diversi ritmi di crescita. Ai due estremi stanno Africa e Cina. Il continente africano presenta i valori riproduttivi più alti del globo, con un numero medio di figli abbondantemente superiore a 4. Il Paese del Dragone, al contrario, è scivolato sulle posizioni più basse al mondo, con un tasso di fecondità precipitato molto sotto 1,5. Ancora diverso il caso del subcontinente indiano che ha recentemente concluso la sua transizione riproduttiva raggiungendo il livello di equilibrio tra generazioni (circa due figli in media per donna).
Come conseguenza delle diverse dinamiche della natalità, l’Africa continuerà a crescere in modo esuberante, la Cina sta già entrando nella fase di declino, mentre l’India andrà progressivamente a rallentare, iniziando però a diminuire solo nella seconda parte del secolo (dopo aver superato abbondantemente 1,6 miliardi).
Queste dinamiche si associano anche ad evoluzioni differenziate sulla struttura per età. L’Africa continuerà ad avere molti giovani (). La Cina ha oramai chiuso la propria finestra demografica positiva (il cosiddetto “dividendo demografico”) rispetto alla crescita economica. La “politica del figlio unico” (introdotta nel 1979) ha rafforzato la consistenza relativa della popolazione in età attiva, quella tra i 20 e i 64 anni, tra la fine del secolo scorso e l’entrata in quello attuale. Stanno, però, entrando al centro della vita lavorativa le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, mentre le abbondanti generazioni nate quando la fecondità era elevata, si vanno spostando in età anziana. Il brusco passaggio da alta a bassa fecondità imposto per legge presenta, quindi, il suo conto, mettendo Pechino di fronte ai costi di squilibri particolarmente accentuati nel rapporto tra generazioni).
Delhi: gigante demografico ma non (ancora) geopolitico
L’India ha, invece, avuto un percorso più graduale di riduzione della fecondità. La spinta del dividendo demografico è quindi più debole e tardiva rispetto alla Cina, ma anche gli squilibri demografici risultano in prospettiva meno gravi. Attualmente la fascia 20-64 presenta valori vicini al 65% in Cina e attorno al 58% in India. A metà del secolo il primo Paese si troverà con una incidenza della popolazione attiva scesa a meno del 55%, mentre il secondo salirà al 61% (raggiungendo il valore di oltre 1 milione di persone in età attiva, Figura 1). Nel frattempo, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, gli over 65 cinesi passeranno da circa il 12 al 26%, mentre quelli indiani da meno del 7 a circa il 14%.
Mancare l’appuntamento con il Pnrr condannerà i Comuni alla marginalità
Nessuna provincia vince e nessuna perde nella classifica della qualità della vita. Vince o perde tutto il paese assieme. Vince quando la grande varietà che esprime il suo territorio è aiutata a diventare valore. Perde, invece, quando le differenze interne sono alimentate dalle diseguaglianze. Vince, inoltre, quando tutte le fasi della vita sono vissute positivamente con le proprie specificità e in relazione virtuosa tra di loro. Perde, invece, quando si creano squilibri, soprattutto dal basso, che portano poi ad uno scadimento progressivo a danno di tutti.
