Posts By: Alessandro Rosina

Il posto dei giovani, tra presente e futuro

Progettare il futuro in un contesto in continua e rapida trasformazione
È ormai consolidato come, nel corso degli ultimi decenni, i profondi mutamenti che hanno interessato le società contemporanee abbiano determinato importanti cambiamenti sulla vita di uomini e donne, che si sono trovati a vivere le proprie scelte in un contesto in continua e rapida trasformazione. Questo è avvenuto, e sta avvenendo, in uno scenario dove i sistemi di welfare (quando presenti) non sempre riescono a garantire efficaci reti di protezione. In una situazione di marcata instabilità, profondamente segnata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato un improvviso e inatteso cambiamento nelle dinamiche globali, determinato una discontinuità imprevista e improvvisa 1.

All’interno di queste dinamiche, i giovani rappresentano la componente più colpita nel breve e nel medio-lungo periodo, sia per quanto riguarda le condizioni materiali, sia relativamente ai processi e alle dinamiche di costruzione dell’identità. Rilevanti (e potenzialmente profonde) sono le conseguenze sulla propensione a investire e progettare il futuro, in un contesto in cui le politiche faticano a dare risposte efficaci e sostegni opportuni, rimanendo sbilanciate verso la tutela delle generazioni adulte (con più peso elettorale e più presenza nelle categorie più influenti e meglio rappresentate). La pandemia ha acuito le diseguaglianze intergenerazionali e intragenerazionali, mettendo a dura prova tanto i sistemi politico-istituzionali quanto i sistemi economico-produttivi. Da ultimo, le recenti tensioni politiche connesse al conflitto russo-ucraino, hanno aggiunto ulteriore incertezza, sia rispetto alle dinamiche economiche della ripresa sia nell’atteggiamento dei singoli verso il futuro.

Uno dei caratteri distintivi delle società avanzate è identificabile nel binomio complessità e rapidità, dal quale derivano molte più opzioni per le nuove generazioni, rispetto alle generazioni precedenti, ma anche un maggior grado di insicurezza rispetto alle scelte da intraprendere. In questo senso la carenza, se non la mancanza, di sistemi di orientamento e supporto negli snodi dei percorsi di vita e professionali, aumenta il vincolo al ribasso di aspirazioni e obiettivi, generando un passaggio alla vita adulta in cui si rischia di portare delusioni e frustrazioni, anziché energie e competenze, necessarie per contribuire alla crescita e allo sviluppo sociale.

Se i giovani, forse ancor più che in passato, rappresentano la chiave fondamentale per agire sul cambiamento, occorre garantire condizioni adeguate perché possano svolgere tale ruolo, a fronte dell’aumento di complessità e dell’indebolimento del loro peso demografico, in senso sia assoluto che relativo, rispetto alle generazioni più mature. Se messe nelle condizioni adeguate, le giovani generazioni rappresentano la componente della popolazione maggiormente in grado di cogliere nuove opportunità dalle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal supportati, il rischio è che prevalgano le fragilità esponendoli a vecchi e nuovi rischi.

L’investimento dell’Ue, il ritardo italiano
Il programma NextGenerationEU, con i suoi 750 miliardi di euro messi a budget, rappresenta la principale risposta dell’Europa per porre le basi di una nuova partenza. Al nostro Paese sono stati riconosciuti poco più di 190 miliardi confermando il ruolo che l’Italia ha deciso di giocare attraverso l’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza. La centralità posta dall’Unione Europea sul fattore “giovani” risiede anche nella scelta di titolare il programma proprio alle “nuove generazioni europee” prevedendo, tra le sei principali missioni dei programmi di spesa nazionali, una specifica missione dedicata alle “politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze”.

Nonostante la consistente quota destinata all’Italia, il nostro Paese non ha ritenuto necessario declinare le politiche per il contrasto al divario delle giovani generazioni all’interno del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), limitandosi, peraltro anche in tema di pari opportunità, a prevedere una generica (quanto poco monitorabile) “priorità orizzontale”. Nonostante ciò, a livello politico si sono attivate anche misure che vanno nel senso di una attenzione specifica, come l’istituzione del COVIGE – Comitato per la Valutazione dell’Impatto Generazionale delle politiche pubbliche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri 2.

Il progressivo processo di disinvestimento sulle giovani generazioni, che ha caratterizzato negli ultimi decenni il nostro Paese, incidendo in termini di riduzione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia, non è solo iniquo ma anche controproducente 3. Determina una riduzione delle loro prospettive anche rispetto agli ambiti e ai territori nei quali vivono: partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dalle famiglie, si devono adattare a lavori spesso irregolari o sottopagati, oppure scelgono di emigrare. La lunga dipendenza dai genitori rappresenta sempre più una risposta a squilibri generazionali e all’aumento delle incertezze occupazionali.

