Uno dei principali nodi del nostro paese è la difficoltà a far stare positivamente assieme la scelta di avere un figlio con quella di un lavoro. Favorire la possibilità di realizzare tali due obiettivi ha ricadute positive per tutti: dovrebbe quindi essere considerata una priorità per un paese che vuole crescere e migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini. Passare dalla competizione alla conciliazione tra lavoro e famiglia è stato uno dei punti di svolta principali delle società moderne avanzate. I paesi sviluppati che più hanno investito in tale direzione presentano oggi una fecondità più elevata e una maggior presenza femminile nel mercato del lavoro. Si trovano di conseguenza con un invecchiamento della popolazione meno accentuato, una crescita economia più solida, un sistema sociale più sostenibile, maggior entrate nelle famiglia e quindi anche minore povertà infantile. Se l’Italia mostra una condizione più problematica su tutti questi ultimi aspetti, nel confronto con il resto del mondo avanzato, è perché abbiamo a lungo pensato che le misure di conciliazione fossero un costo su cui risparmiare, anziché un investimento ad alto rendimento in termini di benessere sociale e crescita economica. Ci troviamo quindi ora con un numero di nascite sceso ai livelli più bassi di sempre e una occupazione femminile bloccata su valori tra i più imbarazzanti in Europa. Non è certo questo l’esito di politiche intelligenti.
Il secolo degli ultra centenari sulla luna
Se dovessimo pensare ad un mondo ideale, lo vorremmo tutti, immagino, libero dai rischi di morte in età precoce. A tutti piacerebbe abitare in un pianeta in cui chi nasce può aspettarsi di attraversare incolume tutte le fasi della vita e arrivare in buona salute e pieno di energie in età anziana. Ma arrivati felicemente in età avanzata perché si dovrebbe aver fretta di lasciare? Più si rinvia con successo in avanti la conclusione della vita e più si vorrebbe rinviare ancora. Questo è quanto sinora è successo nell’ultimo secolo e mezzo della storia umana. Per millenni i rischi di morte che si correvano alle varie età si sono ripetuti in modo pressoché inalterato da una generazione all’altra. Poi ad un certo punto è scattato qualcosa di nuovo: la rivoluzione scientifica e quella tecnologica hanno dato all’Uomo maggior consapevolezza nella capacità di conoscere la realtà e nelle potenzialità di migliorarla in funzione di propri obiettivi e desideri. Quello di vivere bene fino ai 100 anni, assieme a quello di toccare la luna, è sempre stato considerato un sogno impossibile. Ad un certo punto la nostra specie ha imboccato una strada che ha reso tutto ciò possibile.
Neil Armostrong è nato nel 1930. A quell’epoca pochi arrivavano ad 80 anni e nessuno era mai stato fuori dal pianeta terra. Lui è stato il primo uomo a scendere sulla luna ed è poi morto nel 2012 a 82 anni. Un risultato impensabile per i suoi genitori quando l’hanno preso la prima volta in braccio. Ma la generazione di chi è nato nel 2012 vivrà, secondo le più accreditate previsioni, in media sin oltre i 100 anni e verosimilmente vedrà le prime colonie di uomini sulla luna.
Ma nulla è scontato. Non lo è il vivere sempre più a lungo e nemmeno l’aggiungere qualità agli anni in più guadagnati. La sfida principale della nostra specie però è proprio questa. Non possiamo né fermarci e né tornare indietro. Abbiamo iniziato un gioco che impone il rilancio continuo. Non è più possibile nessun equilibrio in una posizione stabile. Dopo aver quasi annullato i rischi di morte in età infantile, giovanile e adulta dobbiamo continuare a tenere la guardia alta perché la possibilità che tornino a salire è sempre in agguato. Non si tratta di una preoccupazione teorica: negli Stati Uniti c’è oggi forte attenzione per l’aumento della mortalità in età giovane-adulta.
Il meglio per domani dal possibile di oggi
Le nuove generazioni, cresciute nella società del benessere, si trovano oggi in condizione di scarsità. I dati appena pubblicati dall’Istat, in un approfondimento appositamente dedicato agli under 35, confermano andamenti negativi in corso da troppi anni. Raccontano di un paese in cui i giovani sono sempre di meno, nel quale trovano limitate possibilità di lavoro di qualità e dal quale ne vanno sempre di più. Il risparmio privato delle famiglie italiane, mediamente più elevato rispetto agli altri paesi, è stato fortemente eroso dalla crisi ed è messo a dura prova dalla lunga dipendenza economica dei figli. Alto debito pubblico e accentuato invecchiamento della popolazione pongono dei vincoli alla spesa sociale da destinare a formazione e welfare attivo per i giovani. Come conseguenza le nuove generazioni rischiano di trovarsi con un presente di scarse risorse e ridotte opportunità, rinviando ad un incerto futuro prossimo la realizzazione dei propri progetti di vita e ad un indefinito futuro remoto la possibilità di raggiungere una pensione decente, come ribadito anche recentemente dal presidente dell’INPS.
Come si conquista il voto dei giovani
I giovani hanno, in generale, una gran voglia di mobilitarsi. Cercano occasioni per mettersi alla prova e mostrare che grazie al loro contributo le cose possono cambiare. Vale in tutti gli ambiti, nella vita privata, nel mondo del lavoro, nella partecipazione sociale e in quella politica. I Millennials sono però una generazione non facile da coinvolgere, pur presentando una forte domanda di partecipazione. Rispetto alle generazioni precedenti funziona molto meno il senso di appartenenza ad una associazione o a un partito. Viceversa, sono più disposti a spendersi su istanze specifiche, per il loro valore in sé e per il tipo di protagonismo che consentono di esprimere.
Il cambiamento imposto non migliora le opportunità
Siamo esperti in Italia a trasformare le opportunità in vincoli. Non sapendo governare preferiamo obbligare. E’ vero che a volte il cambiamento va forzato, ma consentendo, nel caso, di arrivare preparati e con strumenti adeguati per gestirlo con successo. Questa attenzione non c’è stata, ad esempio, con la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Con l’esito che l’occupazione giovanile non è migliorata e si è anzi espansa l’area grigia tra lavoro e non lavoro. Abbiamo così fatto scadere la flessibilità, potenzialmente positiva, in precarietà di vita. Se siamo un paese culturalmente resistente al cambiamento è anche perché la politica si è troppo spesso rivelata incapace di gestirlo in modo da ottenere vantaggi collettivi. Per crescere deve vincere il cambiamento di successo, quello che incoraggia scelte positive, non quello che complica la vita delle persone e induce reazioni difensive.