Capita spesso di leggere sui giornali o sentire nei dibattiti televisivi che il lavoro se uno lo cerca bene e si adatta lo trova. Se quindi molti giovani sono disoccupati è soprattutto colpa loro che non si rimboccano le maniche quanto serve. Come spesso accade la realtà è un po’ più complessa rispetto agli stereotipi di cui è piena l’opinione pubblica. Sono vari i motivi della presenza di opportunità di lavoro che faticano a trovare manodopera adeguata in un contesto di alta disoccupazione giovanile. Ne elenchiamo quattro, ben intrecciati tra di loro. Il primo è legato al fatto che molte aziende non utilizzano modalità e contenuti adeguati nel pubblicizzare l’offerta rispetto al target specifico di interesse. Il secondo è da ricondurre alla carenza di solidi canali istituzionali di incontro tra domanda e offerta, tanto che la larga maggioranza delle persone continua a trovare lavoro attraverso la rete parentale e amicale. Il terzo fattore è di tipo culturale.
L’impegno a rendere più rosa il futuro
Nel corso dell’ultimo anno si è consolidata una narrazione positiva di Milano. E’ diventato comune nei convegni e nei dibattiti sentir parlare orgogliosamente di città delle opportunità e di metropoli che sa anticipare il futuro. Si può correre però il rischio di confondere la città che vorremmo con quella che attualmente abbiamo. E’ bene essere ottimisti, ma è bene anche mantenere i piedi saldamente a terra. Se guardiamo al resto d’Italia e alla capitale possiamo essere soddisfatti dei rischi che abbiamo evitato più che delle opportunità colte. Osservando i processi di cambiamento e sviluppo in Europa non proviamo la frustrazione di chi si vede ai margini, ma nemmeno possiamo illuderci di essere considerati al centro. Abbiamo però imboccato la strada giusta e abbiamo un largo potenziale ancora inespresso. Se non abbiamo ancora raggiunto le aree del continente che più corrono è soprattutto perché stiamo sottoutilizzando due principali componenti che, dove adeguatamente messe in campo, dimostrano di poter fare la differenza. Si tratta dei giovani e delle donne. Se Milano vuole davvero diventare una città delle opportunità e dimostrare di essere in grado di anticipare il futuro, è soprattutto sulle giovani donne che si misureranno i risultati ottenuti. Di fatto significa saper coniugare la crescita delle opportunità con quella delle pari opportunità.
E’ tempo di mettere l’esperienza al servizio dell’innovazione
Non sarà un’impresa facile la guida di Milano nei prossimi cinque anni. Pisapia stesso deve guardarsi dalla sindrome di Lippi, che ritiratosi da ct dopo il successo della nazionale ai mondiali del 2006 si lasciò convincere a tornare sui suoi passi, con esito disastroso. In molti hanno il timore che la Milano di questi ultimi anni somigli alla nazionale che seppe conquistare la coppa del Mondo in Germania: più che l’inizio di una nuova stagione fu solo una felice parantesi. Nei due mondiali successi siamo infatti usciti miseramente al primo turno. Giuliano Pisapia può fare moltissimo a fianco del prossimo sindaco. Si tratterebbe di un segnale culturale di grande rilevanza per un paese come l’Italia che oscilla tra i due estremi della rottamazione e del blocco generazionale. In una società che funziona come dovrebbe, le generazioni cooperano per il comune bene, che in questo caso è la crescita economica e sociale della città. Una collaborazione tanto più importante per una metropoli in grande trasformazione come Milano.
La politica delle paure è la peggiore minaccia sul nostro futuro
Sono 800 mila i bambini stranieri che frequentano le scuole italiane. Erano meno del 2 percento della popolazione scolastica totale all’entrata in questo secolo e sono ora vicini al 10 percento. Oltre la metà di essi è nata in Italia ma tale dato è in forte crescita, tanto che gli alunni stranieri nativi sul suolo italiano sono quasi due su tre tra chi frequenta le elementari. “Stranieri” non di fatto ma per una legge che impone ad essi di non sentirsi e considerarsi cittadini nell’unico paese che conoscono e nel quale sono da sempre vissuti. Si può forse discutere sul dare la cittadinanza al momento della nascita, ma è certamente importante riconoscere la non diversità di status nel momento in cui inizia il processo di socializzazione. Varie ricerche mostrano come il concetto di “straniero” – ovvero di diverso da chi vive qui – tra gli alunni delle prime classi delle elementari non sia legato alle origini dei genitori o al colore della pelle, ma solo alla lingua. La differenza tra bambini cittadini e coetanei esclusi da tale riconoscimento la apprendono da noi adulti; è una disuguaglianza che introduciamo noi nei loro occhi.
Neet ed Expat: i giovani che stiamo perdendo
E’ difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre di meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat. In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema paese.