Il tema delle diseguaglianze strutturali continua a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle chance che definiscono il destino sociale. In definitiva, i giovani italiani sono numericamente pochi, risultano meno formati a livello avanzato, poco valorizzati quando si inseriscono nel sistema produttivo, più passivamente a carico del sistema pubblico o della famiglia di origine 4. Se compariamo l’Italia con gli altri Paesi europei, emerge come i giovani siano meno messi nella condizione di creare valore per il “sistema Paese” e più esposti al rischio di diventare un peso in termini di costi sociali.

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Lo squilibrio demografico diventa cronico. A mitigarne gli effetti è la qualità dei servizi

L’Italia non è più quella di una volta. Non lo è più perché dal 2014 la popolazione è entrata in una fase di progressiva riduzione. Non lo è più perché dall’inizio di questo decennio gli anziani (65enni e più) hanno definitivamente superato i giovani (under 25). Non lo è più perché, oltre al declino demografico e all’invecchiamento, ha preso avvio, con effetti che diventeranno sempre più evidenti nei prossimi anni, un processo di indebolimento della popolazione in età attiva.

Esigua, fragile, demotivata. Una generazione fantasma si aggira per l’Italia

Il rapporto tra giovani e mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Alto è il rischio, in particolare, che la generazione Zeta, la prima a svolgere tutta la propria vita in questo secolo e la prima a proiettare tutta la propria carriera lavorativa nel post pandemia, diventi una ghosting generation.

L’Italia, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ha concentrato la sua attenzione sulla necessità di dare una infrastruttura al paese che, da un lato, superi i limiti del passato e, dall’altro, sia coerente con le sfide del futuro legate alla transizione verde e digitale. Tutto questo, però, non può essere realizzato come un vestito con modello, foggia e materiale pensati per il cambio di stagione ma senza aver preso misure, caratteristiche e preferenze di chi dovrà indossarlo. Misure, caratteristiche e preferenze delle nuove generazioni corrispondono a tre ordini di fattori sottovalutati nel recente passato, ma destinati ora a pesare in modo combinato sulla possibilità di rilancio del paese con il rischio di vincolarla al ribasso.

Il primo è quello che ha cause più strutturali e radicate nei processi di medio-lungo periodo. Ci siamo preoccupati negli ultimi decenni dell’invecchiamento, ovvero del continuo aumento della popolazione anziana, ma molta meno attenzione abbiamo dato alla progressiva e accentata riduzione della consistenza quantitativa delle nuove generazioni. I dati Eurostat più recenti evidenziano come l’Italia sia lo stato membro con percentuale più bassa di under 30: 28,3% contro valori superiori al 33% in gran parte d’Europa.

Il riscontro dell’essere il paese che sta affrontando la più drastica riduzione del potenziale di forza lavoro in modo del tutto inedito rispetto al passato, lo si può ottenere dal confronto tra la fascia di età 30-34 e la fascia 50-54. In Italia la prima risulta ridotta del 33% rispetto alla seconda, mentre il divario è più contenuto in Francia (meno del 10 percento) e in Germania (meno del 15 percento). Insomma, la generazione che si sta immettendo all’interno dei processi produttivi nel nostro paese è un terzo in meno rispetto a chi ha occupato sinora la parte centrale della forza lavoro. Nessun altro paese in Europa sta sperimentando un crollo di questa entità. Come ci siamo preparati sinora?

Questo processo di “degiovanimento”, finora trascurato, va considerata una delle sfide principali di tutto il paese, rispetto alla quale le nuove generazioni non vanno considerate il problema ma aiutate a diventare la soluzione. Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.

Finora il nostro paese si è però rivelato tra quelli in Europa con politiche meno efficaci su questo fronte. E qui sta il secondo ordine di fattori che nel dopo pandemia si stanno ulteriormente complicando. E’ ben noto il fatto che il nostro paese da troppo tempo detiene il record in Europa di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le cause vanno attribuite a limiti e inefficienze in tutto il percorso di transizione scuola-lavoro. La risposta non sta, però, solo nel rafforzamento dei centri per l’impiego. Come molte ricerche sul tema evidenziano, a monte c’è anche un deficit di formazione e di competenze di molti ragazzi che escono dal sistema dell’istruzione. Oltre alla preparazione culturale e tecnica, a fare la differenza tra chi rischia di trovarsi intrappolato nella condizione di Neet e chi, invece, trova la propria strada, è la debolezza delle soft skill (o delle life skill più in generale).

