Nel suo tradizionale discorso di fine anno il Presidente Mattarella ha messo bene in luce l’impatto della crisi sanitaria sul paese, ma anche sulle storie individuali e sui progetti di vita. Ha, infatti ricordato, che la pandemia “ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di nuove. Tutto ciò ha prodotto pesanti conseguenze sociali ed economiche”. Ha, inoltre, aggiunto che la crisi sanitaria “ha seminato un senso di smarrimento: pone in discussione prospettive di vita. Basti pensare alla previsione di un calo ulteriore delle nascite, spia dell’incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità”.
Un figlio nel XXI secolo
Le società moderne avanzate sono entrate, negli ultimi decenni del XX secolo, in una fase nella quale avere figli è una scelta sempre meno scontata. Il processo decisionale non opera più in sottrazione, ma in aggiunta rispetto ad una condizione di base che è quella di assenza di figli (la contraccezione non subentra per togliere, ma è diventata la condizione comune di base che viene interrotta per consentire una nascita desiderata).
Oltre la pandemia, rafforzare salute e capitale umano
Non è eccessivo riconoscere che l’Italia si trovi oggi davanti ad un drammatico bivio. Da un lato c’è il sentiero stretto, tutto in salita, che va verso una nuova fase di sviluppo economico e sociale. Sull’altro lato c’è un’ampia strada in discesa “che porta al disastro” – come ammoniva il direttore Tamburini in un editoriale pubblicato poco prima della seconda ondata pandemica – “reso ancora più drammatico dalla montagna di debito pubblico”. Le nostre fragilità passate e l’impatto della crisi sanitaria ci spingono verso la seconda strada. Servirà, nel nuovo anno, tutta la nostra volontà e lucidità d’intenti per imboccare con decisione la prima. Tra gli squilibri accumulati che ci sbilanciano verso la direzione sbagliata, assieme all’indebitamento c’è anche, forse ancor più, l’invecchiamento demografico. Si tratta di due enormi macigni che gravano sul debole capitale umano delle nuove generazioni, a cui si associa la scarsa capacità di piena valorizzazione nella società e nel mondo del lavoro.
Ripartiamo da Zeta
Gli attuali under 25 appartengono alla Generazione Zeta, composta dai nati dal 1996 in poi. E’ la prima generazione cresciuta sin dall’infanzia nel XXI secolo. Di fatto, senza diretta memoria del secolo precedente e tutta proiettata nelle trasformazioni di quello in corso. Distintivo è il rapporto con le nuove tecnologie e i social network. Presenta sensibilità spiccate verso i temi dell’ambiente e a condotte più attente al benessere sociale in generale. Tende, inoltre, a prediligere una partecipazione poco guidata da ideologie, molto orientata a risultati concreti e vissuta come esperienza condivisa di arricchimento personale. Alta è la propensione ad entusiasmarsi quando il coinvolgimento funziona, ma risulta anche più esposta al rischio di demotivazione quando mancano stimoli o non vedono un riscontro riconoscibile del proprio impegno. Questo vale anche sul lavoro.
I dati del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo suggeriscono, in particolare, come il desiderio di fondo della Generazione Zeta non sia tanto quello di porre confini al lavoro per dare più spazio alla vita libera dal lavoro, ma di contaminare i due territori e soprattutto riempire di vita il lavoro, in termini di passioni e interessi. Si tratta di dati coerenti con molte ricerche internazionali che registrano una crescita tra i giovani di chi afferma di prediligere aziende socialmente responsabili, attente e impegnate in campo ambientale, anche se questo dovesse comportare uno stipendio più basso.
E’ però anche vero che, pur facendo propria un’idea di benessere e realizzazione personale più ampia rispetto alle generazioni precedenti, vivono in un contesto storico di grande incertezza, che porta a mantenere alta l’attenzione verso la solidità del lavoro e il livello di remunerazione. Questo significa, anche, che se le condizioni economiche e le opportunità occupazionali delle nuove generazioni fossero migliori, la loro spinta verso un nuovo modello di sviluppo più sostenibile sarebbe ancor più forte.
