Sanare la frattura tra generazioni con ampio accesso alla formazione

L’Italia è entrata in questo secolo attraversata da profonde e ben riconoscibili fratture che non si sono ridotte nel corso di questi due primi decenni, con la conseguenza di accentuare una fragilità strutturale che rischia di compromettere tutto il percorso successivo.

Come ampiamente documentato in molte analisi, gli indicatori economici e sociali del Sud rimangono lontani da quelli del Nord e dalla media europea, senza l’evidenza di un chiaro e solido processo di convergenza. Donne e giovani continuano a presentare livelli di partecipazione al mercato del lavoro molto più bassi rispetto agli uomini adulti. Chi nasce in famiglie con status sociale basso ha molte meno possibilità di raggiungere alti livelli di istruzione e di accedere a impieghi ben remunerati. Gli immigrati residenti rimangono vincolati a un rischio di povertà notevolmente più alto, anche a parità di altre caratteristiche, rispetto alla popolazione autoctona.

Il dibattito pubblico su questi divari, visti da sinistra o in ottica liberale, oscilla tra i due estremi delle diseguaglianze da ridurre e del merito da promuovere. Entrambe queste due posizioni, se declinate in senso stretto, risultano però parziali. La riduzione, in sé, delle diseguaglianze non necessariamente migliora le condizioni di sviluppo del Paese. D’altro canto un’accentuazione della spinta meritocratica senza consentire pari opportunità in partenza, non aiuta a ridurre le diseguaglianze ma nemmeno migliora l’efficienza complessiva del sistema. Ad esempio, i bambini più aiutati a casa ottengono voti più elevati in classe anche nel caso di minori capacità rispetto a chi non ha supporto.

Il maggior contributo alla riduzione delle fratture piò arrivare, allora, dall’investimento collettivo nei contesti in cui la riduzione delle diseguaglianze fornisce energia ai processi di sviluppo del Paese. Questo consente, metaforicamente, di ottenere i maggiori frutti dal terreno potenzialmente più fertile ma lasciato colpevolmente incolto (molto più che negli altri paesi con cui competiamo), per poi progressivamente intervenire sui terreni con rendimenti decrescenti. Questo permette di ottenere in partenza i migliori risultati in termini sia di riduzione delle diseguaglianze sia di crescita, con una spinta che poi aiuta a rafforzare il welfare anche sulle voci meno attive. L’indicatore principale a cui dovremmo allora guardare, per politiche che consentano di superare le grandi fratture italiane e rinsaldare il processo di crescita, è quello che misura quanto chi parte da posizioni più svantaggiate riesce a migliorare la propria condizione.

Una delle più gravi fratture di cui soffre il nostro paese – una di quelle inasprite di più nel passato recente, che attualmente risultano tra le più accentuate anche nel confronto con gli altri paesi, con più gravi implicazioni sul futuro – è quella generazionale. Chi è giovane oggi in Italia si trova con un livello del debito pubblico lievitato enormemente; in una economia con i più bassi tassi di crescita dal dopoguerra; con più ridotto peso demografico; con mobilità sociale inceppata (con conseguenti minori possibilità di migliorare propria situazione). Eppure da dove può ritrovare il Paese possibilità di crescere e ridurre il debito pubblico se non dal pieno contributo attivo delle nuove generazioni?

E’ bene aver chiaro i dati della disastrosa situazione attuale. Dati che aiutano anche a capire che la questione è molto meno da ricondurre a quanto le generazioni più mature hanno (in termini di occupazione, reddito e trattamento pensionistico) e molto più a quanto alle nuove generazioni manca. Con aiuto che arriva, di fatto, solo dai propri genitori, ma risulta inefficiente nell’allocazione delle risorse per lo sviluppo, andando anche ad inasprire le diseguaglianze di partenza. Un processo di rimessa in discussione di posizioni e diritti acquisiti funziona solo se alla base c’è un patto di investimento collettivo sulla crescita comune, ovvero un patto sociale e generazionale che porta le risorse pubbliche a convergere verso gli strumenti che trasformano i giovani in parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo competitivo del Paese.