Proprio su questo tipo di competenze si registra il maggior peggioramento dopo l’impatto pandemico. I dati del Rapporto giovani 2022 dell’Istituto Toniolo, appena pubblicato, evidenziano come nel suo complesso la crisi sanitaria sia stata vissuta dai giovani come una grande esperienza collettiva negativa, che ha eroso in modo marcato le risorse positive interne e le competenze sociali in tutte le dimensioni. A diminuire è in particolare chi afferma di avere (“molto” o “moltissimo”) una “Idea positiva di sé” (scesi nei due anni di pandemia da 53,3% del 2020 a 45,9% nel 2022) ma anche chi ha “Motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni” (passati da 64,5 a 57,4%) e chi sa “Perseguire un obiettivo” (da 67,0 a 60,0%).

Il peggioramento è ancora maggiore per chi vive in contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza. Da un lato questi giovani hanno bisogno di rispondere all’esperienza collettiva negativa mettendosi alla prova con esperienze concrete personali positive. D’altro lato proprio l’erosione delle life skill li rende ancor più fragili rispetto alla capacità di ingaggio e impegno nella partecipazione sociale e lavorativa.

Se, quindi, già prima della pandemia molti giovani si trovavano fuori dal radar delle politiche di attivazione, oggi il non farsi rintracciare rischia per molti di diventare intenzionale. A prevalere sembra essere il bisogno di ritagliarsi un tempo di ritrovata normalità del presente senza restrizioni e complicazioni, ma rischiano di aumentare disorientamento e vulnerabilità se non vengono aiutati a ridefinire le coordinate in cui ritrovare una propria progettualità. Il rischio è che la Zeta diventi una “ghosting generation”, demograficamente leggera e con i singoli membri portati a sottrarsi. Giovani connessi ma con deboli segnali di presenza e con bassa propensione a dar spiegazioni del perché chi li cerca non li trova  (non solo nella dimensione affettiva).

Molti si sottraggono anche (in questo caso soprattutto chi ha maggior formazione e più alte aspirazioni) perché lasciano i contesti – territori e organizzazioni – che non forniscono stimoli e valorizzazione all’altezza delle proprie aspettative. E qui si entra nel terzo ordine di fattori. Sempre i dati del Rapporto giovani, in coerenza con altri segnali emergenti, mostrano come la pandemia abbia accelerato anche un cambiamento nel sistema di priorità e indotto a ridefinire lo spazio strategico in cui collocare la propria azione nei processi di sviluppo economico e sociale, quindi anche rispetto a senso e valore da dare al lavoro.

Si tratta di un cambiamento che complica ancor di più i meccanismi, quantitativi e qualitativi, di confronto e incontro tra domanda e offerta. L’esito auspicato è che la debolezza demografica dei nuovi entranti possa favorire una crescente attenzione non solo rispetto a cosa possono portare nelle aziende in termini di competenze tecnologiche ma ancor prima a come riconoscere e valorizzarne le specificità antropologiche. Ciò significa dare più importanza, dal lato dell’offerta, a cosa sono portati a dare e desiderano essere rispetto a ciò che, lato domanda, ci si aspetta debbano conformarsi a fare (troppo spesso, finora, adattandosi al ribasso).

Da come il mondo del lavoro sarà in grado di gestire questo aumento di complessità dipende il destino di una generazione che oggi è al bivio tra essere lasciata diventare una ghosting generation ed essere aiutata a ricoprire un ruolo da protagonista nei processi di cambiamento e sviluppo del paese.

La sfida demografica di Delhi

L’India è destinata a guadagnare un ruolo crescente nel quadro mondiale lungo il resto del secolo. Un primato è comunque già certo, con tutte le implicazioni che porta con sé, ed è quello del Paese più popoloso del pianeta. Secondo le stime delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019), tale Stato, che conta attualmente poco meno di 1,4 miliardi di abitanti, è previsto diventare entro il 2030 il primo e unico al mondo a superare il miliardo e mezzo. La Cina, invece, rimarrà sotto tale soglia (si trova attualmente poco sopra 1,4 miliardi ma ha già, di fatto, smesso di crescere).

