Restituire ai giovani il ruolo che spetta loro

Sotto la spinta delle trasformazioni demografiche e tecnologiche, ogni generazione si trova a costruire in modo nuovo il proprio percorso rispetto a quelle precedenti, sia perché le età della vita non sono più le stesse, sia perché il mondo cambia e offre sfide inedite. Questo mette ancor più che in passato al centro il ruolo delle nuove generazioni, che vanno intese come il modo attraverso cui la società sperimenta il nuovo del mondo che cambia. Se messe nelle condizioni adeguate sono quelle maggiormente in grado di mettere in relazione le proprie potenzialità con le opportunità delle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal preparati, sono i primi a veder scadere le proprie prerogative e a trovarsi maggiormente esposti con le loro fragilità a vecchi e nuovi rischi. I giovani non sono solo una categoria anagrafica. La giovinezza rappresenta la fase progettuale di ogni nuova generazione. Dalla capacità, quindi, di creare progetti solidi e dalla possibilità di realizzarli con successo dipende la solidità e la prosperità di una comunità. Per crescere in termini di ricchezza economica e di benessere sociale la risposta più che dal conflitto dovrebbe arrivare dalla proficua collaborazione tra generazioni, che però deve avere come principale attenzione quello che di nuovo i giovani possono dare anziché quello che gli anziani possono conservare.

Le generazioni più mature dovrebbero spostarsi dalla difesa di quanto raggiunto nel passato, al mettersi a disposizione per consentire alle nuove generazioni di disporsi in ruoli d’attacco verso il futuro. Questo è possibile solo con un diverso approccio culturale che abbandoni l’idea passiva del cambiamento come ciò che ci porta via qualcosa rispetto a ieri, per passare a considerare il cambiamento come un impegno attivo che consenta al domani di darci qualcosa in più rispetto ad oggi. Per costruire un futuro migliore – che apra alla speranza e non schiacci in difesa – serve quindi un impegno comune nel mettere ciò che è nuovo nelle condizioni migliori per trasformarsi in valore aggiunto a beneficio di tutto il Paese. L’Italia risulta purtroppo essere una delle economie avanzate che in questo secolo maggiormente hanno preteso di creare sviluppo e benessere senza promuovere un contributo qualificato delle nuove generazioni. La combinazione tra riduzione demografica dei giovani e il deterioramento delle loro prospettive occupazionali presenti e previdenziali future non ha quasi eguali in Europa. Il problema non è solo la carenza di politiche efficaci, manca a monte una vera attenzione nei confronti dei giovani e un approccio strategico nel-l’affrontare il tema della crescita con le nuove generazioni. Tutto quello che riguarda le nuove generazioni è sconsolatamente al ribasso nel nostro paese rispetto al mondo con cui ci confrontiamo. Ciò che è cresciuta in questi anni è la loro incertezza nel futuro e la ricerca di un miglior futuro all’estero. Una disattenzione pubblica che abbandona i giovani a sé stessi oppure li relega nella condizione di figli passivamente dipendenti dai genitori. Di conseguenza siamo uno dei paesi sviluppati che maggiormente hanno lasciato crescere accentuati squilibri generazionali. Questi squilibri costituiscono un rilevante freno allo sviluppo competitivo dell’economia, rendono meno stabile il sistema di welfare pubblico, alimentano diseguaglianze sociali e territoriali.

Questi squilibri si possono gestire e superare solo passando dalla preoccupazione dei rischi legati a vincoli e costi, all’investimento sulla capacità di produrre ricchezza e benessere delle nuove generazioni in tutto il loro corso di vita. Il rischio è, altrimenti, quello di scivolare in una spirale negativa di ‘degiovanimento’ quantitativo e qualitativo della società. Non investire sulle nuove generazioni porta ad una riduzione delle loro prospettive nel luogo in cui vivono. Partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dai genitori, si accontentano di svolgere lavori in nero o sottopagati, oppure se ne vanno altrove. Chi rimane riesce a fare molto meno rispetto ai propri desideri e alle proprie potenzialità. Fornisce un contributo produttivo e riproduttivo più basso. Così l’economia non cresce e non si formano nuove famiglie. Questo porta ulteriormente le nascite a diminuire e la popolazione ad invecchiare, con risorse sempre più scarse da redistribuire e conseguente aumento delle diseguaglianze. I dati del ‘Rapporto giovani 2018’ dell’Istituto Toniolo, evidenziano un desiderio nei giovani italiani di sentirsi riconosciuti positivamente come forza di sviluppo del Paese non certo inferiore rispetto ai coetanei europei. Si sentono però forniti di minori strumenti utili a superare le proprie fragilità e a far emergere le proprie potenzialità, fuori dall’ambiente protettivo della famiglia di origine. Per uscire da questa spirale negativa che combina scadimento delle condizioni dei giovani, crescita di squilibri demografici e di diseguaglianze sociali, indebolimento della capacità di crescita economica, è necessario cambiare strategia di sviluppo del Paese, non costringendo i giovani ad adattarsi al ribasso a quello che l’Italia oggi offre, come fatto sinora, ma consentendo all’Italia di crescere al meglio di quanto le nuove generazioni possono dare.

Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione quello che pesa, infatti, è soprattutto il non sentirsi inseriti in processi di crescita individuali e collettivi, ovvero inclusi in un percorso che nel tempo consenta di dimostrare quanto si vale e di veder riconosciuto pienamente il proprio impegno e il proprio valore. È necessario, di fondo, soprattutto un cambiamento culturale che sposti i giovani dall’essere considerati come figli destinatari di aiuti privati dalle famiglie, a membri delle nuove generazioni su cui tutta la società ha convenienza a investire in modo solido, riconoscendo ad essi il ruolo di ‘nuovo di valore’ in grado di generare nuovo valore.

Per una ripresa della natalità

Il XX secolo è stato un periodo di forte accelerazione della crescita demografica del pianeta, crescita dovuta all’inedito successo nella riduzione dei rischi di morte, a partire dalle età infantili e poi via via nelle successive età della vita. Siamo entrati nel nuovo secolo con l’idea di rendere ovunque normale la possibilità che un nuovo nato possa vivere tutte le stagioni della vita fino a quelle più avanzate. Vivere a lungo è certamente un obiettivo positivo, che va però accompagnato da scelte in grado di riempire di qualità e valore gli anni aggiuntivi. L’invecchiamento della popolazione è però anche accentuato dall’altro grande processo che caratterizza la transizione demografica: la riduzione della natalità.

La fecondità media su tutto il pianeta è attorno a 2,5 figli ed è prevista scendere sotto il valore di 2 entro la conclusione di questo secolo. Fino a poco più di un secolo e mezzo fa il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5 in tutti i paesi del mondo. Un livello che oggi consideriamo alto ma che consentiva di compensare l’elevata mortalità infantile. In ogni caso per tutta la storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, la grande maggioranza della popolazione non sceglieva quanti figli avere, semplicemente si formava una unione di coppia e poi i figli arrivavano senza che nella testa dei genitori ci fosse un numero atteso. Oggi solo 36 paesi si trovano ancora con una fecondità su quei livelli, 33 dei quali concentrati nell’Africa sub-sahariana.
La prima fase di riduzione rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta per sottrazione. Ovvero la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, a partire dai ceti più istruiti. Molti paesi di diversi continenti — come India, Indonesia, Messico, Egitto — si trovano attualmente in questa fase. Le società della modernità più avanzata sono entrate, invece, in una ulteriore fase, nella quale è diventato sempre meno scontato avere figli. La scelta opera quindi in aggiunta — spinta da motivazioni personali e favorita da un contesto adatto — senza la quale la condizione di base rimane il non avere prole.
In questo passaggio il numero desiderato è rimasto comunque mediamente vicino a due, ma ad avvicinarsi maggiormente alle proprie preferenze al rialzo sono soprattutto le persone che si trovano con maggiori risorse socioculturali, in contesti con migliori servizi e maggior investimento in politiche familiari. Qui possiamo distinguere tre gruppi di Stati all’interno della stessa Europa. Il primo gruppo è formato da paesi come Francia e Danimarca, che non sono mai scesi troppo sotto la soglia dei due figli per donna (che equivale alla soglia di sostituzione generazionale), grazie a una attenzione continua verso misure a supporto della natalità. Il secondo gruppo contiene la Germania e altri paesi dell’Est Europa, che dopo essere scesi su livelli più vicini a uno che a due figli, recentemente hanno fortemente investito in politiche familiari ottenendo i migliori risultati in termini di ripresa delle nascite. L’ultimo gruppo ha al suo interno paesi come l’Italia e la Spagna, che invece continuano a presentare una fecondità persistentemente bassa senza segnali di ripresa.
L’Italia, in particolare, è diventata l’area con meno bambini in Europa, con squilibri tali da trovarsi oggi con più ottantenni che nuovi nati. Ma anche all’interno del territorio italiano si riscontrano differenze rilevanti nella direzione attesa. La fecondità è crollata maggiormente nelle regioni del Sud, in particolare dove l’occupazione giovanile è più bassa e gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia sono più carenti, come mostrano analisi territoriali con corretti indicatori. La provincia di Trento e quella di Bolzano risultano invece quelle in cui si stanno sperimentando le politiche più interessanti e solide, assieme ad altri specifici comuni, con risultati incoraggianti.
L’Italia può dimostrare che è possibile tornare a essere un paese vitale, mettendo al centro delle proprie politiche pubbliche il sostegno alle scelte desiderate e di valore delle nuove generazioni, in modo che non diventino frustrazione e rinuncia, ma successo nell’arricchire progetti di vita che rendono più solido il futuro comune. Esiste certo anche una questione culturale, ma riguarda prima di tutto quanto un figlio è considerato un costo privato o invece, e soprattutto, un bene collettivo sul quale tutta la società investe. E su questo punto l’Italia è senz’altro tra i paesi meno virtuosi.