I dati allora ci dicono che la spesa per pensioni e sanità pubblica sul Pil non è maggiore rispetto alla media europea, ma quella su formazione, politiche attive, ricerca e sviluppo è nel complesso da troppo tempo sensibilmente inferiore. I tassi dell’occupazione degli uomini adulti italiani non sono più alti rispetto alle altre economie avanzate, ma quelli in età giovanile sono impietosamente tra i più bassi (oltre 20 punti sotto la media Ue in età 25-29). Il rischio di povertà assoluta delle famiglie con membro di riferimento anziano è consolante che sia inferiore al 5%, ma è inaccettabile che sia oltre il doppio quello con persona di riferimento under 35. Così, di fatto, si difende il benessere passato acquisito senza investire sulla produzione di nuovo benessere. Ed è su questo nodo che devono intervenire le scelte di una politica che non guarda solo al consenso immediato.

La frattura generazionale ha poi all’interno, come abbiamo detto, anche una frattura sociale. La combinazione tra tali due fratture costituisce la principale debolezza strutturale dell’impianto che dovrebbe sostenere la crescita solida del paese, andando inoltre ad alimentare tensioni sociali, populismi e instabilità politica.

Non si può quindi che ripartire da un accesso solido e ampio alla formazione del capitale umano, agganciato a un miglioramento delle aspettative di sua valorizzazione piena, in un paese che lo considera come il carburante più prezioso per un rilancio delle sue prospettive di sviluppo presente e futuro. Questo significa partire dal prendere atto che se i livelli di formazione terziaria sono così bassi in Italia è perché mancano all’appello soprattutto i figli dei genitori delle classi sociali più basse. E’ cruciale allora mettere tutti nelle condizioni di effettiva possibilità di accesso alle migliori posizioni, a partire da chi è rimasto più indietro, in funzione delle proprie doti (e non della dotazione iniziale) e delle condizioni del mercato (ma contribuendo ad espanderlo).

La contrapposizione tra equità e merito va superata mettendo al centro la dimensione della costruzione di benessere collettivo, mirando prima di tutto a ridurre gli inaccettabili divari di opportunità nella partecipazione ai processi di crescita del Paese. E’ dentro a tali divari che si trova oggi il terreno più fertile da coltivare.

Perché è giusto il diritto di voto ai sedicenni

Qualche giorno prima che venisse rilanciata dal mondo politico la proposta di abbassare di due anni l’età minima per il voto, avevamo sottolineato su queste pagine l’importanza di dar più peso alle ragioni del futuro. Ricordando, in particolare, che «mentre rimane irrisolta la questione di come tener conto dei diritti delle generazioni future (quelle non ancora nate), e mentre continuiamo ad escludere dai referendum e dalle consultazioni elettorali gli under 18 (i coetanei di Greta Thunberg), ci troviamo ad assistere anche alla riduzione stessa dei giovani con diritto di voto». Non possiamo quindi che registrare con favore l’ampia convergenza delle forze politiche verso l’inclusione di sedicenni e diciasettenni nell’elettorato attivo.

Va precisato che tale operazione, in sé, ha costo zero per le casse dello Stato. Chi non ha ancora diciotto anni non potrebbe in ogni caso essere eletto. Inoltre si potrebbe prevedere tale estensione solo per le amministrative. Quest’ultima scelta da un lato risponderebbe alle obiezioni di chi non ritiene che i sedicenni siano abbastanza maturi per occuparsi della complessa politica nazionale, d’altro lato è coerente con il principio no taxation without representation: dato infatti che i sedicenni possono avere un contratto di lavoro e pagare le tasse, è del tutto giusto riconoscere che possano dire la loro su chi utilizzerà le risorse pubbliche per migliorare il quartiere e la città in cui vivono.

Rafforzare il ruolo delle nuove generazioni nelle scelte collettive risponde inoltre, in questo momento storico, a due esigenze. La prima è quella di compensare gli effetti della loro riduzione di consistenza demografica sul peso elettorale, a fronte dell’aumento della popolazione anziana. Un ottantenne può certo nel proprio voto responsabilmente premiare chi investe più sulla produzione di benessere futuro che a protezione delle rendite del passato, ma è anche giusto ritenere che chi avrà più da perdere e da guadagnare sulle conseguenze di medio e lungo periodo delle scelte collettive, ovvero le generazioni più giovani, possa prendersi la maggiore responsabilità nel determinarle. La seconda esigenza risponde al fatto che l’impatto sul futuro delle scelte presenti è maggiore oggi che in passato. Basti pensare alle decisioni che riguardano l’enorme debito pubblico cumulato, l’impatto ambientale, l’innovazione tecnologica, la combinazione tra contratti di lavoro, continuità di reddito e condizioni per una pensione dignitosa.