Africa, Cina, India: trend diversi
Sullo scenario globale, India, Cina, assieme all’Africa nel suo complesso, rappresentano oltre la metà degli abitanti del pianeta. Hanno un ammontare analogo di popolazione, ma con livelli di fecondità molto diversi e che stanno alla base dei diversi ritmi di crescita. Ai due estremi stanno Africa e Cina. Il continente africano presenta i valori riproduttivi più alti del globo, con un numero medio di figli abbondantemente superiore a 4. Il Paese del Dragone, al contrario, è scivolato sulle posizioni più basse al mondo, con un tasso di fecondità precipitato molto sotto 1,5. Ancora diverso il caso del subcontinente indiano che ha recentemente concluso la sua transizione riproduttiva raggiungendo il livello di equilibrio tra generazioni (circa due figli in media per donna).

Come conseguenza delle diverse dinamiche della natalità, l’Africa continuerà a crescere in modo esuberante, la Cina sta già entrando nella fase di declino, mentre l’India andrà progressivamente a rallentare, iniziando però a diminuire solo nella seconda parte del secolo (dopo aver superato abbondantemente 1,6 miliardi).

Queste dinamiche si associano anche ad evoluzioni differenziate sulla struttura per età. L’Africa continuerà ad avere molti giovani (). La Cina ha oramai chiuso la propria finestra demografica positiva (il cosiddetto “dividendo demografico”) rispetto alla crescita economica. La “politica del figlio unico” (introdotta nel 1979) ha rafforzato la consistenza relativa della popolazione in età attiva, quella tra i 20 e i 64 anni, tra la fine del secolo scorso e l’entrata in quello attuale. Stanno, però, entrando al centro della vita lavorativa le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, mentre le abbondanti generazioni nate quando la fecondità era elevata, si vanno spostando in età anziana. Il brusco passaggio da alta a bassa fecondità imposto per legge presenta, quindi, il suo conto, mettendo Pechino di fronte ai costi di squilibri particolarmente accentuati nel rapporto tra generazioni).

Delhi: gigante demografico ma non (ancora) geopolitico
L’India ha, invece, avuto un percorso più graduale di riduzione della fecondità. La spinta del dividendo demografico è quindi più debole e tardiva rispetto alla Cina, ma anche gli squilibri demografici risultano in prospettiva meno gravi. Attualmente la fascia 20-64 presenta valori vicini al 65% in Cina e attorno al 58% in India. A metà del secolo il primo Paese si troverà con una incidenza della popolazione attiva scesa a meno del 55%, mentre il secondo salirà al 61% (raggiungendo il valore di oltre 1 milione di persone in età attiva, Figura 1). Nel frattempo, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, gli over 65 cinesi passeranno da circa il 12 al 26%, mentre quelli indiani da meno del 7 a circa il 14%.

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Mancare l’appuntamento con il Pnrr condannerà i Comuni alla marginalità

Nessuna provincia vince e nessuna perde nella classifica della qualità della vita. Vince o perde tutto il paese assieme. Vince quando la grande varietà che esprime il suo territorio è aiutata a diventare valore. Perde, invece, quando le differenze interne sono alimentate dalle diseguaglianze. Vince, inoltre, quando tutte le fasi della vita sono vissute positivamente con le proprie specificità e in relazione virtuosa tra di loro. Perde, invece, quando si creano squilibri, soprattutto dal basso, che portano poi ad uno scadimento progressivo a danno di tutti.

Questo significa che se l’Italia vuole ripartire dopo l’impatto della pandemia ripensando e riorientando il proprio percorso di sviluppo, deve farlo attraverso meccanismi in grado di generare valore all’interno di un sistema spazio-temporale che ha come coordinate la dimensione territoriale e le dinamiche generazionali. I dati sugli indicatori di benessere presentati domenica scorsa al Festival dell’Economia di Trento e pubblicati lunedì su queste pagine, hanno come pregio principiale proprio quello di fornire un quadro su scala provinciale della qualità della vita e nelle varie fasi della vita. Quando si sintetizzano indicatori diversi nessuna metodologia è esente da limiti. Ciò che rende solido il ritratto fornito è l’uso di un ampio set di dati su vari ambiti. In questo modo nessun indicatore può da solo condizionare il risultato finale e allo stesso tempo vengono integrati diversi aspetti delle condizioni di benessere che interessano la vita quotidiana dei cittadini. Inoltre l’informazione di rilievo, nell’esercizio proposto, è il posizionamento relativo delle varie province e la possibilità di valutarne l’evoluzione nel tempo. Dopo la prima edizione dell’anno scorso, già quest’anno è possibile apprezzare le variazioni. Se è vero che i dati del 2021 portano ancora in sé i limiti del percorso passato e l’impatto della crisi sanitaria, qualche segnale di ripresa inizia già a vedersi, in particolare nelle province lombarde. Ma più che il recupero dei livelli passati sarà interessante vedere nei prossimi anni quali aree del paese faranno i maggiori passi in avanti cogliendo gli investimenti e i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) come opportunità di sviluppo coerente con le specificità del proprio contesto economico e sociale.

