Costruire dal basso una positiva e nuova idea di Paese

La bassa crescita, la mobilità sociale inceppata, l’aumento delle diseguaglianze, hanno deteriorato la fiducia nelle istituzioni e verso il futuro. Il crollo delle nascite è forse il sintomo più evidente della combinazione tra difficoltà oggettive e clima negativo.

Nelle urne del 4 marzo è entrato tutto questo ed è uscito un unico chiaro esito: la bocciatura dei partiti che maggiormente hanno assunto la guida del paese nella nostra storia più recente. Hanno prevalso le forze politiche più critiche verso tale guida e più in grado di intercettare il malessere crescente degli elettori.

La difficoltà di leggere e governare positivamente le trasformazioni in atto (globalizzazione, innovazione tecnologica, invecchiamento della popolazione, immigrazione) porta come reazione un atteggiamento di difesa e chiusura, di rifiuto verso ciò che è nuovo e che rimette in discussione precedenti certezze, aumentando la domanda di rassicurazione. È a questa domanda che oggi Lega e Movimento 5 stelle riescono meglio di altri a rispondere. Il governo in carica non è certo la causa di ciò che non funziona nel Paese, ma è legittimo nutrire seri dubbi sulla sua capacità di dare vere risposte.

Il consenso politico basato sulle proposte di chiusura e difesa tende ad offrire una semplificazione distorsiva della realtà che rassicura nel presente ma non aiuta a costruire un futuro migliore. Per le proposte di apertura la sfida è più alta e impegnativa, perché devono essere convincenti oggi (verso l’elettorato) ed efficaci nel dar riscontro positivo di un effettivo percorso di miglioramento prodotto nella vita dei cittadini.

Se però non si agisce con forza e convinzione nella direzione giusta il rischio è quello di trovarsi tra dieci anni a scoprire che la crisi non è stata dal nostro paese l’occasione per ripartire con un nuovo modello sociale di sviluppo, ma ha spostato verso il basso il percorso di crescita del Paese (schiacciato sempre più insanabilmente da debito pubblico, squilibri demografici, diseguaglianze sociali).

Questi sono forse gli anni più cruciali nel determinare la qualità del futuro dell’Italia in questo secolo: chiudersi nel presente è il peggiore errore che possiamo fare (e la maggiore colpa sulle generazioni future), anche se nell’immediato sembra ciò che ripaga di più elettoralmente.

L’Italia può dare bellezza ai processi di cambiamento di questo secolo. Ma non potrà farlo in un clima di risentimento, paura e rassegnazione. Perché possa esprimere il meglio di sé è necessario che venga rafforzato il senso di appartenenza ad un destino comune e sviluppata una visione comune di un futuro possibile e desiderato da realizzare.

L’alternativa vera che oggi va costruita non è, allora, tanto quella che mira a far perdere i partiti di chiusura, ma quella in grado di rendere vincente il Paese attraverso un modello convincente di apertura. Rischiano, perciò, di rivelarsi controproducenti o inefficaci iniziative che nascono per porsi “contro” chi è “contro”, ovvero con l’obiettivo di difesa e contrapposizione alle cosiddette forze populiste. Adottare un approccio “contro” e “difensivista” significa accettare di operare in negativo sul terreno di un’Italia divisa anziché in positivo nella costruzione di un’idea di Italia condivisa. Di limitato impatto rischiano di avere anche iniziative che nascono come operazioni dall’alto, costruite attorno a figure politiche note (anche di valore) che in uno scenario nuovo cercano consenso attorno ad una loro proposta. Una terza tentazione è quella di contrapporre frontalmente le competenze tecnocratiche al populismo.

Con questi tre approcci si rischia di perdere l’occasione favorevole in questo momento storico di progettare dal basso un’Italia diversa e di dare a tale prospettiva tutta la forza di imporsi propositivamente. Non mettendosi contro, ma guardando oltre.

Al rancore e alla paura che chiude in difesa del presente, va contrapposto (anzi, controproposto) il desiderio di partecipare alla costruzione di un’Italia aperta che metta in gioco le energie positive del Paese. Il modo più concreto e solido per farlo è quello di mettere assieme le realtà (i soggetti sociali) che già oggi dal basso si muovono in tale prospettiva, ovvero di connettere chi nella sua azione sul territorio già sperimenta concretamente che l’apertura è più feconda della chiusura. Un’apertura da intendere su tre direttrici (temporale, spaziale e relazionale): verso il futuro, verso l’Europa e il mondo, verso l’altro.

Dare protagonismo agli attori dell’apertura che funziona e produce valore sul territorio non significa chiedere ad essi di farsi consenso strumentale ad operazioni politiche calate dall’alto, ma produrre con essi (con la loro esperienza concreta fatta intelligenza collettiva e messa, con metodo, a valore comune) l’idea di paese desiderato e possibile da realizzare nei prossimi 5, 10, 15 anni. Ovvero, la costruzione concreta del luogo futuro in cui collocare capacità e specificità italiane di generare benessere e valore in coerenza con le trasformazioni del mondo che cambia. Un luogo che abbia tutta la forza di attrarci verso di sé, perché rappresenta ciò che possiamo e vogliamo diventare. Questa idea positiva di Italia da costruire progettualmente assieme dal basso (le forme possono essere varie) deve diventare il Bene Comune di cui prendersi individualmente e collettivamente cura.

