Posts By: Alessandro Rosina

Famiglie, con politiche deboli la diversità diventa disuguaglianza

La famiglia, in tutte le epoche e culture, è soprattutto relazione. E’ prima di tutto il contesto in cui si esprime in modo privilegiato il darsi cura e attenzione reciproca, offrendo sostegno materiale e affettivo. Se non abbiamo una risposta su cosa sia una famiglia “ naturale” – tema affrontato nel libro in uscita di Chiara Saraceno (“La famiglia naturale non esiste”, editore Laterza) – possiamo però affermare che la relazione è l’elemento più “naturale” dell’essere famiglia. Una popolazione non è certo un insieme di individui indipendenti uno dall’altro. Ciò che genera benessere in una comunità e consente di darsi continuità nel tempo è il sentirsi e agire in relazione, attraverso i legami familiari e quelli sociali.

 

Ma è anche vero che il modo di intendere e vivere i legami familiari interagisce con le caratteristiche sociali e i cambiamenti culturali, risente delle regole e delle norme che si dà una comunità. Se nel passato, in coerenza con il tipo di organizzazione della società agricola, era comune la presenza di famiglie che vedevano coabitare sotto lo stesso tetto vari nuclei, il processo di industrializzazione e lo stile di vita delle società moderne avanzate ha favorito il processo di nuclearizzazione e la riduzione dei componenti. Nei primi decenni del secondo dopoguerra si è così consolidata, in tutto il mondo occidentale, la famiglia tipica formata da due genitori sposati con due o tre figli.

Le trasformazioni sociali, demografiche ed economiche che si sono innescate a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno inciso sia sulla dimensione orizzontale (rapporto di coppia) che su quella verticale (legame genitori-figli) del nucleo familiare tradizionale. La diffusione delle convivenze in alternativa al matrimonio e la crescita di separazioni e divorzi hanno cambiato caratteristiche e stabilità del vincolo di coppia. La maggior autonomia lavorativa ed economica femminile ha reso più libere le scelte delle donne e meno dipendenti dalla figura maschile. La riduzione delle nascite ha ridimensionato la presenza di figli. E’ così aumentata la varietà dei nuclei familiari, oltre la tipologia tradizionale, con conseguente crescita di quelli in cui una delle due dimensioni relazionali è mancante. Oggi, ad esempio, sono molto più comuni le coppie senza figli. Se in passato tale condizione era soprattutto la conseguenza forzata dell’infertilità, nel tempo è cresciuta la componente di scelta. Un fattore rilevante è anche l’aumento della longevità che porta ad aumentare il numero di coppie anziane che vivono sole dopo l’uscita dei figli.

Tra le tipologie in maggior crescita c’è quella dei nuclei con un solo genitore. Anche questa configurazione non è di per sé nuova. In passato era la conseguenza forzata della morte precoce di uno dei coniugi. Fortunatamente tale rischio si è notevolmente ridotto nel tempo. Per converso è aumentata l’instabilità coniugale. Oggi la maggioranza delle famiglie monogenitoriali ha alle spalle una separazione. La parte in maggior crescita è però quella delle madri sole nubili, che in parte deriva dallo scioglimento di una convivenza, ma in parte anche dalla scelta di avere un figlio pur senza una relazione di coppia stabile.

Nella letteratura scientifica internazionale la tipologia dei nuclei monogenitoriali con figli minorenni è considerata tra le più vulnerabili, perché maggiormente esposta a varie forme intrecciate di fragilità.

Il ruolo della politica è quello di non lasciare che le diversità diventino diseguaglianze. Questo significa consentire alle persone di trovare adeguate condizioni di benessere e sviluppo umano a partire dall’infanzia, indipendentemente dalle condizioni di partenza (ovvero dalle caratteristiche della famiglia di origine). I nuclei monogenitore si trovano con un unico reddito da lavoro che porta spesso a sovraccarico e a una riduzione del tempo passato dai figli con un genitore. Questo è ancor più vero in Italia per la carenza di strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Se cruciale è il sostegno ai nuclei in situazione di deprivazione economica, che porta anche a povertà educativa, non meno importante è la possibilità di consentire a madri e padri soli di dedicare tempo di qualità alla relazione con i figli.

Quelle monogenitoriali non sono certo meno famiglia delle altre, è semmai la carenza di politiche adeguate che le lascia più in difficoltà nel sentirsi tale in senso pieno.