La combinazione tra cambiamento accelerato e complessità crescente della realtà in cui si collocano i percorsi formativi e professionali di chi è giovane in questo secolo, offre potenzialmente più opzioni rispetto alle generazioni precedenti ma è aumenta anche l’incertezza associata alle scelte e alle loro implicazioni. Questa incertezza è inoltre stata accentuata dall’impatto di quattro crisi che hanno segnato il percorso di crescita della generazione Zeta, dall’infanzia fino alle soglie dell’età adulta.
La prima crisi è quella che corrisponde alla discontinuità prodotta dall’11 settembre 2001, che ha fatto crescere la percezione di insicurezza, limitando in partenza lo spazio strategico di mobilità di una generazione propensa a pensarsi cittadina di un mondo senza confini. La seconda è stata la Grande recessione del 2008-13, che ha reso ancor più chiara la difficoltà delle economie moderne avanzate ad aprire una nuova fase di sviluppo diffuso, in coerenza con le sfide e le grandi trasformazioni del nuovo secolo. L’Europa stessa di fronte alla prova della recessione non si è rivelata compatta e solidale. La Brexit ha ulteriormente messo in evidenza i limiti del processo di integrazione e dello sviluppo di una visione comune. Anche questa crisi politica europea ha contribuito a rendere più deboli i punti di riferimento per le nuove generazioni nella costruzione del proprio futuro. In particolare, la generazione Zeta è la prima, dal Secondo dopoguerra, a non crescere con l’idea di una Europa che si rafforza e allarga. La quarta crisi è quella sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Gli attuali under 25 hanno nella loro biografia l’impatto combinato di questi grandi eventi che hanno cambiato il modo di vivere, di stare in relazione, di guardare il mondo e di operare al suo interno.
Nel nostro paese l’incertezza è inoltre amplificata dalle carenze degli strumenti di welfare attivo e dal basso investimento in ricerca, sviluppo e innovazione. Inoltre, gli attuali ventenni diventano adulti in uno dei paesi con peggior peso di debito pubblico e maggior carico di anziani sulla popolazione attiva. Ancor più, quindi, che nel resto d’Europa, le possibilità di crescita e di sostenibilità sociale dell’Italia dipendono dalla formazione del capitale umano delle nuove generazioni e dalla capacità di piena valorizzazione all’interno del mondo del lavoro. Ma proprio questi sono i punti su cui presentiamo maggiore fragilità e che rischiano ora di essere maggiormente indeboliti dall’impatto della pandemia.
L’Italia nel decennio appena concluso ha consolidato la sua posizione sui livelli peggiori in Europa rispetto agli indicatori della transizione scuola-lavoro. La percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che lasciano precocemente gli studi (Early leavers) continua ad essere sensibilmente sopra la media europea, con punte oltre il 20% tra i maschi del Sud. Ancora nel 2019, l’Italia risultava il paese in Europa con più alta incidenza di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano): pari al 27,8% nella fascia 20-34 (quasi il triplo rispetto a Paesi Bassi e Svezia).
Il report Eurostat “COVID-19 labour effects across the income distribution” (Statistics explained, ottobre 2020) evidenzia come la crisi causata da COVID abbia investito in modo particolare i giovani e stia inasprendo le diseguaglianze generazionali e sociali. A risentirne di più – dal lockdown in occasione della prima ondata in poi – è chi è in cerca di occupazione, chi non ha un contratto a tempo indeterminato, chi lavora nei settori più colpiti (come ristorazione, intrattenimento, servizi di alloggio, turismo).
La disoccupazione giovanile in Europa, sotto il 15% poco prima della pandemia, risultava salita al 17,6% ad agosto 2020, ma con dato italiano arrivato al 32,1%. Questi valori evidenziano una situazione di maggior fragilità rispetto alla recessione iniziata nel 2008. In tale occasione, nel nostro paese, il tasso di disoccupazione dei giovani partiva da valori poco superiori al 20% ed era arrivato a superare il 30% “solo” quattro anni dopo (nel 2012).
