Lavoro e reddito sono saldamente in cima alle preoccupazioni degli italiani, come continuamente ribadito da varie indagini che sondano il clima sociale del Paese. Del resto ci sono dati oggettivi che stanno alla base di tali assilli. Siamo uno dei paesi avanzati che – prima, durante e dopo la recessione – crescono di meno e che presentano tassi di occupazione tra i più bassi, soprattutto sul versante giovanile e femminile. Non meraviglia, quindi, che i dati dell’indagine SWG pubblicati ieri su queste pagine indichino il binomio “insicurezza economica” e “incertezza lavorativa” come i freni principali percepiti all’aver figli in Italia.
Crollo delle nascite. Un Paese senza figli e schiacciato in difesa
Se vogliamo diventare in questo secolo uno dei Paesi demograficamente più squilibrati – con tutte le implicazione economiche e sociali che ne conseguono – i dati più recenti Istat ci dicono che siamo sulla strada giusta. La popolazione italiana non cresce più, è anzi oramai da cinque anni in continuo arretramento, conseguenza di un saldo migratorio che non riesce più a compensare il saldo naturale in rosso sempre più profondo.
Lavoro, Italia verso il “buco nero”: “In dieci anni perderà un lavoratore su tre nella fascia di età che dovrebbe trainare la crescita”
Il calo degli occupati registrato dall’Istat a dicembre potrebbe non fare testo: le fluttuazioni dei dati mensili sono la norma e le stime sono soggette a errori. Quello che davvero preoccupa chi studia le prospettive del mercato del lavoro italiano è un problema cruciale che tende a rimanere sottotraccia. La demografia. Che nei prossimi dieci anni impoverirà inesorabilmente la fascia centrale di popolazione, quella tra i 40 e i 44 anni, all’apice della vita attiva e della produttività. Quella che dovrebbe sostenere e trainare la crescita del Paese. Nello scenario peggiore, l’Italia potrebbe ritrovarsi con un milione di occupati in meno in quella classe di età: un crollo del 30%, senza precedenti, che metterebbe a dura prova non solo il mantenimento degli attuali livelli di benessere ma anche la sostenibilità del sistema di welfare.
A scoprire quello che definiscono il “buco nero nella forza lavoro” sono stati il demografo Alessandro Rosina e il ricercatore di diritto del lavoro Mirko Altimari, in un paper realizzato nel 2019 per il Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo. L’allarme rosso si accende fin dalle prime pagine: finora, avvertono, l’aumento della popolazione anziana è stato sorretto da una presenza solida di popolazione nell’asse portante dell’età attiva. Ma ora entriamo in una fase in cui, in parallelo, “le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato“. E pure in questo l’Italia sarà maglia nera in Europa, sia perché qui il crollo delle nascite è stato più accentuato e ora iniziamo a sentirne gli effetti sia perché il tasso di occupazione dei 30-34enni italiani è più basso di oltre 10 punti rispetto alla media Ue. Peggio, manco a dirlo, va solo in Grecia.
I 30-34enni sono pochi. E tra loro ci sono meno occupati – Ma in cosa consiste il “buco nero” descritto da Rosina e Altimari? E’ l’ammanco di lavoratori nella fascia di età più produttiva che si registrerà mano a mano che gli attuali 40-44enni occupati vengono “sostituiti” da coloro che oggi hanno 30-34 anni. I problemi sono due: innanzitutto i Millennials, nati quando il crollo della natalità era ormai conclamato, sono molti di meno rispetto ai fratelli maggiori: circa 1,1 milioni in meno rispetto agli attuali 40-44enni. Poi, il loro tasso di occupazione è molto inferiore a quello dei 30-34enni di dieci anni fa, che oggi sono la fascia per la quale il tasso è più elevato. Il paper, che utilizza dati del 2017, riporta un tasso pari al 67,9% contro il 74,8% dei 40-44enni. Gli ultimi dati Eurostat (terzo trimestre 2019) sono rispettivamente al 69,1% e 75,2%: si tratta comunque di 6 punti di differenza. A questo va aggiunto che i trentenni italiani sono meno formati dei coetanei europei: poco più di uno su cinque è laureato, contro una media Ue vicina al 40%. Non basta: nella classe 30-34 anni c’è pure un 29% di “Neet” maturi. “Ex giovani” che non studiano né lavorano.