La riduzione quantitativa delle nuove generazioni, maggiore da noi per la persistente denatalità, si combina poi con la presenza di soglie anagrafiche tra le più alte nelle democrazie occidentali sull’elettorato attivo e passivo. Bisogna avere almeno 25 anni per essere eletti alla Camera e la stessa età per votare al Senato, nel quale chi non ha compiuto 40 anni non può entrare. Dato che le leggi devono passare anche attraverso l’approvazione del Senato, gli under 40 sono di fatto esclusi dalle decisioni finali sulle scelte del Paese.

Non estendere il diritto di voto ai sedicenni e mantenere tali soglie non significa lasciare le cose come stanno, ma accettare il fatto che progressivamente si ridimensioni il peso elettorale dei giovani. In Italia ci sono circa 1 milione e 100 mila sedicenni e diciasettenni. Dal 2000 a oggi gli over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni e, prima del 2050, cresceranno di oltre 6 milioni.

 

Culle vuote, aule ancor di più

La demografia è strettamente interdipendente, sia in termini di cause che di conseguenze, con il benessere sociale ed economico di un territorio. Se gli indicatori che riguardano la popolazione prendono una inclinazione negativa è tutto il paese che ne risente e viene trascinato verso il basso. In particolare, lo stato di salute e di benessere di una società e di una economia dipendono dalla consistenza quantitativa delle nuove generazioni e dalle possibilità di un loro qualificato contributo ai processi di sviluppo e innovazione.

Per lunga parte della storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, le classi giovanili hanno rappresentato la componente più abbondante della popolazione. Ancora ad inizio del secolo scorso, oltre un cittadino italiano su tre aveva meno di 15 anni e oltre la metà aveva meno di 25 anni. All’inizio del secolo attuale tali valori risultavano dimezzati. Oggi la prima fascia di età conta poco più del 13% e la seconda meno del 24%.

Più che dalla longevità in sé, gli squilibri demografici sono prodotti dalla persistente bassa natalità. In particolare quando la fecondità scende sensibilmente e sistematicamente sotto tale livello, come nel caso italiano, ogni nuova generazione viene ridimensionata rispetto alla precedente. Di fatto si ottiene un processo di “degiovanimento”, vale a dire una progressiva riduzione della popolazione più giovane. Il confronto con la Francia è molto istruttivo, perché la longevità di tale paese è molto simile a quella italiana e anche il numero di anziani è comparabile, ma il loro numero di giovani è marcatamente superiore. Questa differenza si deve soprattutto al diverso andamento della fecondità, rimasta vicina alla media di due figli in Francia, mentre è crollata molto sotto a un figlio e mezzo (1,32 è il dato del 2018) in Italia. Se, come abbiamo detto, gli under 25 italiani sono oggi meno del 24%, i coetanei d’oltralpe sono oltre il 30%.

Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, tale valore è previsto ridursi ulteriormente nel nostro paese, almeno fino all’orizzonte del 2035 (scendendo sotto il 20%). Va però considerato che lo scenario della natalità è stato negli ultimi anni peggiore del previsto.

Nel 2018 le nascite in Italia sono state 449 mila. Si tratta del punto più basso di un processo di continua riduzione che negli anni della recessione si è inasprito. Rispetto al 2008 i bambini iscritti per nascita all’anagrafe sono circa 130 mila in meno. I nati da entrambi i genitori italiani sono stati meno di 360 mila nel 2017, con una riduzione di oltre 120 mila nei confronti del dato pre-crisi. Ma va registrata anche una diminuzione di quasi 10 mila di nati con almeno un genitore straniero, scesi nel complesso sotto i 100 mila.