Questo significa che se l’Italia vuole ripartire dopo l’impatto della pandemia ripensando e riorientando il proprio percorso di sviluppo, deve farlo attraverso meccanismi in grado di generare valore all’interno di un sistema spazio-temporale che ha come coordinate la dimensione territoriale e le dinamiche generazionali. I dati sugli indicatori di benessere presentati domenica scorsa al Festival dell’Economia di Trento e pubblicati lunedì su queste pagine, hanno come pregio principiale proprio quello di fornire un quadro su scala provinciale della qualità della vita e nelle varie fasi della vita. Quando si sintetizzano indicatori diversi nessuna metodologia è esente da limiti. Ciò che rende solido il ritratto fornito è l’uso di un ampio set di dati su vari ambiti. In questo modo nessun indicatore può da solo condizionare il risultato finale e allo stesso tempo vengono integrati diversi aspetti delle condizioni di benessere che interessano la vita quotidiana dei cittadini. Inoltre l’informazione di rilievo, nell’esercizio proposto, è il posizionamento relativo delle varie province e la possibilità di valutarne l’evoluzione nel tempo. Dopo la prima edizione dell’anno scorso, già quest’anno è possibile apprezzare le variazioni. Se è vero che i dati del 2021 portano ancora in sé i limiti del percorso passato e l’impatto della crisi sanitaria, qualche segnale di ripresa inizia già a vedersi, in particolare nelle province lombarde. Ma più che il recupero dei livelli passati sarà interessante vedere nei prossimi anni quali aree del paese faranno i maggiori passi in avanti cogliendo gli investimenti e i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) come opportunità di sviluppo coerente con le specificità del proprio contesto economico e sociale.
Il potenziamento della rete dei centri per l’impiego e degli asili nido sono due esempi di forte investimento strategico, in grado di far fare un salto di qualità al paese, superando carenze sul territorio che hanno alimentato squilibri demografici e diseguaglianze sociali, vincolando verso il basso, in particolare, l’occupazione femminile e giovanile. Se finalmente le risorse sono disponibili, il successo dipenderà dalla effettiva implementazione in coerenza con le specifiche caratteristiche ed esigenze dei contesti locali. Per farlo, superando anche resistenze e sfiducia, è necessario attivare circoli virtuosi alimentati da un welfare di comunità. L’emergenza NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, è un esempio di sfida che chiede risposte sul territorio, sia in termini di politiche attive, in grado di fare da raccordo in tutta la transizione scuola-lavoro, sia attraverso un’alleanza locale, tra istituzioni pubbliche, scuola, aziende, associazioni di giovani e famiglie, che aiuti chi è ai margini a rimettersi in gioco.
Sul fronte dei nidi, come più volte sottolineato, non basta costruirne di nuovi con finanziamenti che arrivano dall’alto. Devono essere effettivamente utili e funzionali, con modalità in grado di favorire un circuito virtuoso tra domanda e offerta. La presenza dei servizi per l’infanzia è condizione necessaria ma non sufficiente, per una ripresa delle nascite. Serve un contesto più ampio favorevole. Non a caso, l’indicatore di sintesi sui bambini è quello che maggiormente discrimina tra Nord e Sud. Va, inoltre, osservato che il numero medio di figli per donna risulta maggiore a Trento che ad Aosta. La prima provincia mantiene una posizione elevata – la settima – sia nella dimensione dei bambini che in quella dei giovani, mentre Aosta passa rispettivamente dalla prima alla trentasettesima. La fascia dei giovani ha una rilevanza cruciale, perché se le nuove generazioni non trovano un contesto attrattivo dove si può coniugare positivamente lavoro, abitare e scelte di vita, il loro contributo allo sviluppo vitale del territorio rimane debole. L’indicatore più sensibile sulla presenza di queste condizioni è la natalità. Bolzano e Trento occupano le posizioni più elevate per numero medio di figli, mentre Aosta scivola nella seconda metà della classifica. Non per mancanza di servizi di qualità ma per difficoltà ad essere attrattiva pur avendo molte potenzialità, come mostra una recente ricerca commissionata dalla Regione.
Anche le grandi città si trovano con una natalità bassa che si correla, anche qui, a livelli bassi sul versante giovani. In questo caso non per mancanza di attrattività legata alle opportunità di lavoro, ma per tutti gli altri aspetti. Pesa senz’altro il costo degli affitti ma anche un livello di servizi che fatica a stare al passo con la complessità dell’organizzazione dei tempi di vita e lavoro dei centri metropolitani, dove più alta è anche la qualità attesa. Gli stessi contesti che presentano attualmente condizioni migliori per gli anziani, senza un rinnovo generazionale solido e di qualità sono destinati a veder aumentare nel tempo l’invecchiamento demografico con crescente difficoltà a garantire servizi di qualità per tutti.