Una “scienza del nuovo” per affrontare i cambiamenti che stanno per arrivare

Viviamo in tempi in cui cambiamenti economici, sociali e demografici si intrecciano in modo profondo con trasformazioni tecnologiche dirompenti, rendendo il futuro un’incognita sempre più difficile da decifrare. In un mondo sempre più complesso e in continuo rapido mutamento l’unica informazione certa che abbiamo sul futuro è che è diverso dal presente. Per consentire al cambiamento di diventare miglioramento è necessario fare in modo che ciò che di diverso e nuovo il futuro porta rispetto al presente sia messo nelle condizioni di rendersi valore aggiunto.

Un nuovo patto generazionale

L’Italia continua ostinatamente a non essere un Paese per giovani e questo la rende sempre meno anche un Paese per anziani e per tutte le fasi della vita. Tutte le economie mature avanzate si trovano con anziani in aumento, grazie all’estensione della longevità, e con una natalità insufficiente a garantire un adeguato rinnovo generazionale.

Il problema principale non è l’invecchiamento e nemmeno, a ben vedere, la denatalità, ma il processo di degiovanimento. I paesi che vanno verso squilibri accentuati e sempre meno sostenibili, come l‘Italia, non sono quelli con più anziani ma quelli con meno giovani. D’altro canto, l’indebolimento delle nuove generazioni non dipende solo dalle basse nascite ma anche dai flussi di uscita verso l’estero e dalla scarsa capacità di gestire positivamente l’immigrazione. Le stesse nascite, inoltre, possono aumentare solo dove ci sono giovani messi nelle condizioni di realizzare in modo pieno i propri progetti professionali e di vita. La situazione di marginalità sociale ed economica, in cui molti si trovano, contribuisce alla crescita di sfiducia ed espone al rischio di demotivazione, che poi porta a non votare (astensionismo) o a votare con le gambe (diventando Expat).

Serve allora far arrivare ai giovani il messaggio chiaro e forte che – tanto più per il fatto di essere demograficamente di meno – il sistema paese darà ancor più attenzione alle loro esigenze e istanze. Che investirà ancor più sulla loro formazione e sulle loro opportunità. Che chi studia e si impegna, indipendentemente dalle origini, troverà strumenti adeguati per dare il meglio di sé in Italia.

Questo impegno non va però preso per i giovani, ma con i giovani e per il Paese. Non può, quindi, basarsi su rassicurazioni generiche ma richiede la definizione di un nuovo patto generazionale.

Ci sono (almeno) cinque questioni centrali che vanno esplicitamente affrontate nel nuovo patto.

La prima è quella della transizione demografica, a cui corrisponde un mutamento inedito del rapporto quantitativo tra generazioni. A fronte dell’aumento della spesa per pensioni, assistenza e cura della crescente popolazione anziana, quali garanzie ha oggi un giovane che il Paese in cui vive non si troverà ad indebolire le risorse per la formazione, le politiche abitative, gli strumenti di conciliazione tra vita e lavoro?

Il secondo punto riguarda i mutamenti all’interno del mercato del lavoro in combinazione con i cambiamenti demografici. Essere di meno non implica necessariamente trovare maggiori opportunità e maggiore valorizzazione. L’Italia rischia di rimanere vincolata in un percorso di basso sviluppo se oltre al necessario potenziamento della formazione non migliorano anche i sistemi di incontro efficace tra domanda e offerta, gli stipendi e la qualità del lavoro in generale. Se queste condizioni i giovani non le troveranno in Italia andranno sempre più a cercarle altrove. Quale impegno strutturale è in grado di prendere il sistema paese per andare in tale direzione a regime, anche oltre le risorse di Next Generation Ue?

Se non si imbocca un solido sentiero di crescita peggiorerà ulteriormente anche il debito pubblico. Qui sta il terzo punto da rinegoziare nel patto generazionale. Già oggi l’Italia scarica sulle nuove generazioni un indebitamento tra i peggiori al mondo. Come ha ricordato il Governatore di Banca d’Italia, siamo l’unico paese in Europa con interessi sul debito che bruciano l’equivalente della spesa in istruzione. Quale impegno a ridurlo nei prossimi anni? Quali obiettivi misurabili con quali modalità e quali risorse?

Il quarto punto riguarda la spesa in Ricerca, sviluppo e innovazione. Continuiamo ad essere tra le economie mature avanzate che meno investono su tale voce. Questo ha ricadute negative sulla competitività del sistema economico e sulla capacità di adattarsi alle sfide globali. Limita lo sviluppo dei settori più dinamici e competitivi che creano nuove opportunità di lavoro e consentono alle idee dei giovani di diventare nuovi prodotti e servizi che allargano il mercato.

Infine, il quinto punto è quello del peso sulle scelte collettive. La transizione demografica sta producendo uno sbilanciamento dell’elettorato a sfavore delle nuove generazioni. Per contenere questo indebolimento è necessario migliorare i meccanismi di coinvolgimento dei giovani nei processi decisionali. Serve però anche una collettività che riconosca e supporti le istanze delle nuove generazioni. In generale, come inglobare meglio – in coerenza con l’approccio dello sviluppo sostenibile – il benessere futuro nelle scelte del presente?

