L’acronimo, come ricorda il “Rapporto sul mercato del lavoro 2014” del CNEL, nasce poco dopo il 2000 per indicare la quota di giovani “Not in Education, Employment or Training”, vale a dire gli under 30 che non stanno utilizzando il proprio tempo né per migliorare la propria formazione, né per mettere in pratica le proprie competenze nel mercato del lavoro e contribuire alla crescita del paese. La quantità di giovani lasciati in tale inoperosa attesa era già elevata prima della crisi ma è diventata poi via via una montagna sempre più elevata: la più alta in Europa dopo la Grecia. Siamo quindi uno dei paesi che maggiormente si sono distinti in questi anni nella capacità di trasformare i giovani da potenziali soggettivi attivi a costo sociale.
Gestire bene l’immigrazione aiuta il Paese a crescere
Nelle pagine conclusive di “Se questo è un uomo”, uno dei libri più utili per capire l’abisso della condizione umana, Primo Levi racconta gli ultimi giorni di vita ad Auschwitz. I nazisti, pressati dall’imminente arrivo delle truppe alleate, avevano evacuato il campo lasciando solo gli ammalati. Vari drammatici giorni di freddo, fame e stenti trascorsero prima dell’arrivo dei liberatori. Scrive l’autore: “Venne l’oscurità; di tutto il campo la nostra era l’unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta”. Quale fu la reazione? Non furono lasciati entrare, ma allontanati con fermezza e abbandonati al loro destino. Non c’era spazio per tutti. L’ingresso di altre persone avrebbe ridotto drasticamente le probabilità di sopravvivenza di chi si si era già stabilmente insediato nella camera e aveva contribuito a renderla più vivibile rispetto a tutte le altre.
La generazione stage chiede vero lavoro
Il lavoro per un paese è come il vento per una barca a vela. Se non soffia, la barca rimane ferma. Ma ciò accade anche se le vele, per imperizia, non sono ben disposte. E’ inoltre vero, citando Seneca, che nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare. In questi anni abbiamo sentito molte discussioni sul vento che mancava o che cambiava, ma poco si è ragionato sulla direzione da intraprendere. Irrisolta è rimasta, in particolare, la questione di quale lavoro per quale modello di sviluppo.
Ridare peso alle nuove generazioni in un’Italia che invecchia
Questo slancio l’Italia sembra averlo perso da tempo. I dati che lo confermano sono molti, ma ce ne sono tre eclatanti: l’enorme debito pubblico scaricato sulle nuove generazioni, il deterioramento delle prospettive occupazionali giovanili, la riduzione delle nascite in contrapposizione alla crescita esuberante della popolazione anziana. Difficile trovare una combinazione così accentuata di questi tre aspetti in un altro paese sviluppato, con conseguenze negative vincolanti rispetto alla produzione di ricchezza e benessere.
La parabola di Matteo e le opportunità da non sprecare
Ci riferiamo all’autore della citatissima parabola dei talenti, un brano insidioso che si presta a interpretazioni strumentali. Non a caso ne esistono due versioni. In quella nel Vangelo di Matteo il servo a cui viene dato di meno si accontenta poco virtuosamente di conservare ciò che ha, mentre i due servi a cui viene dato di più raddoppiano entrambi la dote iniziale. La meno nota variante nel Vangelo di Luca – dove si usa la meno preziosa mina rispetto al talento – prevede invece che il padrone dia a tutti i servi lo stesso ammontare. La domanda che ci si può porre è perché sia diventata più famosa ed utilizzata la prima versione rispetto a questa più equa di Luca. Perché, in altre parole, funziona meglio come insegnamento l’idea che i meno dotati meritino la propria più bassa condizione?