Assegno unico. Modello giusto ma va alzata la quota uguale per tutti

Per essere uno strumento efficace in termini di politiche familiari, come mostrano ricerche ed esperienze europee, va reso solido un altro aspetto qualificante, quello della effettiva “universalità”, in combinazione con il potenziamento dei servizi alle famiglie.

L’Assegno per le famiglie con figli che entrerà a regime a marzo 2022 presenta tre elementi positivi indiscutibili. Il primo è l’essere “unico”. Assorbe, infatti, in un solo strumento i diversi benefici economici a sostegno alle responsabilità familiari. Il secondo è quello di rivolgersi a tutti i genitori allo stesso modo, indipendentemente dalla condizione occupazionale e dal tipo di professione. Il terzo elemento certo sono le ulteriori risorse destinate, pari a oltre 6 miliardi, rispetto a quelle derivanti dalla somma delle misure che vi confluiscono.

Gran parte delle risorse aggiuntive vengono, però, assorbite dall’operazione di equiparare gli autonomi, precedentemente esclusi, con i dipendenti. Se a questo si aggiunge la preoccupazione della politica di aiutare, tanto più dopo l’impatto della pandemia, le famiglie con basso reddito, si arriva ad una soluzione che difficilmente poteva essere migliore rispetto a quella appena approvata dal Consiglio dei ministri.

Va subito chiarito che, a differenza di quanto affermano alcuni detrattori, non è un “bonus”. Non è uno strumento occasionale. Viene erogato a partire dal settimo mese di gravidanza e fin oltre la maggiore età. Si tratta, quindi, di una misura stabile e continuativa nella sua configurazione. Si potrà criticare l’ammontare erogato ma l’infrastruttura è solida e su essa si potrà in prospettiva costruire ulteriormente.

Chi, poi, afferma che avrebbe dovuto essere ancor più sbilanciato verso i redditi più bassi non ha ben chiaro il vincolo che deriva dal mettere tutte le famiglie con figli sullo stesso piano, indipendentemente dal tipo di professione dei genitori, senza far arretrare nessuno rispetto a quanto riceveva prima. Il segnale che va dato è che si estende, arrivando dove prima non si arrivava, e che, dove si può con le risorse destinate, si cerca di rafforzare. L’altro punto che è stato poco capito è che l’obiettivo originario dell’Assegno unico non è il contrasto al rischio di povertà, ma sostenere la natalità. La scelta di avere un figlio ha bisogno di una combinazione di fiducia e di sostegno concreto. Un paese che decide di dare ad alcuni di meno rispetto al passato va ad incrinare il primo aspetto. Lasciare per il ceto medio che il livello dell’erogazione sia molto basso, rispetto ai costi effettivi sostenuti per i figli, indebolisce il secondo.

Per essere uno strumento efficace in termini di politiche familiari, come mostrano ricerche ed esperienze europee, va reso solido un altro aspetto qualificante, quello della effettiva “universalità”, in combinazione con il potenziamento dei servizi alle famiglie. Una logica pienamente universalistica porta a centrare la misura sui bambini e destinare a ciascuno di essi lo stesso sostegno pubblico, indipendentemente dal reddito dei genitori (che invece, in modo coerente, entra nelle misure contro la povertà). Questo avrebbe reso lo strumento più chiaro nella sua implementazione, più efficiente nella sua erogazione, più rivoluzionario come messaggio in un paese in cui i figli sono considerati un costo privato anziché un bene collettivo, più coerente come misura propria di politiche familiari. Attualmente la parte universale, che va a tutti, è di appena 50 euro. E’ quindi curiosa l’obiezione di taluni di vincolare alla presentazione dell’Isee anche per beneficiare della sola parte universale, a conferma di una distorsione interpretativa che porta a orientare la misura verso fini redistributivi che originariamente non ha. In questo paese, soprattutto su una parte degli economisti, si fa davvero fatica a far passare la logica alla base delle politiche familiari, ma questo spiega anche perché sono state finora così deboli in Italia.

Se per buona parte delle famiglie di ceto medio non cambierà nulla rispetto a prima, ovvero se il segnale di sostegno alle scelte familiari arriva debole ad esse, di fatto si ottiene un disincentivo rispetto alla natalità. E in ogni caso su tale fronte l’Italia continuerà ad essere più debole rispetto a quasi tutti gli altri paesi europei.

La questione sta quindi nelle risorse destinate e non nell’impianto. L’auspicio è, quindi, che sia l’avvio di un processo da monitorare e poi progressivamente, anche sulla base delle evidenze via via ottenute rispetto agli obiettivi attesi, rafforzare.

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