Se il contributo dell’immigrazione è in riduzione, l’incidenza rimane elevata, poco superiore al 20% del totale dei nati (ma con valori superiori al 30% in alcune regioni del Nord). Le comunità straniere che contribuiscono maggiormente, rappresentando assieme oltre la metà dei nati da genitori non italiani, sono nell’ordine quella dei rumeni, dei marocchini, degli albanesi e dei cinesi.

Un altro dato di rilievo è l’accentuazione della riduzione delle nascite, anche al netto della componente migratoria, nelle aree del paese in maggiori difficoltà economica, con più basse opportunità di lavoro per le nuove generazioni, con meno efficienti servizi di welfare.

Il tasso di fecondità più basso è quello della Sardegna (1,06) mentre quello più alto corrisponde alla Provincia di Bolzano (1,74) seguita dalla Provincia di Trento (1,49). Eppure il numero medio desiderato di figli in Italia continua ad essere vicino a due e ad essere ancora più alto nel Sud. Mancano però le condizioni favorevoli per un riallineamento verso l’alto delle scelte di vita. E’ interessante notare che alcune regioni, soprattutto del Nord, avevano mostrato un rilevante aumento prima della crisi economica. In particolare Lombardia ed Emilia Romagna erano salite da valori attorno a 1 a livelli vicini a 1,5 dal 1995 al 2008. Questa crescita non si è verificata nel complesso del Mezzogiorno. Come conseguenza ora molte regioni del Sud si trovano con un numero medio di figli per donna sotto la media nazionale.

Se l’impatto negativo della crisi economica sulle nascite è stato maggiore del previsto (lo scenario centrale delle proiezioni Istat con base 2011 indicava un numero di nascite che si manteneva sopra il mezzo milione), si aggiungono oggi due preoccupazioni. In primo luogo per il rischio che l’impatto congiunturale della crisi porti a conseguenze irreversibili sulle scelte delle famiglie. Se le coppie che nel periodo di crisi hanno congelato le proprie scelte di allargamento della famiglia non recuperano in questi anni, rischiano di veder definitamente trasformarsi il rinvio in rinuncia. Il secondo motivo è il fatto strutturale che siamo entrati in una fase di riduzione delle potenziali madri (come conseguenza della persistente denatalità passata), questo significa che da un basso numero medio di figli per donna si ottengono ancor meno nascite che in passato perché diventano di meno le donne in età riproduttiva (le potenziali madri). Questo dovrebbe ancor più incentivare a mettere le attuali coppie che entrano in età adulta (di meno che in passato) nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi di vita. Che sia possibile invertire la tendenza lo mostrano le politiche familiari realizzate dalla Germania e da alcuni paesi dell’Est Europa, che hanno puntato ad incentivare con misure ben mirate sostenute da adeguati finanziamenti (M. Caltabiano e C.L. Comolli, “Declino delle nascite: un problema non solo italiano”, Neodemos, 2019)

Come conseguenza di una persistente denatalità stiamo quindi vivendo la fase più accentuata della nostra storia di riduzione della popolazione giovanile, con una intensità maggiore rispetto al resto d’Europa. Le conseguenze più evidenti degli squilibri demografici prodotti sono quelle riscontrabili concretamente nelle aule scolastiche.

Accentua, inoltre, la spirale del degiovanimento quantitativo e qualitativo, anche la più alta dispersione scolastica dell’Italia rispetto alla media europea e il saldo negativo di giovani qualificati nei confronti degli altri paesi avanzati. Entrambi questi due fenomeni sono più accentuati nelle regioni meridionali, che si trovano quindi con una riduzione degli studenti delle scuole secondarie superiori inasprito dall’abbandono prematuro e con una crescente propensione dei giovani con alte aspirazioni a iscriversi negli Atenei del nord o direttamente all’estero.

Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi (Early leavers from education and training-ELET) è stata nel 2017 pari al 14% a livello nazionale (contro 10,6% media Ue-28). Tra i maschi del Mezzogiorno si sale a ben il 21,5%.

