Il post crisi deve cominciare dalle generazioni dei giovani

La transizione scuola-lavoro somiglia sempre più in Italia ad un labirinto. In un mondo sempre più complesso e con un mercato sempre più dinamico, senza lo sviluppo di adeguati sistemi esperti di orientamento e accompagnamento i giovani rischiano di trovarsi abbandonati a se stessi e all’aiuto delle famiglie, con alto rischio di perdersi o di intrappolamento in percorsi di basso profilo professionale.

La conseguenza non è solo un aumento delle diseguaglianze generazionali e sociali, ma anche una grande dissipazione delle energie e delle intelligenze delle nuove generazioni a cui corrisponde una allocazione non ottimale delle risorse attive del paese nel mercato del lavoro. I giovani con titolo di studio più basso più spesso che negli altri paesi scivolano nella condizione di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano), mentre quelli con più alta formazione e competenze entrano più spesso tardi e male nel mondo del lavoro, come testimoniano i dati sull’overeducation (condizione in cui il livello di formazione posseduto è maggiore di quello richiesto). L’indicatore dei Neet misura lo spreco di un paese della propria risorsa giovani, mentre quello della overeducation misura la bassa valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni. Secondo i dati Istat nell’ultimo decennio il fenomeno della sovraistruzione è stato maggiore di quello della sottoistruzione e questa vale soprattutto per gli under 35.

Come mostrano i dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, in larga parte dei giovani italiani c’è la disponibilità ad adattarsi a quello che il mercato offre, ma più che negli altri paesi c’è anche il timore che l’eccessivo adattamento al ribasso possa diventare una condizione permanente senza uscita e, quindi anche, una rinuncia a realizzare in pieno i propri progetti di vita.

Lo stesso Piano Garanzia giovani, avviato in Italia nel 2014, non è riuscito a riportare gli indicatori della transizione scuola-lavoro a convergere con la media europea. Rispetto agli altri paesi europei che hanno attivato tale programma, molto maggiore è stato nel nostro paese il ricorso ai tirocini. Il loro largo utilizzo lo si deve, soprattutto, ai limiti della capacità di incontro tra domanda e offerta dei centri per l’impiego italiani, da un lato, e al basso sviluppo di più solidi strumenti di ingresso nel mondo del lavoro, come l’apprendistato, dall’altro.

Ma va ripensata anche la funzione stessa dei tirocini. Non possono essere un’alternativa al non far nulla. Se la transizione scuola-lavoro rimane un labirinto e il tirocinio è un tratto al suo interno in cui il giovane si sposta dal punto A al punto B senza che tale esperienza abbia effettivamente migliorato la propria posizione nel mondo del lavoro, non solo non serve a nulla ma alla fine ci si sente ancor più soli, con più frustrazione e scoraggiamento.

Se vogliamo davvero mettere le basi di un new normal dopo l’impatto della pandemia dobbiamo, allora, assumere il punto di osservazione delle nuove generazioni nel leggere la realtà che cambia e ciò che funziona nel migliorarla creando nuove opportunità. Con la consapevolezza che se l’Italia non riparte dai giovani non va da nessuna parte.

Serve investire sui figli ora

Il primo luglio è entrata in vigore la misura-ponte dell’Assegno unico e universale per i figli, che anticipa l’avvio a regime fissato per il primo gennaio 2022. Si tratta di una novità importante per le politiche familiari italiane. L’assegno va finalmente nella direzione di superare la debolezza, la disomogeneità e la frammentazione delle misure di sostegno economico alla genitorialità del passato (in questo senso è “unico”). Alla base c’è anche un importante cambiamento culturale che mette al centro il bambino stesso, con impegno del paese a investire in modo solido sul suo benessere e il suo sviluppo umano – qualsiasi siano le caratteristiche dei genitori – dalla nascita fino alla maggiore età (in questo spirito è “universale”).

Alla misura temporanea, che si chiuderà il 31 dicembre 2021, sono destinati tre miliardi aggiuntivi, che hanno soprattutto l’obiettivo di includere chi finora non beneficiava dell’assegno al nucleo familiare: figli di lavoratori autonomi, liberi professionisti, incapienti (quantificabili nel complesso in 1,8 milioni di famiglie).