L’analisi dell’istituto Toniolo: giovani tiepidi verso il nuovo governo

I dati sulla condizione dei giovani in Italia continuano ad essere sconfortanti. Tra i peggiori in Europa sono i valori della dispersione scolastica, dell’occupazione under 30, del rischio di povertà all’uscita dalla famiglia di origine, del flusso netto di laureati verso l’estero. Al superamento degli anni peggiori della crisi economica non ha corrisposto l’avvio di un solido processo di crescita con al centro la promozione di un ruolo attivo e qualificato delle nuove generazioni.
Il Governo giallo-verde su questo fronte non si è distinto in modo particolare. Reddito di cittadinanza e Quota 100, in particolare, nonostante le risorse investite, sono apparse agire più in logica assistenziale che come strumenti di welfare attivo in grado di agevolare l’accesso al lavoro dei giovani. In mancanza di risultati concreti, la disillusione verso la politica non può che continuare ad essere elevata. Nei riguardi di chi si alterna al governo e sui singoli partiti l’atteggiamento rimane molto disincantato e pragmatico, con solo una minoranza di fortemente schierati.

Secondo i dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, il 41,9% dei residenti tra i 20 e i 34 anni concede un voto di sufficienza al concluso governo a trazione leghista, con solo il 13,3% che assegna un giudizio decisamente positivo (voto 8 e oltre su scala da 1 a 10).
Il Governo attuale presenta un forte continuità con quello precedente, avendo mantenuto lo stesso Presidente del Consiglio e il determinante sostegno pentastellato. A partire dal discorso alla Camera nel giorno della fiducia il premier Giuseppe Conte ha messo in varie occasioni in primo piano la necessità di riattivare la “speranza dei giovani” attraverso un concreto miglioramento delle loro opportunità. La discussione sulla legge di Bilancio non ha però evidenziato una vera svolta. Non emerge un chiaro progetto in grado di mettere le basi di un riposizionamento delle nuove generazioni nei processi di crescita del Paese. Gli intervistati riconoscono, in ogni caso, la necessità di misure a sostegno immediato della crescita economica (considerata l’urgenza maggiore dal 32,7%), seguita da concreti investimenti sull’occupazione giovanile (12,1%) e da misure simbolo come il taglio dei parlamentari (11,3%).

L’atteggiamento rimane quindi attualmente tiepido, solo leggermente più favorevole rispetto al primo governo Conte. A dare complessivamente un voto sufficiente è il 44,4%, ma con oltre la metà che esprime un giudizio tra il 5 e l’8. Questi dati ci dicono, insomma, che la maggioranza non è ostile all’attutale Governo, ma è in attesa di segnali più chiari prima di sbilanciarsi di più, in un senso o nell’altro. Alla domanda esplicita di confronto tra i due governi, il 30,8% si sente più in sintonia con il Conte bis rispetto al precedente, contro il 29,1% di opinione contraria. Il resto degli intervistati si sente lontano da entrambi. E’ il ritratto di un elettorato ancora tutto da convincere e da conquistare, senza preclusioni ma su cui pesa ancora un’ampia base di disillusione.