Sia i dati Istat che quelli del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, evidenziano come tra i motivi della decisione di non proseguire gli studi si sia ridotto nel tempo quello della volontà di confrontarsi subito con l’esperienza di lavoro, mentre sia in crescita la mancanza di interesse nello studio, soprattutto per chi ha famiglie meno supportive. Nella valutazione che i ragazzi italiani danno ai propri insegnanti, in termini comparativi con gli altri grandi paesi europei, emerge un apprezzamento per la preparazione e le conoscenze dei propri professori, ma anche una più ridotta capacità di far appassionare e fornire stimoli.

Come inoltre evidenzia il Rapporto Svimez 2018: “Nel Mezzogiorno sono presenti livelli qualitativamente inferiori, dai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Sul tasso di apprendimento al Sud pesa anche il contesto economico-sociale e territoriale: la disoccupazione, la povertà diffusa, l’esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e, soprattutto, la mancanza di servizi pubblici efficienti influenzano i percorsi scolastici e l’apprendimento”. Oltre al fattore demografico, al “depauperamento del capitale umano meridionale” contribuiscono, quindi, sia le emigrazioni universitarie che il declino del tasso di passaggio all’Università (Rapporto Svimez 2017).

L’aumento della fecondità nel Nord Italia tra il 1995 e l’inizio della recessione, in combinazione con una maggior capacità attrattiva nei confronti dell’immigrazione, consentirà nei prossimi 10 anni alla fascia d’età che corrisponde alla scuola secondaria di secondo grado di non ridursi (anzi di aumentare un po’). Per le fasce più basse e per il Sud le previsioni indicano, invece, una forte contrazione, in alcuni casi con perdite dell’ordine del 20%. Secondo le stime della Fondazione Agnelli “La riduzione della popolazione scolastica comporterà dunque una contrazione degli organici dei docenti, a partire dai gradi inferiori, per un totale di oltre 55.000 posti/cattedre persi” (S. Molina, Scuola. Orizzonte 2028: anticipare il cambiamento per governarlo, Neodemos, 2018).

Il rischio è quello di sprofondare in una spirale negativa di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo della società. La carenza di prospettive porta i giovani ad andare altrove già nella fase di formazione o a rinunciare ad investire sulla propria istruzione.

Varie proposte possono essere suggerite nella prospettiva di spezzare tale spirale. L’approccio di fondo è quello di non rispondere alla riduzione quantitativa delle nuove generazioni con un riadattamento al ribasso dell’offerta formativa, ma, al contrario, riattivare un percorso virtuoso di stimolo tra domanda e offerta a partire da un potenziamento qualitativo (che ha ricadute sulla formazione dei giovani, sui progetti di vita, sulla riduzione delle diseguaglianze, sulle famiglie, sul territorio in cui vivono).

Una prima prospettiva è quella di una scuola a misura delle persone, come richiamato da Pierpaolo Triani in queste pagine (P. Triani, “Scuola, oltre il mito delle grandi riforme”, 3/2018). Ad esempio restituendo una “reale regia pedagogica alla vita scolastica, partendo dall’assegnare realmente ad ogni istituto il proprio dirigente e ricominciando a mettere a tema la questione dell’ampiezza delle scuole”.

In coerenza con questa è anche la proposta della Fondazione Agnelli di rispondere alla riduzione degli studenti con un rafforzamento del contrasto all’abbandono scolastici e con aumento del numero medio di insegnanti per classe, favorendo una coprogettazione interdisciplinare.

Infine, è indispensabile dare solide basi ai percorsi delle nuove generazioni, qualsiasi sia la loro condizione e provenienza, attraverso il diritto a un’educazione di qualità fin dalla prima infanzia che può essere garantito da una effettiva implementazione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni (A. Fortunati, A. Pucci, “0-6: lavori in corso. Prove di integrazione”, in Bambini, ottobre 2018). Un’operazione cruciale per potenziare copertura, qualità e continuità della formazione a partire dalla prima infanzia, con ricadute positive anche sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, di conseguenza anche sulla natalità.

L’articolo è un estratto dell’articolo “Allarme demografico nelle aule scolastiche” Vita e Pensiero, 4/2019, p.68-72

Posto al nido, un diritto di tutti i bambini

Misure strutturali contro l’emergenza demografica

Di emergenza demografica in Italia si parla ormai da diversi anni. Dal 2010, l’Istat registra un’accentuazione del calo delle nascite nel nostro paese, con un tasso di fecondità sceso da 1,46 nel 2010 a 1,32 nel 2017. Si calcola che nel 2016 il 45 per cento delle donne di età compresa fra i 18 e i 49 anni non avesse ancora avuto il primo figlio, percentuale che si aggira intorno al 22 per cento fra le attuali 40-49enni.

