I nidi della diseguaglianza

L’Italia è tra i Paesi europei che non sono ancora riusciti a raggiungere l’obiettivo di assicurare i servizi educativi al 33% della fascia d’età 0-2, neppure dieci anni dopo il target stabilito dall’Unione europea (2010). Mettendo assieme offerta pubblica e privata si arriva a malapena a un bambino su quattro. Vi è, inoltre, un enorme divario nella possibilità di accesso ai nidi a seconda di dove la famiglia vive e delle sue condizioni economiche.

Ridurre queste diseguaglianze è tanto importante quanto alzare il livello della copertura. Occorre superare il troppo comodo e auto-giustificatorio ragionamento secondo cui i nidi non ci sono, soprattutto nel Mezzogiorno, perché manca la domanda. Ricordiamo che il Sud Italia è l’area in Europa con peggiore combinazione di bassa fecondità, bassa occupazione femminile e alta povertà infantile. Se ci fosse un’offerta di servizi più ampia, non legata solo all’occupazione della madre, se si abbassassero le rette, se ci fosse un monitoraggio con impegno continuo a migliorarne la qualità, si innescherebbe un circuito virtuoso. Se ne gioverebbero i genitori, lavoratori o meno, perché troverebbero sostegno, possibilità di confronto, nelle loro responsabilità genitoriali.

Le madri potrebbero più facilmente trovare e tenere una occupazione. Se ne gioverebbero i bambini, perché allargherebbero il raggio delle persone di riferimento e delle esperienze necessarie allo sviluppo delle loro capacità, come molte ricerche confermano. Difficile trovare un’altra voce di investimento in grado di produrre ricadute così ampie e solide.

L’ampliamento dei servizi educativi per la prima infanzia va quindi avviato dando priorità al Mezzogiorno (in coerenza anche con l’indicazione della Bce di una attenzione particolare a tale area nell’uso dei fondi del Recovery Fund). Intervenendo dove i nidi sono più carenti e i bambini in condizione di maggiore svantaggio (quelli che oggi meno ne beneficiano), si favorirebbe un’operazione di contrasto alla povertà educativa e alle disuguaglianze proprio nella fase della vita più vulnerabile agli effetti negativi delle carenze di risorse, ma proprio per questo anche quella in cui solo maggiori possono essere i benefici individuali e sociali di un’azione tempestiva.

L’obiettivo di garantire l’accesso al nido al 60% dei bambini fino a tre anni va, quindi, preso come la direzione verso cui incamminarsi, più che come una meta effettivamente realizzabile in 5 anni. È più politicamente ed economicamente realistico porsi l’obiettivo di raddoppiare nei prossimi tre anni la spesa attuale dei Comuni, di abbassare consistentemente le rette a carico delle famiglie e di rafforzare l’offerta di servizi là dove è più carente. Tutto ciò comporterebbe una spesa indicativa di almeno 1,5 miliardi all’anno, che permetterebbe all’Italia di avvicinarsi sensibilmente a una copertura pubblica vicina al 33%, da raggiungere in ogni regione, su cui può essere innestata l’offerta privata. Perché ciò avvenga, accanto all’iniziativa di Comuni e Regioni, è essenziale quella del Miur, come garante dei livelli essenziali dei servizi educativi su tutto il territorio nazionale.
Nel frattempo, l’obiettivo prioritario da porsi per la ripresa a settembre è di mantenere almeno il livello di offerta pre-Covid 19, visto che vi è il rischio che addirittura alcuni servizi siano costretti a chiudere. Lo stesso dovrebbe valere anche per la scuola dell’infanzia, il cui livello di copertura nella situazione pre-Covid 19 era molto alto, anche se con differenze territoriali a sfavore del Mezzogiorno, ma ora rischia anch’essa una riduzione dell’offerta.

Gli autori sono coordinatori dell’Alleanza per l’Infanzia

Un nuovo ecosistema del lavoro per non impoverire il Mezzogiorno

Con un post su facebook pubblicato a fine settembre 2019 veniva data dal sindaco di Milano, Giuseppe Sala, la notizia del raggiungimento di quota 1 milione e 400 mila residenti a Milano. Un traguardo raggiunto con l’iscrizione di Andrea, neo cittadino di origini catanesi. Nello scenario pre-pandemia il Sud Italia era l’area che più perdeva giovani, mentre Milano faceva parte di poche città del centro-nord con ventenni e trentenni in crescita grazie alla propria capacità attrattiva. Nel complesso sono stati circa 250 mila i laureati a lasciare il Mezzogiorno nei primi due decenni di questo secolo. Questo impoverimento del capitale umano è allo stesso tempo effetto e causa delle difficoltà e delle contraddizioni dello sviluppo di tale area.

La sfida è attrarre i giovani

L’invecchiamento della popolazione è uno dei processi più caratterizzanti del XXI secolo. Tutto il mondo è in transizione verso una società più matura, con presenza di persone ricche di età molto più abbondante che in passato. Si tratta della conseguenza positiva del vivere sempre più a lungo. Questo processo è però anche accentuato dalla riduzione delle nascite, risulta quindi particolarmente intenso in Europa e ancor più in Paesi, come l’Italia, nei quali la fecondità è scesa molto sotto la soglia di due figli per donna che corrisponde all’equilibrio tra generazioni. Ne deriva una crescita della popolazione anziana non solo in termini assoluti ma anche relativi, in contrapposizione ad un indebolimento della consistenza delle generazioni più giovani.

Il valore negato alle nuove generazioni

Le nuove generazioni sono il modo attraverso cui la società sperimenta il nuovo del mondo che cambia. Se messe nelle condizioni adeguate, sono la componente maggiormente in grado di coniugare le proprie potenzialità con le specificità del territorio in cui vivono e le opportunità delle trasformazioni del proprio tempo. I giovani sono invece i primi a veder scadere le proprie prerogative e a trovarsi maggiormente esposti a vecchi e nuovi rischi quando i cambiamenti vengono subiti anziché anticipati e governati.

L’Italia intrappolata nella crisi demografica, l’emergenza è la natalità

L’Italia si trova intrappolata da lungo tempo in una profonda crisi, più insidiosa di qualsiasi recessione economica o altro tipo di emergenza. Si tratta della crisi demografica. I dati sul bilancio demografico nazionale, appena pubblicati dall’Istat, certificano che nel 2019 le nascite sono precipitate a 420 mila.