La vera crescita passa dai giovani

Chi è nato nel 2000 entra quest’anno nella sua terza decade di vita. Ha ancora davanti tutte le tappe più importanti del suo percorso di transizione alla vita adulta. Dalla possibilità di impostare bene tali tappe, nei tempi e nei modi più adatti, dipende molto di quanto saprà “poter essere e fare” nel resto della sua vita. Ma dal successo della realizzazione delle scelte (formative, professionali, di vita) delle nuove generazioni dipende anche gran parte della qualità del futuro di una comunità, ovvero della solidità dei processi di produzione di benessere in senso ampio.

Il mondo migliora quando i giovani sono messi nella condizione di essere ben preparati per le sfide del proprio tempo, di poter riconoscere e raffinare i propri specifici talenti, di vederli valorizzati e moltiplicati nella società e nel mondo del lavoro attraverso il proprio impegno. Il cambiamento diventa miglioramento quando le nuove generazioni non pretendono semplicemente di occupare il posto delle precedenti, ma generano nuovo valore attraverso la loro capacità di essere e fare. Una società che disinveste sulla presenza quantitativa e qualitativa dei giovani si trova, invece, fatalmente a veder vincolate le proprie possibilità di crescita e ad allargare squilibri demografici e sociali (come mette in guardia il recente report “Un buco nero nella forza lavoro” pubblicato dal Laboratorio futuro dell’istituto Toniolo).

E’ dal basso che una società si rinnova e mette solide basi per il proprio futuro. Ma proprio tali basi rischiano in questo secolo di trovarsi drammaticamente erose. In Europa, ancor più in Italia, la spinta positiva dal basso è indebolita dalla riduzione quantitativa delle nuove generazioni e dall’aumento delle diseguaglianze sociali. Questo indebolimento – ben leggibile sui principali indicatori economici, sociali e demografici – è la conseguenza dell’aumento di incertezza e fragilità nei percorsi di vita, a partire dalle scelte formative e professionali. Pesano soprattutto i limiti della transizione scuola-lavoro. L’Italia presenta, in particolare, il record negativo di cittadini che prima dei 30 anni si trovano nella condizione di NEET (fuori dal percorso formativo ma senza un lavoro) e non hanno ancora avviato un progetto familiare. Va aggiunto che il rischio di povertà assoluta delle coppie under 35 con figli è oltre il doppio rispetto alle famiglie composte da persone di 65 anni e oltre.

In tutto il mondo le diseguaglianze sono crescenti e alto è il rischio di polarizzazione tra chi è in grado di cogliere le nuove opportunità delle grandi trasformazioni in atto e chi invece rischia di sovrapporre vecchi e nuovi rischi. In Italia, ancor più che altrove, chi proviene da una famiglia con minori risorse, più difficilmente accede all’università o riesce comunque a completare gli studi. Più alto è il rischio di trovarsi intrappolato, a parità di titolo di studio, in percorsi di basso profilo professionale. Questo sistema non è solo iniquo e poco dinamico, ma anche poco efficiente perché non consente un’allocazione ottimale delle risorse (dei talenti, nell’accezione più ampia). Comprime inoltre la mobilità sociale e favorisce la trasmissione delle disuguaglianze dai genitori ai figli.

Investire sulle nuove generazioni significa, invece, fornire strumenti efficaci in grado potenziare la capacità di comprendere e agire nel mondo proprio a partire da chi nasce nelle famiglie con minori risorse socio-culturali e nei contesti con minori opportunità. Mettere tutti nelle condizioni di essere parte attiva dei processi di crescita è la condizione principale per ridurre gli squilibri generazionali e sociali.

Se vogliamo che i nati in questo secolo non si rassegnino ad essere vittime del lavoro che manca, ma ambiscano ad essere protagonisti del mondo del lavoro che cambia, è necessario potenziare il ruolo della formazione e quello dei sistemi esperti di orientamento e intermediazione, in modo da favorire, al punto più alto possibile, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tutto questo come parte di un più generale incontro da favorire nel decennio appena iniziato, quello tra il meglio che gli attuali ventenni possono dare e il meglio che il Paese con essi può diventare.

Il paradosso dell’immigrazione tra crescita e diseguaglianza

L’immigrazione è un tema complesso, delicato e non scontato. Continua ad essere trattato come emergenza, mentre avrebbe bisogno di assestarsi con un ruolo riconosciuto e ben governato all’interno dei processi di sviluppo demografico ed economico del Paese. L’effetto spiazzamento prodotto dalla canzone-trailer del film “Tolo tolo” di Checco Zalone, condita di luoghi comuni ma poi del tutto ribaltati nel film stesso, rivela la difficoltà a trattare in modo sereno il tema e a sorridere sulle nostre contraddizioni. L’avvio da record nelle sale italiane, nonostante non si tratti di un innocuo prodotto comico, dimostra però anche la disponibilità nel Paese, quantomeno in ampia parte di esso, a cercare una diversa prospettiva (meno scontata delle paure e della chiusura) nel leggere la diversità e il confronto con l’altro.