Le misure di sostegno alle famiglie con figli camminano su due principali gambe. La prima è quella dei servizi di conciliazione tra tempi di vita e lavoro (come i nidi e i congedi), la seconda è quella del supporto economico alle responsabilità di cura e crescita. L’arrivo di un figlio può, infatti, sia aumentare la complicazione dell’organizzazione familiare, con ripercussioni anche nella dimensione occupazionale e professionale, sia aumentare il disagio economico e il rischio di povertà. La carenza di strumenti adeguati su tali due fronti porta a rinunciare a realizzare pienamente la fecondità desiderata. La presenza di politiche efficaci, al contrario, mette le coppie nella condizione di poter valutare più positivamente la possibilità di avere un ulteriore figlio.

L’AUUF va quindi inteso come parte importante di un sistema più ampio (solido, integrato e coerente) di misure che consentono alle scelte delle coppie di essere realizzate in un contesto di benessere relazionale ed economico adeguato per la crescita dei figli. I trasferimenti monetari non sono la ragione, di per sé, per cui si ha un figlio, ma aiutano a ridurre l’incertezza nel processo decisionale che porta a tale scelta. Consentono di ridurre il rischio di esperienza negativa dopo l’arrivo di un figlio rispetto alle difficoltà economiche, mettendo in condizioni più favorevoli le coppie orientate ad averne altri.

Nelle versioni adottate nei vari paesi europei si va da un importo che destina stesso ammontare a tutti i bambini, a un assegno fortemente legato al reddito della famiglia (formato da una bassa componente di base che va universalmente a tutti, a cui si aggiunge una incisiva componente variabile). Questo secondo caso si configura più come strumento di contrasto alla povertà che di politica familiare in senso proprio. La misura-ponte entrata in vigore il primo luglio risulta fortemente progressiva (il massimo è 167,5 euro per bambini in famiglie con Isee pari o uguale a 7 mila, ma si scende a 83,8 euro mensili per famiglie con Isee di 15 mila e a 30 euro per Isee di 40 mila, per poi annullarsi oltre 50 mila).

Da un lato, l’aumento della povertà seguito alla pandemia ha fatto, giustamente, aumentare l’attenzione verso le famiglie più in difficoltà. D’altro lato, però, se questa misura si sposta su tale obiettivo rischia di rimanere debole l’azione a sostegno della natalità (che ha bisogno di un insieme integrato di misure percepite come rilevanti anche dal ceto medio).

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L’Italia fragile senza giovani: ora il declino accelera al Sud

L’Italia è un mondo nel mondo. E’ un paese molto vario, nel quale si possono trovare, in vari ambiti, eccellenze comparabili alle aree più avanzate del pianeta, ma anche realtà in situazione di accentuata fragilità. Oltre ad essere molto articolato, come mostrano i dati degli indicatori sulla qualità proposti in queste pagine, il quadro interno è anche non scontato. Da un alto, i contesti usualmente considerati più positivi e dinamici possono mostrare limiti rilevanti in alcune dimensioni. D’altro lato, aree considerate generalmente svantaggiate, non necessariamente si trovano al ribasso su tutti gli indicatori.

Demografia, democrazia e la scelta (cinese) di un futuro dinamico

Se il XX secolo è stato dominato dalla preoccupazione per l’eccessiva crescita della popolazione, quello attuale sarà sempre più caratterizzato dall’attenzione verso le conseguenze di un inedito declino demografico. Un momento chiave di tale passaggio è stata la decisione, presa nel 2013, dalle autorità cinesi di dare addio alla politica del figlio unico. Il processo messo in moto da tale decisione arriva a compimento con l’apertura, annunciata in questi giorni, verso la possibilità di andar oltre anche al secondo figlio. Di fatto un riconoscimento che sono cambiate le condizioni alla base sia delle dinamiche demografiche che del contesto in cui i cittadini operano le loro scelte. Più che proibire e sanzionare chi ha figli diventa auspicabile incentivare e favorire la propensione ad averne.

I dati aiutano a capire più chiaramente tale passaggio epocale. Nel 1950 gli abitanti del pianeta risultavano saliti oltre 2,5 miliardi, dei quali oltre mezzo miliardo viveva in Cina. Tale ammontare della popolazione mondiale risultava raddoppiato alla fine degli anni Ottanta, ma all’inizio di tale decennio la Cina da sola aveva già superato il miliardo.