La ridefinizione stessa del patto generazionale è pienamente inserita in tale prospettiva. Una rinegoziazione a partire da un confronto aperto, che abbia come base condivisa l’incontro tra quello che le nuove generazioni vorrebbero poter esser e fare (in coerenza con le sfide del proprio tempo) e quello di cui ha bisogno il Paese (con le sue specificità) per rafforzare i propri processi di sviluppo e benessere.

Le ragioni della speranza: Speranza… di vita

In demografia la durata media di vita viene tecnicamente chiamata “Speranza di vita alla nascita”. Difficile trovare un nome più bello per un indicatore statistico. Quello che misura è però meramente la quantità di anni di vita, che in media può aspettarsi di vivere un bambino che apre gli occhi sul mondo appena uscito dal grembo materno.
Il paradosso del tempo in cui viviamo è che stiamo allungando la quantità di vita che ciascun singolo ha davanti a sé, ma nel contempo indeboliamo la vita che lasciamo dopo di noi, generata da noi per andare oltre a noi. Ecco, forse è la speranza nel guardare oltre che stiamo perdendo, che non alimentiamo in modo generativo.
La popolazione non è un’entità astratta. È un insieme di storie di vita in relazione tra di loro e in continua tensione con le sfide del proprio tempo. La popolazione è il grande libro che contiene tali storie. Ciascuna generazione aggiunge il proprio capitolo e prima di concluderlo predispone le pagine bianche che ospiteranno le vicende di quella successiva. È solo grazie alla speranza che tale libro non contiene la parola “fine”.

Un anno di storie 2024 – Vendesi io: l’antologia annuale di Treccani

ESTRATTO:

L’Italia del XXI secolo ha 24 anni. E’ ancora giovane. In senso proprio la gioventù finisce a 25 anni. In Italia tende però ad estendersi ben oltre tale soglia. Se si è giovani finché si dipende dai genitori, la maggioranza degli italiani è in tale condizione fino ai 30 anni. Se si è giovani finché non si ha un figlio, la gioventù arriva allora fino ai 32 anni in media per le donne italiane e ai 35 anni per gli uomini.

La giovane Italia del XXI secolo è figlia del XX secolo. I Millennials sono la generazione ponte. Nati nel XX secolo ma con entrata nell’età adulta tutta contenuta nel XXI. La Generazione Zeta è, invece, la prima generazione senza memoria diretta del XX secolo, quindi tutta proiettate nelle trasformazioni di quello in corso. È con loro che il XXI secolo porta la propria novità rispetto al precedente. E’ con loro che tale novità cerca la propria strada per generare valore in coerenza con i cambiamenti dei tempi nuovi, reinterpretando l’idea di benessere, di lavoro, di impegno sociale. E’ con le loro gambe che camminano le idee del nuovo secolo. È con i loro progetti che nuovi desideri cercano affermazione.

Millennials e ancor più Generazione Zeta, nel rapporto con i propri genitori vivono il confronto tra due secoli che fanno fatica a capirsi.

Opere di narrativa recenti italiane che hanno come protagonisti giovani di tali generazioni hanno spesso al centro tre relazioni critiche intrecciate: quella tra questo secolo e il precedente, quella tra i giovani e i propri genitori, quella tra Italia e gli altri paesi con cui ha senso confrontarsi.

Sono anche le prime generazioni in cui essere giovani significa essere una minoranza.

Lo sono senz’altro dal punto di vista demografico. Al primo censimento del Secondo dopoguerra, condotto nel 1951, gli under 30 erano oltre la metà della popolazione italiana, ora sono il 27% ed è il dato più basso in Europa. Ma oltre ad avere un peso elettorale in riduzione, i giovani italiani si trovano anche con maggior debito pubblico rispetto alle generazioni precedenti, minor investimento collettivo (su formazione, politiche attive del lavoro, politiche abitative), più alti tassi di disoccupazione, percorsi di ingresso nel mondo del lavoro meno stabili, salari più bassi e più incertezza sul proprio futuro previdenziale. Di fatto il ritratto di una minoranza discriminata anche socialmente, che nel dibattito pubblico subisce una narrazione spesso negativa e piena di luoghi comuni, con tendenza a mettere più in luce le condotte negative che riconoscere aspetti positivi e interpretarne specificità e diversità senza pregiudizi.