Meno occupati e pochi manager. I giovani ai margini e il Paese non riparte

L’Italia non ha alcuna possibilità di uscire dalla crisi di futuro che la tiene bloccata se non ritrova fiducia in se stessa. Questo è il messaggio principale del Presidente Mattarella nel suo discorso tradizionale di fine anno (che apre ad un nuovo decennio). Una fiducia che prima di tutto deve riguardare i giovani e il ruolo che il Paese affida ad essi, chiedendo e offrendo responsabilità ad ogni livello.

Si è ristretta la famiglia italiana

I dati dell’Annuario statistico 2019, appena pubblicati dall’Istat, ci dicono che i nuclei familiari sono sempre più stretti – scesi a una media di 2,3 componenti – ma, soprattutto, che è ormai in corso il sorpasso delle famiglie unipersonali rispetto alle coppie con figli. La prima tipologia, in continuo aumento, ha raggiunto quota 33,0 percento del totale, mentre la seconda, in costante riduzione, è oggi al 33,2. Nel senso comune una famiglia è formata da persone in relazione orizzontale (di coppia), e/o verticale (legame genitori-figli). Ma nel linguaggio anagrafico rientra nelle tipologie familiari anche quella di chi vive solo. Questo significa che paradossalmente il numero massimo di famiglie in Italia lo si avrebbe se non ci fosse alcuna famiglia, ovvero se vivessimo tutti indipendentemente come single. Il sorpasso di quest’ultima tipologia rispetto a quella che prevede gli elementi base del nucelo familiare – ovvero la relazione orizzontale (‘coppia..’) assieme a quella verticale (‘…con figli’) – è un segnale che invita a riflettere.

E’ importante però distinguere tra cambiamenti di fondo, che riguardano tutti i paesi occidentali, e ciò che contraddistingue il nostro paese. In combinazione con questo, è utile anche distinguere tra trasformazioni legate a nuove modalità di intendere, formare e vivere le relazioni di coppia, comprese le scelte riproduttive, rispetto a ciò che vincola verso il basso scelte comunque desiderate nella costruzione dei propri progetti di vita.

Un primo grande processo di lungo periodo è quello della semplificazione delle strutture familiari. Se torniamo ai primi decenni della storia unitaria, era comune per un bambino alla nascita trovarsi in una famiglia che, oltre ai genitori, sotto lo stesso tetto comprendeva molti altri bambini, ma anche nonni e zii con un proprio nucelo o come membri aggregati. Nei primi decenni dell’Italia repubblicana era, invece, comune nascere in una famiglia che oltre ai genitori, comprendeva solo due o tre fratelli. E’ l’esito del processo di “nuclearizzazione”, che ha interessato tutti i paesi industrializzati.

Un secondo processo – avvenuto dagli anni Sessanta del secolo scorso ad oggi – ha riguardato, invece, l’aumento della varietà delle tipologie come conseguenza dell’estensione, riscontrabile soprattutto sui percorsi femminili, delle possibilità di scelta. Convivere senza essere sposate, essere in coppia senza volere figli, avere figli senza essere in coppia, vivere come single senza essere considerata una “zitella”, sono diventate condizioni comunemente accettate solo da poche generazioni. Quello che pero’ caratterizza il nostro paese è – all’interno del mondo che cambia – la carenza di strumenti di policy in grado di sostenere le scelte individualmente desiderate che hanno ricadute positive sullo sviluppo economico e sulla sostenibilità sociale. Promuovere le condizioni di autonomia e di lavoro dei giovani e delle donne – mettendoli non solo nelle condizioni di realizzare le scelte professionali ma anche di integrarle al rialzo con i progetti di vita e familiari – è la strada maestra per le società moderne avanzate che voglio continuare ad essere vitali. L’alternativa – attualmente lo scenario più plausibile per l’Italia – è trovarsi sempre più ad essere un paese che invecchia e che, oltre agli anziani soli e a chi è single per scelta, vincola nella condizione di famiglia unipersonale anche chi avrebbe desiderato formare una famiglia più ricca e articolata nella dimensione orizzontale e verticale.

Guardando al futuro, «benvenuti, bambini!»