Il potenziamento della rete dei centri per l’impiego e degli asili nido sono due esempi di forte investimento strategico, in grado di far fare un salto di qualità al paese, superando carenze sul territorio che hanno alimentato squilibri demografici e diseguaglianze sociali, vincolando verso il basso, in particolare, l’occupazione femminile e giovanile. Se finalmente le risorse sono disponibili, il successo dipenderà dalla effettiva implementazione in coerenza con le specifiche caratteristiche ed esigenze dei contesti locali. Per farlo, superando anche resistenze e sfiducia, è necessario attivare circoli virtuosi alimentati da un welfare di comunità. L’emergenza NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, è un esempio di sfida che chiede risposte sul territorio, sia in termini di politiche attive, in grado di fare da raccordo in tutta la transizione scuola-lavoro, sia attraverso un’alleanza locale, tra istituzioni pubbliche, scuola, aziende, associazioni di giovani e famiglie, che aiuti chi è ai margini a rimettersi in gioco.

Sul fronte dei nidi, come più volte sottolineato, non basta costruirne di nuovi con finanziamenti che arrivano dall’alto. Devono essere effettivamente utili e funzionali, con modalità in grado di favorire un circuito virtuoso tra domanda e offerta. La presenza dei servizi per l’infanzia è condizione necessaria ma non sufficiente, per una ripresa delle nascite. Serve un contesto più ampio favorevole. Non a caso, l’indicatore di sintesi sui bambini è quello che maggiormente discrimina tra Nord e Sud. Va, inoltre, osservato che il numero medio di figli per donna risulta maggiore a Trento che ad Aosta. La prima provincia mantiene una posizione elevata – la settima – sia nella dimensione dei bambini che in quella dei giovani, mentre Aosta passa rispettivamente dalla prima alla trentasettesima. La fascia dei giovani ha una rilevanza cruciale, perché se le nuove generazioni non trovano un contesto attrattivo dove si può coniugare positivamente lavoro, abitare e scelte di vita, il loro contributo allo sviluppo vitale del territorio rimane debole. L’indicatore più sensibile sulla presenza di queste condizioni è la natalità. Bolzano e Trento occupano le posizioni più elevate per numero medio di figli, mentre Aosta scivola nella seconda metà della classifica. Non per mancanza di servizi di qualità ma per difficoltà ad essere attrattiva pur avendo molte potenzialità, come mostra una recente ricerca commissionata dalla Regione.

Anche le grandi città si trovano con una natalità bassa che si correla, anche qui, a livelli bassi sul versante giovani. In questo caso non per mancanza di attrattività legata alle opportunità di lavoro, ma per tutti gli altri aspetti. Pesa senz’altro il costo degli affitti ma anche un livello di servizi che fatica a stare al passo con la complessità dell’organizzazione dei tempi di vita e lavoro dei centri metropolitani, dove più alta è anche la qualità attesa. Gli stessi contesti che presentano attualmente condizioni migliori per gli anziani, senza un rinnovo generazionale solido e di qualità sono destinati a veder aumentare nel tempo l’invecchiamento demografico con crescente difficoltà a garantire servizi di qualità per tutti.

Nel complesso, si conferma un ritratto con ampia variabilità, non scontato, sia in positivo che in negativo. Tranne pochi casi è difficile trovare sia province posizionate sempre in cima rispetto a tutte le tre fasce d’età sia province sempre in fondo. Anche Messina, che non va mai sopra il 75esimo posto, sui giovani fa meglio di Milano e Roma. Nel recentissimo libro “Città Italia” di Roberto Bernabò, che delinea “i nodi chiave di un’Agenda urbana per il governo della provincia italiana”, un focus è proprio dedicato a Messina e agli interessanti segnali di vitalità sociale che sta esprimendo.

La classifica del Sole 24 Ore non deve, quindi, né rassicurare né portare a rassegnazione. Come i dati testimoniano, ogni territorio combina elementi di forza assieme a limiti e fragilità. E’ allora necessario sia prendere consapevolezza dei primi, da consolidare ancora di più, sia assumere un impegno responsabile verso i secondi, cogliendo l’occasione dei fondi del PNRR per avviare processi di sostanziale miglioramento. Se finora la mancanza di risorse è stata per i Comuni un alibi, non utilizzare virtuosamente i finanziamenti disponibili rischia nei prossimi anni di diventare una colpa che condanna definitivamente ad un futuro di basso sviluppo e marginalità.