E’ quantomeno da Marco Polo che gli osservatori esterni associano numeri impressionanti alla terra del Dragone, ma in questo caso il dato era tale da suscitare ancor più preoccupazioni interne. In tale contesto la Cina decise di entrare nella storia con la decisione di imporre alle coppie quanti figli avere, piegando brutalmente la demografia agli obiettivi di crescita economica. L’impatto della “politica del figlio unico”, adottata dal 1979, è riscontrabile nel confronto relativo con l’evoluzione mondiale. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite gli abitanti del pianeta nel 2050 saranno circa il doppio rispetto al momento in cui Pechino avviò tale politica, mentre la Cina nello stesso periodo risulterà cresciuta solo del 50%. Dopo essersi fermata sotto il miliardo e mezzo, inizierà nei prossimi anni un progressivo declino che la ricondurrà vicina a un miliardo nel 2100. Prima della fine di questo decennio verrà superata dall’India, ma anche quest’ultima entrerà in fase discendente poco dopo il 2050. A quell’epoca rimarranno solo un numero sempre più ristretto di paesi con fecondità elevata, concentrati nell’Africa sub-sahariana. Il mondo entrerà, quindi, nel XXII secolo con la crescita esuberante archiviata e una demografia a ricambio lento, con poche nascite e persone che vivono sempre più a lungo.

La questione vera non è, però, l’aumento della longevità e nemmeno il declino, in sé, degli abitanti del pianeta. Quando la fecondità rimane posizionata attorno ai due figli per donna, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente, mantenendo un sostanziale equilibrio tra generazioni. Se invece la fecondità scende repentinamente e rimane a lungo sensibilmente sotto tale soglia si determina un’alterazione strutturale che può avere forti ripercussioni negative sulla crescita economica. In particolare, la denatalità va progressivamente ad erodere la componente attiva che produce ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema sociale, a fronte di una accentuata crescita della popolazione anziana.

Un meccanismo che l’Italia conosce bene. La fecondità cinese non è ancora così bassa come quella del nostro paese, ma partiva da livelli più elevati. Inoltre il sistema di welfare è molto meno sviluppato. Quando entrò in vigore la politica del figlio unico gli under 25 costituivano circa il 55% della popolazione totale e gli over 65 non arrivavano al 5%. Entro la metà di questo secolo i primi risulteranno più che dimezzati e saranno superati dai secondi.

Ma gli squilibri demografici tendono anche ad autoalimentarsi. La denatalità passata riduce la popolazione in età riproduttiva, che corrisponde anche alla componente più rilevante per i consumi interni, la partecipazione al lavoro, la produttività e l’innovazione. In particolare, la fascia 25-49 si ridurrà di quasi un terzo entro la metà del secolo.

Ora per il governo cinese, come una sorta di nemesi storica, è l’esito prodotto sulla struttura per età della politica del figlio unico a rappresentare una delle principali minacce alla crescita economica. Ma se può essere efficace una politica che impone di non avere figli, molto più complessa è quella che mira a favorire la scelta libera di averne in più. Si tratta di un tema che diventerà sempre più sensibile nel rapporto tra demografia e democrazia, oltre che tra entrambe e le sfide dello sviluppo sostenibile, nel resto di questo secolo.

Demografia: tre mosse per tornare a crescere

I Paesi nel pianeta con un numero medio di figli per donna inferiore a due (livello di equilibrio tra generazioni) sono già la maggioranza e verso la fine del XXI secolo la fecondità mondiale dovrebbe posizionarsi attorno o sotto tale livello. Questo significa che l’attenzione nei prossimi decenni andrà a spostarsi dalla preoccupazione per l’eccesso della crescita degli abitanti del pianeta, che è stata dominante nel XX secolo, a quella degli squilibri strutturali tra popolazione anziana e popolazione attiva.