Nelle società moderne avanzate una fecondità attorno ai due figli per donna consente alla popolazione un adeguato ricambio generazionale. Quasi tutti i Paesi occidentali sono però scesi sotto tale soglia, anche se si possono distinguere tre diverse categorie. La prima è quella dei Paesi in cui la fecondità si è mantenuta su livelli vicini a tale soglia. La seconda è quella di quelli scesi molto sotto, ma poi, con investimento solido in politiche efficaci, sono recentemente risaliti su valori vicini alla media europea. La terza è quella dei Paesi con fecondità molto bassa e che non presentano segnali di ripresa. Tra i grandi Paesi europei la Francia appartiene al primo gruppo, la Germania al secondo, l’Italia al terzo.

Nel 2018 le nascite nel nostro Paese hanno battuto il record negativo dell’anno precedente e nei primi sei mesi del 2019 il dato è ulteriormente peggiorato rispetto al 2018. Gli squilibri strutturali prodotti sono tali che nel nostro Paese il numero di nati è sceso sotto il numero di ottantenni.

Nel suo tradizionale Discorso alla città l’arcivescovo dedica parole molto forti e sentite alla crisi demografica (cfr. Benvenuto, futuro! primo capitolo «Benvenuti, bambini!», ndr). Le conseguenze negative sono preoccupanti «sia per il mondo del lavoro, sia per la sostenibilità dell’assistenza a malati e anziani, sia per il funzionamento complessivo della società». Il «Laboratorio futuro» dell’istituto Toniolo ha presentato recentemente una ricerca che evidenzia gli scenari a cui va incontro il Paese se non inverte la rotta. Un Paese con record di debito pubblico e con accentuato invecchiamento della popolazione se non investe in una solida e qualificata presenza delle nuove generazioni rischia il tracollo. Ma «ancora più inquietanti sono le radici culturali» del fenomeno. Quella che è entrata in crisi è l’idea di un futuro migliore che impegni le scelte personali e collettive del presente.

La scelta di avere figli è diventata sempre meno scontata nel mondo occidentale. Se in passato la condizione comune era quella di averne e la decisione si esercitava esplicitamente in riduzione, oggi la situazione si è ribaltata. La condizione comune è quella di non averne e la scelta viene esercitata in aggiunta. In particolare, in Italia il numero di donne con meno di due figli è salito da circa una su tre tra le nate negli anni Cinquanta a una su due per le nate a fine anni Settanta, rischia quindi di diventare una condizione maggioritaria nelle generazioni successive.

Nel nostro Paese, a parità di numero di figli desiderato, maggiore è la posticipazione continua che diventa poi spesso rinuncia, a causa di vari motivi intrecciati. Il primo è il fatto che un figlio in Italia è più considerato un costo privato dei genitori anziché un bene collettivo che rende più solido il futuro di tutta la società. Questo è intrecciato anche al secondo motivo, ovvero la cronica carenza di politiche pubbliche a sostegno delle famiglie con figli, sia in termini fiscali sia di servizi per l’infanzia. A sua volta intrecciato con il terzo motivo, ovvero con la sensazione di abbandono che hanno percepito i giovani italiani nel percorso di transizione alla vita adulta e le giovani famiglie durante la crisi economica. Non è un caso che i Paesi che vedono oggi un andamento più favorevole della natalità sono quelli che sono intervenuti con più forza, in termini di politiche familiari e di autonomia dei giovani, proprio durante la recessione. Dove questo non è avvenuto è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro che anziché stemperarsi dopo la crisi sembra essere sceso in profondità. Anche la Lombardia e anche Milano hanno subito questo effetto.

Il caso di Milano è particolarmente interessante perché la città si è posta in condizioni favorevoli su tre cruciali aspetti, in controtendenza rispetto al resto del Paese. Il primo è il clima di aspettative crescenti che si è creato, che consolida l’idea di potersi inserire in un processo di opportunità crescenti e dinamismo economico. Il secondo è quello dell’attrazione di giovani intraprendenti. Il terzo è l’occupazione femminile, quantomeno nella città, su livelli comparabili al resto d’Europa.

Perché però questi elementi favorevoli possano essere intesi come parti di un vero e proprio modello sociale e di sviluppo che metta le basi di un solido futuro, è necessario che i giovani, anche quelli che partono da condizioni più svantaggiate, trovino effettive opportunità di mobilità sociale e che i progetti professionali si possano integrare al rialzo con i progetti di vita. I dati sul tasso di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) che continua ad essere più alto rispetto alla media europea e sul tasso di fecondità, addirittura più basso rispetto alla media italiana, dicono che anche questa città ha bisogno di consolidare una propria prima spinta endogena prima di poter dire, con forza e convinzione, «Benvenuto, futuro!».