Nel complesso, si conferma un ritratto con ampia variabilità, non scontato, sia in positivo che in negativo. Tranne pochi casi è difficile trovare sia province posizionate sempre in cima rispetto a tutte le tre fasce d’età sia province sempre in fondo. Anche Messina, che non va mai sopra il 75esimo posto, sui giovani fa meglio di Milano e Roma. Nel recentissimo libro “Città Italia” di Roberto Bernabò, che delinea “i nodi chiave di un’Agenda urbana per il governo della provincia italiana”, un focus è proprio dedicato a Messina e agli interessanti segnali di vitalità sociale che sta esprimendo.
La classifica del Sole 24 Ore non deve, quindi, né rassicurare né portare a rassegnazione. Come i dati testimoniano, ogni territorio combina elementi di forza assieme a limiti e fragilità. E’ allora necessario sia prendere consapevolezza dei primi, da consolidare ancora di più, sia assumere un impegno responsabile verso i secondi, cogliendo l’occasione dei fondi del PNRR per avviare processi di sostanziale miglioramento. Se finora la mancanza di risorse è stata per i Comuni un alibi, non utilizzare virtuosamente i finanziamenti disponibili rischia nei prossimi anni di diventare una colpa che condanna definitivamente ad un futuro di basso sviluppo e marginalità.
Rimettere in gioco i giovani NEET
Il tasso di NEET (sigla che indica i giovani “Not in Education, Employment or Training”) è stato adottato dall’Unione europea a partire dal 2010 come l’indicatore meglio in grado di misurare quanto un paese “spreca” la sua risorsa giovani. Dopo l’impatto della Grande recessione l’Italia ha consolidato ulteriormente il suo posizionamento sui livelli peggiori in Europa e la crisi sanitaria causata da Covid-19 ha ulteriormente aggravato la condizione dei giovani.
Se si considera la fascia 20-34 anni, i valori più bassi si trovano in Olanda (sotto l’8 percento) e i più alti in Italia (quasi il 30 percento). All’interno del nostro paese l’incidenza è molto differenziata, ma anche le regioni del Nord Italia si trovano sopra la media Ue.
I dati del Rapporto 2022 dell’Istituto Toniolo evidenziano come il Piano di investimento Next Generation Eu sia stato accolto con ampio favore dagli under 35 italiani, ma mostrano anche come rimanga in sospeso il giudizio su come le risorse verranno utilizzate. Molto dipenderà da quanto le proposte inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dimostreranno di mettere le basi di una nuova solida fase di sviluppo che metta al centro le competenze delle nuove generazioni e la loro valorizzazione ne i processi produttivi. L’obiettivo è far ripartire l’economia dopo la discontinuità della pandemia, ma favorendo processi che promuovano occupazione di qualità in sintonia con le grandi trasformazioni in atto, in particolare sul fronte della transizione verde e digitale.
Una delle maggiori misure inserite nel Piano è il potenziamento delle politiche attive del lavoro, come previsto nella Missione 5. Vi rientra il programma GOL (Garanzia occupabilità dei lavoratori), il varo di un Piano per le nuove competenze, il rafforzamento del sistema duale. Nel Piano nazionale di emersione e orientamento dei giovani in condizione di Neet (“Neet Working”) firmato dalla Ministra per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone, e dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, si sottolinea “l’obiettivo di compiere una valutazione del soggetto e delle competenze possedute, avviare percorsi di aggiornamento e di riqualificazione laddove necessario, e procedere infine – o in contemporanea attraverso strumenti di formazione duale – all’inserimento lavorativo”. Serve, a tal fine, la formazione di competenze specifiche in tali servizi per interagire con i giovani e saper riconoscere le problematicità dei Neet (anche nella dimensione psicologico-emotiva), per poi offrire un accompagnamento personalizzato e mirato verso le opportunità di formazione e lavoro su territorio. In tale funzione è previsto uno «sportello giovani» in tutti i Centri per l’impiego.