Su come conquistarlo, è vero che il tema dell’ambiente tocca una particolare sensibilità, ma è interessante vedere come si associ a una crescente attenzione al tema più generale della promozione di un modello di benessere equo e sostenibile, che non esclude la crescita economica ma che include dimensioni più ampie e promuova nuove opportunità. Di fronte a questo quadro coerente desiderato, le preoccupazioni sull’immigrazione e sull’impatto delle nuove tecnologie passano in secondo piano. Il contrasto alle diseguaglianze sociali e la parità di genere rivestono una propria importanza specifica ma è preferita la lettura positiva di ciò che promuove il benessere e le opportunità di tutti. In definitiva, l’immagine di una generazione che avrebbe voglia di trovarsi schierata in attacco rispetto ad un nuovo modello sociale e di sviluppo, non che da troppo tempo si trova schiacciata in difesa, sia rispetto a quello che non funziona nel Paese e sia a ciò che non decolla nelle loro vite.

Giovani, forza che fa crescere

L’Italia ha attraversato nel secondo dopoguerra diverse fasi di crescita. Fino all’inizio degli anni Settanta, il Belpaese ha sperimentato un periodo di sviluppo sostenuto da un rapporto virtuoso tra demografia, economia, spinta alla mobilità sociale. E’ poi entrata in una fase di crollo della natalità, di bassa crescita e alto debito pubblico, di inasprimento delle diseguaglianze, ma trovando sostegno su una solida presenza di popolazione nell’asse portante della vita attiva.

Quella in cui ora stiamo entrando è una nuova fase in cui il processo di invecchiamento andrà sempre più ad accentuarsi, ma nel contempo le classi centrali lavorative tenderanno a indebolirsi come mai in passato. Il report “Un buco nero nella forza lavoro” appena pubblicato dal Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo pone, in particolare, l’attenzione su tre ordini di dati che evidenziano la necessità di reinterpretare e reimpostare il nostro percorso di sviluppo nel resto di questo secolo.

Il primo è strettamente demografico. Il nucleo centrale della forza lavoro (ovvero l’asse portante dei processi di produzione di ricchezza e benessere) è la fascia dai 40 ai 44 anni. E’ qui che occupazione e produttività sono più elevate. Attualmente conta 4,4 milioni di persone, le quali verranno però sostituite nei prossimi dieci anni dagli attuali 30-34enni, che sono ben un milione in meno. Si tratta di una delle riduzioni più drastiche tra le economie avanzate. Il secondo ordine di dati riguarda i percorsi formativi e professionali di chi si sta spostando al centro della vita attiva del Paese. Gli attuali 30-34enni italiani presentano livelli tra i più bassi di laureati e più alti di NEET in Europa. Il loro tasso di occupazione è inoltre sensibilmente più basso rispetto a quello che avevano dieci anni fa gli attuali 40-44enni (67,9% contro 74,8%). Il rischio è quindi di indebolire il pilastro produttivo del paese per una concorrenza al ribasso non solo della presenza demografica ma anche della partecipazione effettiva al mercato del lavoro.

Infine, la terza preoccupazione deriva dalla percezione che tale generazione stessa ha della propria condizione presente e proiettata nel futuro. Oltre un trentenne su tre teme di trovarsi senza lavoro quando avrà 45 anni. Spiccata è però anche la differenza per titolo di studio, il valore risulta tre volte più alto per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo rispetto ai laureati.

Crescita competitiva dell’Italia (combinando tradizione e innovazione nei suoi settori più strategici) e inclusione solida delle nuove generazioni nelle aziende e nelle organizzazioni, vanno considerate due facce della stessa medaglia. Senza un piano che consenta agli attuali giovani-adulti di diventare, in modo pieno, parte attiva e qualificata dei processi di crescita del paese, non solo mancherà l’energia propulsiva nei prossimi dieci anni ma andranno ad accentuarsi squilibri tali da compromettere in modo insanabile il percorso dell’Italia per tutto il resto di questo secolo.

Il percorso virtuoso di sviluppo che il Sud non riesce a imboccare

Il premier Conte è intervenuto varie volte dopo l’avvio del nuovo governo per ribadire che il rilancio delle regioni del Mezzogiorno è uno degli impegni principali del suo programma. Un impegno non nuovo nella storia della nostra Repubblica. La novità vera sarebbe vedere la frattura finalmente ridursi. Ma non basta l’azione di Governo. L’iniziativa recente più interessante a questo proposito è il Manifesto per un nuovo Sud in una nuova Europa, presentato da Claudio De Vincenti, con il sostegno di Confindustria e della Conferenza dei Rettori.