Senza questa operazione preliminare qualsiasi proposta di rinnovamento dei tradizionali partiti o di creazione di nuova offerta politica rischia di nascere con il fiato corto, senza vera capacità e forza di cambiare in positivo il destino di questo Paese.

Dai giovani più fiducia nelle imprese che nella politica

L’azione del governo appare più orientata alla difesa e al “contro”.
Azione contro l’immigrazione, contro i privilegi della casta, contro le aziende che assumono ricorrendo troppo a contratti flessibili. Azione che risponde al timore di non perdere quanto sinora acquisito, di dare sicurezza, in coerenza con i sentimenti dell’elettorato di Lega e M5S, ma con il rischio di un ulteriore schiacciamento sul presente.
Si fa fatica a intravedere invece un’azione che aumenti le prospettive di lavoro all’interno di un solido progetto di sviluppo del Paese e di incoraggiamento alle energie positive ad aprirsi verso il futuro.
Questo trova riscontro nell’atteggiamento delle nuove generazioni, che rimangono con livelli bassi di fiducia nelle istituzioni e nello stesso nuovo governo, in attesa di vedere un’azione più concreta e convincente di miglioramento delle proprie condizioni.
Più fiducia offrono invece alle aziende, al volontariato e alla ricerca scientifica. Ovvero in contesti in cui possono diventare protagonisti per la crescita sociale ed economica del Paese.
I dati raccolti dal “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo dal 2 al 13 luglio 2018 su un campione di oltre 2mila giovani tra i 20 e i 34 anni, mostrano come chi assegna voto positivo al governo sia poco più di un giovane su tre. Sotto tale percentuale si collocano i partiti, le banche e i sindacati, ma anche i social network (che appaiono screditati da oltre due giovani su tre).
Scuola e forze dell’ordine continuano a essere considerati due punti di riferimento solidi da circa il 60% dei rispondenti. Ma piccole imprese, volontariato si collocano su livelli simili, con la ricerca scientifica che si posiziona sopra a tutto il resto.
Per converso può preoccupare che un 30% dei giovani non esprima fiducia quasi in nulla. Una sfiducia spesso legata a una condizione senza prospettive che poi diventa corrosiva in ogni dimensione della vita e della partecipazione sociale.
In positivo c’è il fatto che, nonostante le condizioni in cui si trovano i giovani italiani (si pensi al record di Neet in Europa, all’incertezza occupazionale e alle basse retribuzioni), la grande maggioranza degli intervistati guardi con fiducia alla scuola, all’impegno sociale nel volontariato, all’intraprendenza delle piccole e medie imprese, alla ricerca scientifica e all’innovazione. Ovvero nei contesti in cui si è messi nelle condizioni di imparare e fare (l’opposto della condizione di Neet in cui troppi continuano a essere intrappolati).
Rimane il punto debole del ruolo della politica e delle istituzioni. Dato confermato dal fatto che circa il 60% degli intervistati non ha visto sinora un’azione pubblica impegnata nel migliorare le condizioni delle nuove generazioni e la considera poco attenta a offrire spazi e opportunità per favorire il loro inserimento attivo nei processi di crescita sociale ed economica del Paese. Il fatto che a malapena il 10% dei giovani assegni un voto superiore o uguale a 8 al ruolo del governo e delle istituzioni su questi punti evidenzia che anche molti di coloro che hanno votato per Lega e M5S siano ancora in attesa di vedere azioni concrete che vadano oltre all’offrire difesa dai rischi di peggioramento delle condizioni presenti, per mettere le basi di un processo che immetta le nuove generazioni solidamente nei processi di costruzione di un futuro migliore.

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Non basta uno spot per risollevare le nascite

L’obiettivo di uno spot è richiamare attenzione e interesse per incrementare le vendite rispetto ai concorrenti. Da questo punto di vista lo spot della Chicco, che invita a far vincere il paese facendo un figlio, ha colto nel segno. Ovvero chi già progettava di allargare la famiglia tenderà ora a guardare con maggior simpatia i prodotti Chicco. Controverso è invece l’impatto sull’incremento effettivo delle nascite. Quello che mostra anche l’esperienza di altri paesi, come lo spot di qualche anno fa in Danimarca, è che il registro dell’ironia e della leggerezza funziona.

Non è però la stessa cosa se il messaggio arriva da un’azienda interessata a far profitto anziché da un’istituzione pubblica. Ci sono anche altri aspetti rilevanti. In Italia, come molte ricerche confermano, il desiderio di avere figli non manca, quello che va allineato al rialzo sono le politiche familiari, sul versante sia economico che dei servizi. In Danimarca il sistema di welfare è invece tra i più avanzati e aumentare ulteriormente la fecondità, già maggiore della media europea, richiede un a spinta sui desideri riproduttivi. Discutibile è anche l’invito a “farlo per la patria”. La scelta di un figlio tocca motivazioni più profonde che vanno ben oltre l’utilitarismo individuale o collettivo. Per aumentare le nascite l’esempio da seguire è la Germania che partiva da livelli di fecondità più bassi dei nostri e in dieci anni è salita da una media di 1,38 a 1,6 figli (mentre noi siamo scesi da 1,45 a 1,34). Un risultato non ottenuto con uno spot ma attraverso un’ampia azione di effettivo rafforzamento delle misure a sostegno dei progetti familiari.