Molto del successo dipende dall’integrazione con le politiche attive sul territorio, favorendo la cooperazione tra pubblico, privato e rete sociale. Punti indicati di particolare attenzione sono la programmazione orientata al risultato e il monitoraggio continuo e capillare.
Le prestazioni di GOL vanno garantite in tutti i Centri per l’impiego, con particolare attenzione all’ingresso nel mondo produttivo ma anche con una offerta integrata in grado di rispondere alle transizioni interne al mercato del lavoro in tutte le fasi di una lunga vita attiva.
L’esperienza di “Garanzia giovani”, assieme a molte altre iniziative in Italia ed Europa, ha però anche mostrato che senza specifiche strategie di intercettazione (“outreach”) i giovani che hanno più bisogno di programmi di riattivazione rimangono fuori dal radar delle politiche pubbliche. Si tratta dei giovani più vulnerabili e scoraggiati. Quelli con supporto familiare debole, formazione inadeguata, esperienze assenti o negative con il mondo del lavoro, bassa fiducia nelle istituzioni. Non ci si può aspettare che siano tali giovani a rivolgersi ad un portale nazionale o a sportelli pubblici: è necessario quindi individuarli e intercettarli, spesso in combinazione con proposte di grado di catturare la loro attenzione (non solo come push, ovvero “ti aiuto a tirati fuori da una condizione negativa” (che molti non percepiscono in modo chiaro come tale), ma soprattutto pull, ovvero con offerte attrattive che li aiutano ad inserirsi in percorsi virtuosi di miglioramento desiderato della propria condizione, rimettendo in connessione positiva imparare e fare).
Le prospettive più interessanti in questa direzione, come mostrano le migliori esperienze europee, sono quelle che passano attraverso un rafforzamento degli strumenti di prossimità territoriale tramite una attivazione sistemica del rapporto tra istituzioni locali e partenariato sociale.
Un ruolo centrale possono averlo gli «Informagiovani» dei comuni con un salto di qualità rispetto alle funzioni sinora avute, per diventare solido punto di riferimento di una rete ampia di realtà che operano sul territorio e di coordinamento delle iniziative locali che interessano e coinvolgono i giovani stessi, con il fine di aumentare la capacità di intercettazione e ingaggio dei Neet.
Sempre in questa prospettiva va favorita una continua interazione, condivisione di informazioni e di iniziative integrate tra Centri per l’impiego, scuole, Informagiovani (e la rete sociale coordinata), sia tra esse che in relazione con aziende sul territorio. Si tratta infatti di interlocutori cruciali per una transizione scuola-lavoro di successo di cui beneficia poi tutto il territorio. Assieme a questo va reso sistemico anche lo scambio di buone pratiche e reso strutturale il processo di monitoraggio e valutazione di impatto. In particolare ogni programma per i giovani deve misurare il miglioramento dei beneficiari su insieme di competenze predefinite (tecniche, sociali, di cittadinanza).
Alla base di tutto questo è però necessario che si consolidi un cambio di atteggiamento culturale rispetto al riconoscimento del ruolo nuove generazioni nei processi di sviluppo sostenibile e inclusivo, con attenzione alle loro specifiche potenzialità e aspettative. È soprattutto necessario un cambiamento di strategia: non costringere i giovani ad adattarsi al ribasso a quello che il mercato offre, ma consentire all’economia di crescere e generare benessere facendo leva sul meglio di quanto le nuove generazioni possono dare (quando preparate e incoraggiate adeguatamente).
Coerentemente con questo va ribaltata la prospettiva di lettura della relazione tra nuove generazioni e crescita economica: non sono tanto i giovani che hanno bisogno di lavoro, ma il lavoro che ha bisogno del contributo solido e qualificato elle nuove generazioni per diventare vero motore di sviluppo e competitività. Oltre a rafforzare i percorsi formativi e migliorare gli strumenti delle politiche attive, è, allora, necessario mettersi in relazione positiva con l’idea stessa di lavoro che cambia assieme alle nuove generazioni.