I dati continuano, del resto, a ritrarre l’Italia come uno dei paesi dell’Unione europea con maggiori divari territoriali rispetto ai livelli economici e sociali e alle dinamiche demografiche, ma anche uno di quelli che in questo secolo meno sono riusciti a ridurre tali differenze. La forza della crescita espressa nel primo tratto di questo secolo stenta a rivelarsi in grado di dar la spinta che servirebbe per un processo solido e continuo di convergenza.

I dati più recenti non sono incoraggianti, come mostrano anche le anticipazioni del Rapporto Svimez 2019. Se l’Europa è in difficoltà a crescere, l’Italia è quasi in stagnazione e il Sud torna al segno negativo senza aver ancora recuperato i livelli pre-crisi. Insomma il quadro ben noto di ciò che rende debole l’Italia nel confronto con gli altri paesi sviluppati, rende debole al quadrato il Sud.

I punti critici continuano ad essere il lavoro e le diseguaglianze sociali, con fragilità che partono già dalla formazione. Pesa, in modo particolare, la cronica debolezza della dotazione infrastrutturale e della qualità dei servizi. Il Rapporto Svimez del 2018 evidenziava che in tale area del Paese: “sono presenti livelli qualitativamente inferiori, dai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Sul tasso di apprendimento al Sud pesa anche il contesto economico-sociale e territoriale: la disoccupazione, la povertà diffusa, l’esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e, soprattutto, la mancanza di servizi pubblici efficienti influenzano i percorsi scolastici e l’apprendimento”.

Anche il Rapporto BES 2018 metteva in luce come nelle dinamiche più recenti lo svantaggio del Mezzogiorno si fosse acuito sull’indice composito del dominio “Istruzione e formazione”, con una variazione rispetto all’anno precedente di +0,7 punti al Nord e -2,8 punti nel Mezzogiorno. Particolarmente accentuata è poi la variabilità territoriale dell’incidenza dei NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le province di Caltanissetta, Crotone e Palermo presentano livelli che superano il 40%, oltre il triplo rispetto a Treviso, Modena e Lecco. In Sicilia il dato del 2018 è addirittura peggiorato rispetto ai due anni precedenti.

Nella fascia 25-34 il tasso di occupazione femminile è fermo al 35% nel Mezzogiorno, circa la metà rispetto alle coetanee del Nord.

Ma sono soprattutto i dati demografici a rivelare che con il XXI secolo la questione meridionale è entrata in una fase nuova. Lungo tutto il secolo precedente la popolazione giovanile, nonostante i flussi di uscita, è sempre rimasta consistente. Questo ha consentito al Mezzogiorno di mantenere, nonostante squilibri e inefficienze, una propria vitalità culturale, sociale ed economica. Ma ora questa esuberanza è in esaurimento. Nel primo decennio di questo secolo la fecondità del Sud è scivolata sotto quella del Nord, con crescente impatto sulla struttura per età della popolazione. Allo stesso modo la prolungata permanenza nella casa dei genitori, legata in passato maggiormente a fattori culturali e caratterizzante soprattutto le regioni del Nord, con l’entrata in questo secolo ha visto aumentare i motivi economici ed è diventata prevalente nel Mezzogiorno. La scelta oggi di molti giovani meridionali è tra rimanere a lungo a vivere con i genitori o andarsene molto lontano dove trovare migliori opportunità.

Questi mutamenti inediti suggeriscono che il problema del Sud non è il suo immobilismo, ma semmai il fatto di non aver (ancora) trovato un proprio percorso virtuoso di sviluppo. Muta per difendersi dalle grandi forze della modernizzazione (diminuendo ad esempio le nascite) anziché coglierne le opportunità (attraverso la promozione del ruolo femminile e una propria risposta alle esigenze di conciliazione tra lavoro e famiglia). Lo stesso vale per le nuove generazioni, che si trovano a difendersi da ciò che manca delle sicurezze del Novecento e di quanto c’è al Nord, anziché diventare la punta avanzata di come trasformare in valore in questo secolo le specificità del Sud. Se quello che manca è la crescita che c’è altrove, rimarrà più facile per i giovani continuare ad andare dove tale crescita c’è già. E’ invece poter essere parte attiva di un modello sociale e di sviluppo che fa interagire positivamente le trasformazioni in atto con le caratteristiche originali del proprio territorio che li può convincere a rimanere e anche a tornare.