Per tutta la storia dell’umanità la popolazione del pianeta è rimasta abbondantemente sotto il miliardo di abitanti. Tale soglia è stata superata con l’entrata nel XIX secolo. Ad inizio del XX siamo saliti oltre il miliardo e mezzo. Siamo poi entrati nel XXI superando i sei miliardi. Ad inizio del XXII potremmo trovarci sopra gli 11 miliardi.
Più che lo ius soli conta lo ius culturae
Sul cosiddetto “ius soli” c’è molta confusione e strumentalizzazione, la prima creata soprattutto dai mass media, la seconda dalla politica. Per fare un po’ di chiarezza può essere utile partire dai dati. La popolazione residente italiana è composta da oltre 60 milioni di abitanti. Oltre 5 milioni di loro sono stranieri, anche se fanno strutturalmente parte, appunto, di quella che viene formalmente definita come “popolazione residente italiana”.
Generazione Verde, un giovane su due allarmato per il clima
C’è un pianeta da salvare, c’è un impegno per il bene comune da riscoprire, c’è una consapevolezza dell’importanza di agire oggi per un futuro migliore da rafforzare, c’è un protagonismo positivo delle nuove generazioni che torna a soffiare. Tutti questi elementi combinati insieme stanno alla base della chiamata alla discesa in campo, contro il riscaldamento globale e a favore dello sviluppo sostenibile, dei giovani di tutto il mondo. Il “Global strike for future” di venerdì 15 marzo non è, infatti, solo la discesa in piazza di un giorno, ma sembra avere tutte le caratteristiche per diventare la prova generale di mobilitazione trasversale da parte di una generazione che vuole sperimentarsi come lobby positiva per il futuro di tutti. C’è, alla base, l’ambizione di incidere sulle scelte delle attuali generazioni adulte e forzarne l’azione verso la salvaguardia di un pianeta vivo e sano da consegnare alle generazioni che ancora devono nascere.
Dove il domani ricomincia. La via è «occuparsi con» i giovani
L’Italia sta erodendo il proprio futuro dalle basi, a causa degli squilibri demografici prodotti dalla persistente bassa natalità. Ma la bassa propensione ad avere figli è essa stessa il sintomo dell’offuscamento del nostro sguardo positivo verso il futuro. Da un lato, con sempre meno giovani, il Paese perde energia, slancio, vitalità, capacità di produrre benessere, rallenta la crescita e vede aumentare i costi previdenziali e sanitari di una popolazione sempre più anziana. Dall’altro i giovani stessi, pur partendo da desideri e obiettivi di vita simili ai coetanei europei, anziché essere ancor più incoraggiati a realizzarli si trovano a tenerli in sospeso e, via via con l’età, progressivamente a rinunciarvi. I dati dello “Studio Nazionale Fertilità” del Ministero della Salute mostrano che quasi l’80 per cento dei giovani italiani immagina un proprio futuro con figli e che le intenzioni riproduttive vengano poi riviste al ribasso in età adulta.
Questo “schiacciamento in difesa” da parte delle nuove generazioni ha alla base due fattori principali. Il primo è la difficoltà a credere fino in fondo ai propri desideri, trasformandoli in solidi progetti di vita e impegnandosi a realizzarli in pieno nonostante le difficoltà. Per gran parte della storia dell’umanità i figli sono stati il frutto naturale della vita, non erano una scelta. Ora, invece, diventare genitori è soprattutto una decisione che richiede consapevolezza e responsabilità, ma anche fiducia.
Quello che manca oggi nel nostro Paese, più che in passato e più che in altri Paesi, è favorire le condizioni perché tale scelta possa compiersi con successo. Qui sta il secondo fattore. In un mondo complesso e in rapido cambiamento aumenta l’incertezza rispetto al proprio futuro. Tale incertezza tende a trasformarsi in insicurezza che paralizza le scelte se manca una educazione solida (non solo sulla “salute riproduttiva”) che aiuti a dar senso al proprio agire, e in carenza di politiche pubbliche in grado di sostenere, oggettivamente e simbolicamente, la capacità di essere, fare e generare valore delle nuove generazioni.
Nel processo di transizione alla vita adulta tutte le tappe, dall’uscita dalla casa dei genitori alla formazione di una unione di coppia, passando per il lavoro, sono diventate reversibili, tranne la punta più avanzata di tale percorso che è l’arrivo di un figlio. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo le nuove generazioni desiderano far crescere i figli in un contesto di sicurezza, con la possibilità di fornire a essi adeguate cure e benessere. Ma se le aspirazioni sono cresciute, le prospettive sono diminuite. Le statistiche dell’Istat evidenziano come negli ultimi anni ad aumentare sia stata soprattutto la povertà delle famiglie con figli e persona di riferimento under 35. La situazione di precarietà e insicurezza porta allora, come suggerisce anche lo Studio ministeriale, a posticipare tutte le tappe dell’entrata nella vita adulta e a rendere i giovani ipercauti rispetto, appunto, a scelte irreversibili come quella di diventare genitori.