Per ridurre il “buco” più immigrazione e meno fuga di cervelli – Tra dieci anni, dunque, questa generazione “debole” – sia dal punto di vista demografico, sia per formazione sia in termini di partecipazione lavorativa – prenderà il posto dell’attuale zoccolo duro del mercato del lavoro. Con conseguenze preoccupanti. La ricerca disegna tre diversi scenari. Il primo è il meno favorevole: ipotizza che il saldo migratorio netto sia nullo, cioè gli arrivi di migranti bastino appena a compensare la fuga dei nostri trentenni, e che il tasso di occupazione resti più o meno invariato. In quel caso, i 40-44enni di domani sarebbero 1,1 milioni in meno rispetto a quelli di oggi e gli occupati in quella fascia di età calerebbero a 2,35 milioni: circa un milione in meno rispetto alla situazione attuale. Lo scenario mediano fa perno su un aumento dell’immigrazione e una riduzione dell’emigrazione dei giovani italiani in grado di portare gli attuali 30-34enni a circa 3,6 milioni, contro i meno di 3,4 milioni che si contano oggi. In più presume un incremento del tasso di occupazione a più del 76%. Se queste tre condizioni si verificassero, gli occupati calerebbero “solo” del 20%, cioè si perderebbe un lavoratore su 5 in quella fascia. Per mantenere costante il numero di occupati quarantenni, bisognerebbe immaginare un’evoluzione davvero brillante dell’economia italiana, con un balzo dell’occupazione dei trentenni a un tasso vicino al 95%. “Non impossibile, ma molto inverosimile“, commentano gli autori.
Che fare: politiche attive, nuove tecnologie e conciliazione famiglia-lavoro – Arginare la frana demografica, secondo Rosina e Altimari, è molto complicato. Ma qualcosa sul fronte interno si può fare. Servono interventi urgenti e incisivi in tre aree. Le politiche attive del lavoro, per accompagnare i trentenni inattivi nella riqualificazione crescita professionale. Incentivi alle imprese perché inseriscano nei loro processi nuove tecnologie che richiedano forza lavoro specializzata e qualificata, diventando così più competitive e creando posti di lavoro ad alto valore aggiunto. Infine la conciliazione vita-lavoro, che per i Millennials è cruciale e senza la quale è impossibile far crescere occupazione femminile e fecondità. E quella della fecondità, nel lungo periodo, è la sfida cruciale. Uno studio appena presentato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ricorda come nel 2050, secondo l‘Ocse, l’Italia conterà più pensionati che lavoratori. Ancora una volta, solo la Grecia si troverà in una situazione simile. Se non si inverte la rotta, pagare pensioni decenti diventerà una missione quasi impossibile.
Le debolezze della generazione da cui dipende il futuro del Paese
Se non si interviene al più presto con un’inversione di marcia, con una direzione chiara per lo sviluppo avanzato del paese, sarà sempre più difficile uscire dalla trappola di bassa crescita economica e ampie diseguaglianze sociali alla quale sembra volerci condannare la combinazione tra alto debito pubblico, crescenti squilibri demografici, fragilità formative e inefficienze del mercato del lavoro.
Indebitamento pubblico e invecchiamento della popolazione – in un paese con bassa capacità di far crescere la ricchezza pubblica e con alta sfiducia che arrocca in difesa la ricchezza privata – vanno a ridurre ulteriormente le possibilità di investimento nei processi individuali e collettivi che possono ridare vigore al percorso di sviluppo. Interessi sul debito e spesa previdenziale e sanitaria verso la crescente popolazione anziana, non sono insostenibili di per sé, ma rischiano di farci collassare se diventa più debole anche la forza lavoro. La differenza tra l’Italia che è entrata in questo decennio e quella che ne uscirà, verrà allora determinata proprio dal numero di persone attive e qualificate che andranno a rafforzare il centro della vita produttiva del paese.
Se questo è vero abbiamo due problemi combinati e tre risposte possibili da fornire in modo integrato, come evidenzia il report “Un buco nero nella forza lavoro italiana” pubblicato dal Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo. Tale rapporto prende come riferimento la fascia d’età in cui attualmente occupazione e produttività toccano i livelli più elevati, ovvero quella 40-44 anni. Il primo problema evidenziato è strettamente demografico. La popolazione italiana che si trova in tale fase della vita era nel 2019 pari a 4,4 milioni circa. Nel corso del decennio appena iniziato verrà via via sostituita da coloro che hanno oggi tra i 30 e i 34 anni, che risultano però essere oltre un milione di meno. Si tratta della più consistente riduzione in Europa di quello che può essere considerato l’asse portante dell’economia di un paese. Il secondo problema riguarda invece l’effettiva partecipazione alla produzione di ricchezza. Il tasso di occupazione dei 40-44enni risulta attorno al 74%, poco meno di dieci punti sotto la media europea. Quello che però è più preoccupante constatare è che tale coorte dieci anni fa (quando aveva 30-34 anni), presentava un tasso solo leggermente più basso (attorno al 73%), mentre chi ha oggi 30-34 anni parte già da cinque punti percentuali in meno (attorno al 68%).