La letteratura italiana offre un’immagine alternativa rispetto alla narrazione prevalente dei giovani nel dibattito pubblico. Quanto più quest’ultima risulta semplicistica e stereotipata, tanto più si contrappone nell’autorappresentazione letteraria il racconto di un mondo giovanile complesso, dinamico e articolato. Non vengono ritratti né come protagonisti del mondo che cambia grazie agli strumenti forniti dalle nuove tecnologie, né come vittime predestinate di una società che li tiene ai margini. Ci sono, certo, i nuovi lavori digitali e c’è la pervasiva rilevanza dei social. Ma i primi stentano a portare un complessivo miglioramento del mondo del lavoro e i secondi non sostituiscono la domanda dell’essere in relazione autentica con gli altri. Nelle storie raccontate, quando si trovano ad essere vittime è anche perché ci mettono del proprio; quando diventano protagonisti positivi, trovando la via per emergere (e magari eccellere) è perché si apre un baco nel sistema (non basta il solo proprio impegno per superare freni oggettivi e resistenze culturali).

Per trovare sé stessi e le condizioni per dare il meglio di sé, la soluzione per molti giovani italiani diventa allora quella di andarsene. Espatriare nel senso di allontanarsi allo stesso tempo da padri (e madri) troppo pressanti, da una patria poco al passo con i tempi nuovi, dal soffocante atteggiamento paternalistico della società italiana verso le nuove generazioni.

Nel libro “Le perfezioni” di Latronico, Anna e Tom non lasciano l’Italia per guadagnare di più ma come scelta di vita. Il lavoro che svolgono – strettamente connesso alle nuove opportunità offerte dall’evoluzione delle tecnologie digitali – è l’elemento di maggior continuità tra il prima e il dopo il trasferimento a Berlino. Le competenze sviluppate e applicate per passione mentre ancora erano nel percorso formativo sono diventate un lavoro che più che scelto hanno accettato di continuare e far evolvere, in parte anche adattare alle proprie esigenze ed aspirazioni. Hanno il vantaggio di non dover sottostare a modalità e coordinate spazio-temporali tipiche del lavoro novecentesco. Non hanno problemi di precarietà, semmai di sovraccarico di lavoro. Rappresentano quindi la dimensione più elettiva (la parte davvero nuova in coerenza con le trasformazioni di questo secolo) che di necessità dell’essere Expat.

Più che la posizione geografica e la mobilità fisica, contano i nodi della propria rete, fatta di luoghi e di persone in relazione dinamica. Alcuni nodi si aggiungono, alcuni si rafforzano, alcuni si indeboliscono, altri scompaiono. Tra i nodi  c’è ovviamente anche il luogo di origine e ci sono i genitori. Ma più che costituire nodi di riferimento sono punti da cui distinguersi e allontanarsi per liberarsi da modelli che non sanno aprirsi a nuovi significati, ma inducono spesso un effetto di vischiosa assuefazione all’esistente, con sovraccarico di aspettative e pressione a conformarsi. La prima reazione è allora quella di cercare ossigeno altrove. La necessità di sentirsi “liberi da” spinge a spostarsi lontano non tanto e solo fisicamente dai genitori, ma anche dal tempo del secolo precedente verso tempi diversi in cui sperimentare cose diverse, oltre che dall’idea di te che hanno gli altri e che ti senti addosso come un vestito stretto o troppo largo.

Ma se questa spinta centrifuga ad un certo punto non viene sostituita da una forza attrattiva che porta ad evolvere verso una “libertà per”, l’esito finale rischia di essere quello di trovarsi con una identità di “spatriati” – come ben racconta Mario Desiati nel romanzo che ha tale titolo – anziché sentire di aver trovato il proprio posto (ovvero l’idea di sé in cui ci si riconosce pienamente e che trova riconoscimento nel contesto relazionale significante).

Il protagonista del libro di Desiati, Francesco Veleno, cerca il suo spazio altrove, non dove indicato dal padre, non nell’idea di persona “sistemata” imposta dal contesto sociale e culturale del paese di origine, non banalmente dove lo porta il cuore, ma dove c’è libertà di essere, anche se non necessariamente se stessi.

Non è lo spostamento fisico in sé che cambia le cose, ma serve un cambiamento di coordinate per consentire di collocare il proprio essere a agire all’interno di un nuovo sistema di significati. Se invece le coordinate non cambiano si rischia di trovarsi ad essere spatriato in patria, che altro non è che la versione riadattata del figliol prodigo al XXi secolo. Ad essere spatriato, a ben vedere, è questo secolo per come oggi lo viviamo e interpretiamo, senza averlo ancora ben capito. Chi è nato nel Novecento fa fatica a ritrovarsi nel XXI e quindi tende a replicare gli schemi del precedente. Chi è nato in questo secolo non è messo in condizione di creare nuove coordinate di riferimento, nuovi significati e nuovo benessere (…)