La possibilità effettiva di realizzare tale scelta va quindi considerato come l’indicatore principale della capacità di una comunità di mettere le nuove generazioni nelle condizioni di andar oltre le difficoltà del presente e assumere oggi decisioni che impegnano positivamente verso il domani. I dati che abbiamo a disposizione mostrano come su questo cruciale terreno l’Italia stia perdendo la sua più importante battaglia per costruire un futuro più solido. Ripartire dai desideri delle nuove generazioni è ancora possibile, ma solo se la politica passa dal “preoccuparsi dei” giovani a “occuparsi con” i giovani di come dare un destino diverso a questo Paese.
Il tempo dei padri
Avere un figlio ti cambia la vita. Questo è senz’altro vero per le madri italiane, molto meno per i padri. La difficoltà della politica a rafforzare il congedo di paternità, la resistenza passiva dei datori di lavoro, la poca determinazione dei padri italiani a pretenderlo, sono una chiara conferma. Esiste qualche segnale dell’emergere di un nuovo ruolo paterno, all’interno però di un cambiamento ancora lento. Il recente caso del trentenne chef stellato Metullio, che lascia provvisoriamente da parte una brillante carriera per dedicare il suo tempo al figlio, si pone sulla punta di un iceberg che ha ancora un’enorme parte sommersa.
Alcune indicazioni interessanti dell’atteggiamento delle nuove generazioni sul rapporto tra lavoro e famiglia si possono trarre da un’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, condotta a gennaio su un campione rappresentativo di giovani tra i 20 e i 34 anni, fascia in cui rientra lo stesso Metullio.
I dati evidenziano come per le giovani donne italiane sia fortemente sentito il tema della conciliazione tra carriera e figli, per la carenza di servizi per l’infanzia ma anche per la scarsa collaborazione dei padri. La preoccupazione principale è quella di mantenere il lavoro e le laureate sono quelle che maggiormente riescono a gestire i due ruoli. Sul fronte maschile, sono soprattutto coloro che hanno un titolo di studio basso a intensificare l’attività lavorativa quando arrivo un figlio, per far fronte alle maggiori spese. Questo accade ancor di più se la madre non lavora o si trova a dover lasciare l’occupazione. La bassa occupazione femminile e i bassi redditi da lavoro di ampie fasce sociali costituiscono un freno sia per la natalità, sia per il tempo verso i figli da parte dei padri. Esiste però anche un aspetto culturale, messo in evidenza dai dati sui giovani che non hanno ancora figli e a cui è stato chiesto che cosa deciderebbero di fare nel caso diventassero genitori avendo un lavoro a tempo pieno. Le donne laureate si dividono quasi equamente tra chi diminuirebbe e chi manterrebbe l’impegno lavorativo, mostrando un forte interesse a combinare la realizzazione in entrambi gli ambiti di vita. Le donne con basso titolo di studio in quasi due casi su tre opterebbero invece per una riduzione sul fronte occupazione.
Dal lato maschile la situazione si ribalta, rendendo evidente anche come le scelte di conciliazione siano legate alle strategie di coppia, a loro volta dipendenti non solo da preferenze ma anche da mancanza di opportunità e vincoli presenti sul mercato del lavoro. In particolare il 29,5% dei laureati afferma che aumenterebbe l’impegno lavorativo per incrementare il reddito, contro il 34,6% di chi ha titolo di studio basso. I primi nel 50,1% dei casi manterrebbero lo stesso carico di lavoro e il 20,4% lo ridurrebbe “per dedicare più tempo alla famiglia”. I corrispondenti valori sono 48,5% e 16,9% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo.
In sintesi, il tempo paterno continua ad essere una risorsa scarsa per i bambini italiani. Per un cambiamento del ruolo dei padri è necessario che maturino nuovi modelli culturali, favoriti da esempi positivi come il caso dello chef stellato, ma serve anche che migliorino i redditi da lavoro delle fasce sociali medio-basse e che siano potenziati gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Si tratta di fattori che, nel loro insieme, agiscono positivamente sia sulla quantità delle nascite, particolarmente bassa in Italia, sia sull’occupazione femminile, sia sulla riduzione della povertà infantile, sia sull’equilibrio dei rapporti di genere, oltre che sulla qualità del rapporto tra padri e figli. Con conseguenze positive di lungo periodo sul benessere economico e relazionale della famiglia.
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