Questi dati ci dicono che l’Italia sta entrando in una nuova fase della sua storia che corrisponde ad un inedito impoverimento della forza lavoro, ma anche che finora ha fatto molto meno del resto d’Europa per rafforzare la presenza qualificata delle generazioni che si apprestano ad occupare le posizioni centrali della vita attiva. In particolare abbiamo meno trentenni che arrivano al più alto titolo di studio e tra essi più bassa è la quota di chi ha un lavoro. Secondo i dati comparativi, relativi al 2018, la percentuale di laureati nella fascia 30-34 anni è la più bassa in Europa dopo la Romania (27,8% contro una media del 40,7%). Il tasso di occupazione dei laureati a tale età è circa dieci punti inferiore alla media europea e a far peggio è solo la Grecia. Di particolare rilievo è inoltre il fenomeno della sovraistruzione: secondo i dati Istat oltre un terzo degli occupati diplomati e laureati svolge un’attività che richiede un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Questo significa che più che negli altri paesi avanzati è maggiore sia la parte di giovani che arrivano ad affacciarsi all’età adulta con competenze inadeguate, sia la parte di chi arriva ben preparato ma non trova adeguata collocazione e valorizzazione nel mondo del lavoro.
Insomma gli attuali trentenni proiettati tra dieci anni rischiano non solo di portare la loro debolezza quantitativa (la più marcata in Europa) al centro del motore del paese, ma anche la loro maggiore fragilità in termini di percorso formativo e professionale (la più penalizzante in Europa).
Se non vogliamo che le nuove generazioni rappresentino uno svantaggio competitivo – come rivela il record di NEET under 35 (la maggiore evidenza dei giovani come costo sociale anziché produttori di valore) – ma che al contrario siano forza principale per far tornare il paese a crescere con una spinta più che compensativa rispetto ai freni del debito pubblico e dell’invecchiamento, dobbiamo con urgenza agire su tre fronti interdipendenti.
In un mondo che cambia a velocità impensabile rispetto al passato – dove i mutamenti avvenivano da una generazione alla successiva mentre oggi avvengono nel giro di pochi anni – il tema della formazione è prioritario, sia con riferimento alle competenze avanzate (come quelle digitali) sia a quelle trasversali (come l’apprendere ad apprendere, la creatività, l’intraprendenza). Le competenze da aggiornare e potenziare non riguardano solo i giovani, ma, a partire dall’entrata del mondo del lavoro, devono poi essere estese, rafforzate e aggiornate in tutte le fasi della vita.
In secondo luogo va urgentemente ridotto il disallineamento tra domanda e offerta che porta oggi al paradosso di molti giovani e giovani-adulti che possiedono le caratteristiche richieste sul mercato ma non trovano lavoro e, allo stesso tempo, molte aziende che faticano a coprire posizioni ben remunerate. In carenza di sistemi esperti efficienti di orientamento e supporto negli snodi del percorso di vita e professionale, troppi giovani rischiano di perdersi e di portare nella vita adulta delusioni e frustrazioni anziché energie e competenze per realizzarsi e far crescere il paese.
Va infine, ma non per ultimo, data particolare attenzione alla formazione e alla valorizzazione del capitale umano femminile. Le trentenni raggiungono un titolo di studio più alto rispetto ai coetanei maschi ma il loro tasso di occupazione risulta poi più basso. Proprio su questo fronte, sottolinea il report del Toniolo, si possono ottenere i maggiori risultati in termini di riequilibrio generazionale della forza lavoro, che però richiede un riequilibrio del rapporto di genere e tra vita e lavoro.
Dall’impegno ad agire contestualmente su questi tre fronti interdipendenti dipende molta della capacità di superare gli squilibri attuali e dar solidità al percorso di sviluppo del paese.
L’umanità che fa bene alla terra
Se, fortunatamente, molto limitati sono i gruppi che auspicano l’estinzione della nostra specie per salvare la Terra, più diffusa è l’idea che avere figli sia una scelta egoistica che mette a repentaglio il rapporto tra popolazione, risorse e ambiente. Si tratta di un tema che ha vissuto in passato momenti di confronto molto acceso, sotto l’influsso delle tesi neomalthusiane, e che in modo ricorrente torna a presentarsi.