La preoccupazione rispetto ad un quadro di ulteriore scadimento al ribasso delle prospettive delle nuove generazioni emergeva ben chiara dall’indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo durante il primo lockdown. Allora quasi la metà (il 49%) degli intervistati, tra i 18 e i 34 anni, dichiarava di vedere – rispetto a prima dell’emergenza coronavirus – più a rischio il proprio lavoro attuale o futuro. Nell’indagine replicata nella prima metà di ottobre (prima delle possibili conseguenze della seconda ondata) alla stessa domanda la percentuale risultava rimasta comunque elevata, superiore al 40%.
Dalla stessa indagine emergono però anche elementi incoraggianti sia sul versante individuale che rispetto alle prospettive del paese. Sul piano personale si riscontra una grande voglia di reagire positivamente, di guardare oltre sia ai limiti della normalità passata, assieme ad una maggiore propensione a contare su sé stessi e sugli altri, a far fronte ai cambiamenti e a riconoscere nuove opportunità. Rispetto al sistema Italia i giovani intervistati intravedono un possibile impulso positivo nel post Covid-19 non solo sull’attenzione verso la salute collettiva ma anche sul fronte del digitale, dell’innovazione tecnologica e della green economy. Tutti questi temi sono sentiti vicini e propri dalle nuove generazioni e forte è quindi anche l’aspettativa di essere coinvolte come parte attiva di un nuovo inizio.
Ripartire dalla Zeta è, quindi, il piano che il paese dovrebbe darsi se vuole davvero cogliere la discontinuità della pandemia come occasione per mettere nuove basi al proprio percorso di sviluppo, più solide ma anche più coerenti con i più promettenti processi di produzione di benessere di questo secolo.
L’emergenza demografica che chiude l’anno nero
Sta per finire un anno che verrà ricordato a lungo nella memoria dei singoli e ben individuabile nella serie storica dei principali indicatori economici, sociali e demografici. Nel 2020 tutti gli aspetti della vita sociale ed economica sono stati vissuti in condizione di emergenza, in modo inatteso e mai sperimentato in precedenza dalle generazioni nate nell’Italia repubblicana. Ai rischi e ai timori per la salute si è, infatti, fin da subito aggiunto anche il disagio materiale (sul fronte del lavoro, del reddito, dell’organizzazione familiare) e quello emotivo (per le difficoltà nelle relazioni sociali e l’incertezza nei confronti del futuro). E’ stato però anche un periodo in cui persone, famiglie, aziende, istituzioni, hanno dovuto guardare la realtà in modo diverso. In molti casi, la necessità di rimettere in discussione pratiche consolidante ha aperto anche nuove opportunità che hanno portato a soluzioni migliori, destinate a rimanere anche oltre l’emergenza. Si è, inoltre, rafforzata la consapevolezza che, sotto molti aspetti, non sarà possibile tornare come prima, ma anche che, sotto molti altri, è bene cogliere la discontinuità per iniziare una fase nuova.
La demografia è uno dei principali ambiti colpiti dalla pandemia, sia per l’effetto diretto sull’aumento della mortalità, sia per le conseguenze indirette sui progetti di vita delle persone. Come ben noto, la situazione del nostro paese risultava già da troppo tempo problematica su questo fronte. Il maggior invecchiamento della popolazione ci ha resi più vulnerabili al virus. I fragili percorsi formativi e professionali dei giovani in Italia (soprattutto se provenienti da famiglie con medio-basso status sociale), i limiti della conciliazione tra vita e lavoro (soprattutto sul lato femminile), l’alta incidenza della povertà per le famiglie con figli (soprattutto oltre il secondo), con il contraccolpo della crisi sanitaria rischiano di rendere ancor più debole la scelta di formare una propria famiglia e avere dei figli. Anche l’aumento del senso di insicurezza va in tale direzione.
Da un lato, i livelli ante Covid-19 su questo insieme di indicatori non possono essere considerati una normalità positiva a cui tornare. D’altro lato le conseguenze dell’impatto della crisi sanitaria non sono scontate e potrebbero portare – come già accaduto con la recessione del 2008-13 – ad un adattamento al ribasso, andando così ad accentuare squilibri demografici incompatibili con uno sviluppo solido del nostro paese.