L’Africa cresce, l’Europa va incontro alla denatalità
Attualmente ci troviamo in una fase intermedia, con i due estremi rappresentati da Africa ed Europa. Quasi la metà della crescita della popolazione mondiale da oggi al 2050 sarà concentrata in soli otto Stati situati in Africa e in Asia. Nella seconda metà del secolo, l’aumento degli abitanti del pianeta sarà quasi tutto attribuibile alle dinamiche dell’Africa sub-sahariana. Nel frattempo, diventa sempre più largo un altro insieme, quello dei Paesi che hanno un vertice della piramide demografica più ampio rispetto alla base: in particolare con persone di 65 anni e più (uscite dall’età tradizionalmente attiva) in numero più elevato rispetto agli under 15 (persone non ancora in età lavorativa). Nel 1950 la quota di persone di 65 anni e oltre era di circa uno su venti, mentre l’incidenza degli under 15 sul totale della popolazione era superiore a uno su tre. Le Nazioni Unite prevedono che alla fine di questo secolo i primi si troveranno moltiplicati per quattro mentre i secondi si troveranno dimezzati. L’Europa è il continente che ha visto maggiormente crescere il rapporto tra tali due fasce d’età e l’Italia il primo Paese, già a fine XX secolo, a portarlo oltre il 100% (attualmente è sopra il 170% contro il 133% in Europa).

La popolazione dell’Unione Europea ha di fatto smesso di crescere. Attualmente assestata poco sotto i 450 milioni, inizierà a diminuire – anche tenendo conto dei flussi migratori – già nel corso di questa decade (proiezioni Europop2019). L’Italia ha anticipato di oltre dieci anni tale declino. Le dinamiche demografiche sono oramai tali che la sfida dei prossimi decenni non può essere più quella di far tornare a crescere la popolazione ma quantomeno cercare di non far allargare troppo gli squilibri strutturali interni. Dopo aver eroso la fascia più bassa la denatalità sta intaccando pesantemente anche le età centrali lavorative. Di conseguenza, con crescente attenzione le economie mature avanzate guardano al rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (il “tasso di dipendenza degli anziani”). Nel 2019 il valore europeo era attorno al 31%, con previsione di superare il 50% prima del 2050 (un rapporto 2:1 di persone in età da lavoro per ogni over 65, era 4:1 ad inizio di questo secolo).

Italia al primo posto per invecchiamento
Nell’economia demografica europea, l’Italia è tra gli Stati membri che più contribuiscono a far lievitare la presenza di anziani e tra quelli che più indeboliscono la presenza delle nuove generazioni e, in prospettiva, della forza lavoro. Il dato italiano del tasso di dipendenza degli anziani risulta il più alto dell’Unione (35% circa). Secondo le stime OCSE il nostro paese è quello che rischia maggiormente a metà di questo secolo di trovarsi con un rapporto 1:1 tra lavoratori effettivi e pensionati.

Va precisato che l’impatto della pandemia di Covid-19 è marginale rispetto al processo di invecchiamento. Nel 2020 i decessi osservati in età anziana sono stati nell’ordine dei centomila in più rispetto alla media degli anni precedenti, un valore in ogni caso molto limitato rispetto all’entità della crescita degli over 65 (che dagli attuali 14 milioni saliranno progressivamente fino a superare i 19 milioni prima della metà del secolo). Nel corso dello stesso 2020, pur così colpito e in modo selettivo verso la popolazione più matura, l’età media della popolazione è lievitata da 45,7 a 46 anni , come dimostrato dall’ISTAT.

L’impatto degli squilibri demografici su economia e sostenibilità della spesa sociale può essere ridotto dalla partecipazione effettiva di chi è in età attiva alla forza lavoro. Ma più si attende e più diventa difficile riequilibrare il rapporto tra forze che alimentano i processi di sviluppo (da cui derivano ricchezza e benessere da redistribuire) e popolazione inattiva.

La demografia ha una sua forte inerzia che, da un lato, la rende particolarmente informativa nel delineare scenari futuri, d’altro lato è, però, implacabile per chi la ignora e non mette per tempo in atto scelte solide e lungimiranti. Se a cinquant’anni una donna non ha avuto un figlio difficilmente potrà ripensarci e recuperare l’esperienza di diventare madre. È molto più facile che essa possa prendere un nuovo diploma, tornare a lavorare o cambiare lavoro. Le stesse condizioni di salute e il trattamento pensionistico dipendono fortemente da scelte e stili di vita in età giovanile. Questo vale anche a livello collettivo. Una popolazione con persistente bassa natalità si troverà con un futuro di accentuato invecchiamento. Ma dato che la natalità passata va a ridurre progressivamente la popolazione in età riproduttiva, diventerà anche sempre più difficile invertire la tendenza per ridurre da oggi in poi gli squilibri prodotti.