In particolare, le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andare oltre.

Lo squilibrio demografico (sempre più anziani e sempre meno giovani) che ne deriva equivale a un lento terremoto con notevoli costi economici e sociali, destinati ad aggravarsi nel tempo.

Per il loro legame con l’autonomia dei giovani, l’occupazione femminile e lo sviluppo umano a partire dall’infanzia, le politiche familiari vanno considerate come parte delle politiche di sviluppo di un territorio, non come misure marginali. Serve quindi un’azione sistematica, con politiche solide, strutturate, coerenti e mirate – non qualche toppa qua e là con risorse molto limitate – se non vogliamo che il quadro peggiori ulteriormente condannandoci a un declino irreversibile.

Sia in Europa che all’interno del nostro paese, la geografia dei servizi per l’infanzia (nidi in primo luogo) risulta sempre più sovrapposta, in modo combinato, a quella della fecondità e dell’occupazione femminile. Le carenze su tali servizi portano le donne con figli a rinunciare al lavoro e quelle che lavorano a rinunciare ad avere figli. Nella fascia 25-49 anni il tasso di occupazione femminile è superiore all’80 per cento per le single e scende di 25 punti percentuali (su livelli tra i più bassi in Europa) per le madri.

I confronti internazionali mostrano che nel 2017, in Italia, nella fascia d’età 0-2 anni solo un bambino su quattro ha avuto accesso ai servizi per l’infanzia, mentre in Europa il valore è di uno su tre (in alcuni paesi, tra cui Francia e paesi nordici, si va oltre il 50 per cento).

Problema di accessibilità oltreché di costi

I dati Istat più recenti (Statistiche report, 21 marzo 2019) sull’uso dei servizi per l’infanzia non indicano una convergenza verso la media europea. Né si intravede una riduzione dell’eterogeneità sul territorio italiano: i bambini di età 0-2 anni che frequentano un nido o i servizi integrativi sono meno dell’8 per cento in Campania, mentre sono oltre il 40 per cento in Valle d’Aosta. In più, dal 2012 si registra una diminuzione sia degli iscritti ai nidi comunali e convenzionati, sia delle risorse pubbliche disponibili. Sono invece cresciuti i costi a carico dei genitori sul totale della spesa corrente dei comuni. In modo corrispondente, è cresciuta la sensibilità delle famiglie sul fronte della qualità e dei costi.

Dobbiamo tenere presente, poi, che le difficoltà di accesso ai servizi di cura vanno al di là dell’aspetto economico. Mentre per i redditi più bassi il nido pubblico in Italia è già pressoché gratuito, esiste una fascia di popolazione che, indipendentemente dal reddito, non ha disponibilità di servizi pubblici o privati per l’infanzia sul territorio. In altri casi, invece, c’è il problema della scarsa flessibilità degli orari dei nidi che non combaciano con quelli “atipici” del lavoro dei genitori. Migliorare l’effettiva accessibilità significa intervenire sinergicamente su tutti questi aspetti (copertura, costi, orari e qualità, con particolare attenzione alle aree più svantaggiate).

Gestire processi, non solo erogare servizi

Oltre al potenziamento dell’offerta di posti, per rilanciare i nidi serve quindi la capacità di mettersi in sintonia con la domanda eterogenea e in mutamento espressa dalle famiglie, rendendoli realmente accessibili a tutti. Va rafforzato il rapporto di fiducia garantendo livelli di qualità di base su tutto il territorio italiano, sull’offerta sia pubblica che privata.

È però necessario anche un cambiamento di prospettiva, perché i nidi siano considerati non un servizio opzionale, ma come “diritto di ogni bambino” di poter accedere a una proposta educativa di qualità fin dall’infanzia, in qualsiasi famiglia nasca.