Lo scenario in cui ci troviamo proiettati richiede, in ogni caso, un attento monitoraggio della condizione delle famiglie e delle nuove generazioni, oltre che dell’evoluzione del sistema di rischi e opportunità all’interno del quale le scelte e i comportamenti demografici si collocano. Solo adeguate ricerche e analisi possono fornire il supporto conoscitivo necessario per politiche efficaci, in grado di aiutare il Paese a riprogettarsi e partire in modo nuovo, favorendo un’apertura positiva e vitale verso il futuro.
Il quadro attualmente più completo delle conoscenze disponibili, delle ricerche in corso (in ambito nazionale e internazionale) e delle evidenze empiriche emergenti, si può trovare nel Rapporto “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”, curato dal gruppo di esperti su “Demografia e Covid-19” istituito ad aprile dalla ministra Bonetti, e presentato ieri in un webinar promosso dal Dipartimento per le politiche della famiglia. Riguardo alle nascite, i dati parziali dei primi otto mesi dell’anno evidenziano già una riduzione di circa 6,5 mila nati rispetto allo stesso periodo del 2019. Questo significa che, al netto della pandemia, il 2020 si preannunciava già in ulteriore diminuzione. Un sondaggio condotto a novembre tra i più qualificati esperti italiani sui temi demografici (attivi in ambito accademico o nei principali istituti di ricerca), conferma un orientamento generale ad anticipare un effetto negativo. In particolare, a ritenere che il 2020 sarà caratterizzato da una sensibile riduzione dei concepimenti sono circa 3 intervistati su 4. Il 20 percento pensa che l’impatto sarà limitato, mentre solo circa il 5% ritiene che ci sarà un incremento. Si tratta di un quadro coerente con i dati della prima indagine europea sull’impatto della pandemia sui progetti di vita di giovani e giovani-adulti (18-34 anni) condotta da Istituto Toniolo e Ipsos a fine marzo e poi replicata ad ottobre, che mostrano come gli italiani siano quelli che più si sono trovati a rivedere al ribasso le scelte programmate (uscire dalla casa dei genitori, formare una propria famiglia, avere un figlio).
Di particolare rilevanza, per le ricadute su tali scelte sono i dati sui percorsi professionali e sulle possibilità di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Nel secondo trimestre 2020 il tasso di occupazione femminile risulta sceso al 48,4%, consolidando la distanza rispetto alla media europea. Si accentua anche il divario generazionale. Sempre nello stesso periodo, la riduzione del tasso di occupazione è risultata pari a -3,2 punti percentuali nella fascia 25-34 anni, pari a -1,6 nella fascia 35-49 e a -0,8 in quella 50-64. A essere più colpita risulta quindi la classe di età che già presentava il più ampio divario rispetto alla media europea, ma anche quella più delicata per la costruzione dei progetti di vita.
Il 2020 potrebbe essere anche l’anno – come verificheremo dai dati provvisori del Censimento permanente presentati oggi dall’Istat – in cui scopriamo (prima ancora che venga contabilizzato l’’impatto completo della pandemia) di essere scesi sotto la soglia dei 60 milioni di abitanti. Un dato decisamente peggiore rispetto alle previsioni. Le proiezioni con base 2011 prefiguravano una discesa sotto tale livello solo dopo la metà del secolo. Anche secondo le proiezioni più recenti (base 2018, scenario mediano), che scontavano l’andamento demografico negativo dell’ultimo decennio, la discesa sotto la soglia dei 60 milioni si sarebbe dovuta osservare non prima del 2030.
Il Rapporto del gruppo di esperti su “Demografia e Covid-19” si conclude con un capitolo sulle misure messe in campo o annunciate in campo europeo e italiano, con particolare attenzione a Next Generation Eu e al Family act. Ma oltre alla necessità di solide e credibili misure di policy, servirà anche un clima sociale positivo che proietti tutto il paese in avanti, non solo per superare l’emergenza ma, soprattutto, per alimentare un nuovo processo di sviluppo in cui possa essere collocata con fiducia la realizzazione del desiderio di avere un figlio. Al contrario, lasciare che l’emergenza sanitaria diventi una ulteriore occasione per le nuove generazioni di revisione al ribasso dei propri progetti di vita, condannerebbe tutto il paese ad un declino irreversibile. Il segnale più chiaro di quale tra questi due scenari andrà ad imporsi ce lo daranno le dinamiche della natalità dal 2022 in poi.