Per risollevare la persistentemente bassa fecondità italiana non basta una singola misura. Va messo in atto un sistema di strumenti che si adattano alle diverse e mutevoli esigenze delle famiglie e della qualità dello sviluppo umano a partire dall’infanzia. Vanno disegnate e realizzate misure coerenti con le specificità, anche culturali, del territorio. Le misure vanno poi monitorate e, nel realizzarle, va prevista la valutazione del loro impatto per migliorarne continuamente l’efficacia: devono essere considerate non in modo statico, ma come processi che incidono su una realtà in continuo mutamento.

La strada dello “Ius culturae”

L’Italia è uno dei paesi in cui il tema è più sentito, perché si trova al centro del Mediterraneo e perché la presenza straniera è cresciuta in modo particolarmente rapido nel passaggio al nuovo secolo. È quindi uno dei paesi chiave non solo per la gestione dei flussi verso l’Europa, ma di tutto ciò che mette in relazione interdipendente le dinamiche del vecchio continente e lo sviluppo dell’Africa.

La sfida che l’immigrazione pone non ha soluzioni semplici, ma ciò che è certo è che va affrontata con un coordinamento internazionale e con strumenti e misure che vadano oltre la logica dell’emergenza. Questa consapevolezza, dopo molte contraddizioni e incertezze del recente passato, sembra oggi trovare maggior terreno favorevole sia nei nuovi vertici europei che nel nuovo governo italiano.

Nell’opinione pubblica, non solo italiana, è molto sentita la preoccupazione verso la parte irregolare del fenomeno, che risulta nella percezione comune anche enfatizzata rispetto ai numeri reali. Esiste invece un ampio riconoscimento che gli stranieri bene integrati forniscano un contributo alla crescita del paese in cui vivono. Questo vale ancor più per i loro figli: per il potenziale impatto positivo sul lato sia quantitativo, compensando la bassa natalità (particolarmente accentuata in molti stati europei), sia qualitativo, convergendo con i coetanei autoctoni nel fornire vivaci energie e intelligenze per lo sviluppo futuro delle economie mature avanzate.

L’Unione europea ha tra gli obiettivi quello di favorire livelli uniformi di diritti e doveri tra immigrati regolari e cittadini comunitari. L’Italia, in particolare, è uno dei paesi occidentali con criteri più rigidi per l’ottenimento della cittadinanza. La legge sul cosiddetto “Ius soli” è naufragata nella precedente legislatura, prima del voto del 4 marzo 2018, non solo perché osteggiata dai partiti di destra, ma anche per i timori nel centrosinistra di perdere consenso con l’approssimarsi delle elezioni.

Se l’idea di concedere la cittadinanza a chi è nato in Italia ed è già residente da anni, all’interno di un processo di integrazione della famiglia, è considerata largamente condivisa, più controversa è invece l’applicazione dell’automatismo a chiunque e in qualsiasi modo arrivi sulla penisola. Più consenso potrebbe allora trovare lo “Ius culturae”, che condiziona la richiesta di cittadinanza all’aver superato con successo almeno un ciclo scolastico. Ha alla base un principio che trova forte consenso nelle nuove generazioni, ovvero che ciò che si riconosce a un giovane deve dipendere dal suo percorso e dal suo impegno, non tanto dalle caratteristiche dei genitori e dalla loro provenienza.

L’atteggiamento dei giovani è stato sondato all’interno di una indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e condotta da Ipsos ad aprile 2019 su un campione rappresentativo di duemila giovani tra i 20 e i 34 anni. I risultati oggi disponibili ci dicono che oltre due intervistati su tre sarebbero “molto” o “abbastanza” d’accordo con l’introduzione dello “Ius culturae”. Poco meno di uno su quattro è poco concorde, mentre chi ha un atteggiamento di completa chiusura è meno del 10 percento.

Ci sono quindi le condizioni favorevoli, sia politiche che di opinione pubblica, per ripartire da questa proposta, che potrebbe essere ancor meglio accolta e dar frutti positivi se attivata in concomitanza con un rilancio dell’insegnamento nelle scuole dell’educazione alla cittadinanza. Scoprire e coltivare assieme il senso e il valore di una comune appartenenza, tra coetanei di diversa provenienza, aiuta a formare italiani consapevoli e a farli sentire parte attiva del miglioramento del paese in cui vivono.27