La pandemia ha ulteriormente aggravato il quadro. Il numero medio di figli per donna era già sceso nell’ultimo decennio da 1,46 del 2010 a 1,27 del 2019 consolidandosi sui livelli tra i più bassi in Europa. Considerando l’impatto della crisi sanitaria sui concepimenti da marzo 2020 in poi, il punto più basso delle nascite verrà toccato nel 2021. Si stima che a fine anno ne conteremo meno di 400 mila, ovvero circa 550 mila in meno degli attuali 50enni, quasi 350 mila in meno dei 65enni, 100 mila in meno degli 80enni.

La natalità è crollata così in basso – con struttura demografica talmente compromessa – che allinearsi semplicemente alle variazioni medie europee produrrebbe per noi risultati molto più modesti. A parità di figli per donna è più basso il numero di nascite che si ottiene in Italia, perché, appunto, maggiormente in riduzione sono le potenziali madri: le attuali 35enni sono circa 334 mila, oltre 100 mila in meno delle 45enni, ma quasi 50 mila in più rispetto alle 25enni. Quindi più rapidamente si inverte la tendenza e maggiore può essere l’effetto sul totale delle nascite. Al contrario, più si diluisce nel tempo l’impatto delle policy sulla fecondità e più debole sarà l’impulso che si ottiene sulle dinamiche demografiche.

Quali politiche? Come invertire il trend in tre mosse
Questo ci dice che abbiamo bisogno di misure sia incisive che tempestive. Chi ha 30 anni inoltrati deve poter trovare subito incoraggiamento a realizzare scelte che sinora ha rinviato, prima che si trasformino in rinuncia definitiva. Nel frattempo bisogna mettere le attuali 25enni nelle condizioni di non rinviare troppo le loro scelte desiderate, per poter arrivare ad aggiungere un figlio in più anziché accontentarsi di uno in meno. Solo così il tasso di fecondità italiano potrà salire oltre i livelli medi europei e trascinare le nascite verso l’alto (più che compensando la riduzione delle donne in età riproduttiva). Tanto più se il nostro Paese anziché perdere giovani sarà in grado di attrarne, inserendoli nei propri percorsi di crescita e sviluppo.

Se l’Italia è stata sinora tra i Paesi meno virtuosi rispetto alle politiche familiari e di investimento sulle nuove generazioni, dopo l’impatto della pandemia dovrà dimostrare di poter far meglio degli altri. Se non altro perché siamo quelli che hanno maggiormente da perdere se le dinamiche demografiche non cambiano. Dobbiamo però essere consapevoli che le attuali proposte in campo non sono ancora all’altezza di questo impegno. L’obiettivo di convergere con in dieci anni con i valori di Francia, Regno Unito, Svezia (Paesi con sistemi di welfare diversi tra di loro ma con un numero medio di figli per donna mezzo punto sopra il nostro) è possibile solo con un forte salto di qualità su tre fronti con impegni chiari e rilevanti. Il primo è quello di dimezzare l’attuale livello record di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano), arrivato oltre il 30% nella cruciale fascia 25-34 anni. Il secondo è quello di mettere adeguate risorse sull’assegno unico e universale: strumento che sta per essere avviato dal Governo italiano ma che allo stato attuale rischia di prevedere importi modesti per larga parte del ceto medio (componente chiave per politiche familiari che non siano solo di contrasto alla povertà). Il terzo è quello di portare copertura e accessibilità (in termini di qualità e costi) dei servizi per l’infanzia ai livelli delle migliori esperienze europee (con benefici non solo sulle nascite ma anche sull’occupazione femminile). Le risorse indicate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza consentono di avvicinarsi al 33% della domanda potenziale (dal 25% attuale), che però corrisponde al target che l’Europa aveva fissato per il 2010. Può essere inteso come un primo obiettivo per il 2026 (da raggiungere in tutte le regioni), ma come parte di un processo che consenta di arrivare al 50% entro il 2031.

L’impegno, insomma, di limitare gli squilibri demografici corrisponde a dare il meglio di noi in termini di politiche da realizzare e di strumenti per consentire ai cittadini di essere parte attiva di un Paese che torna ad essere vitale e competitivo. Se ci chiediamo se l’Italia sarà in grado di mettere solide basi per una nuova fase di sviluppo dopo la pandemia, la risposta più chiara arriverà dalle dinamiche della natalità dal 2022 in poi. È tale indicatore, del resto, il segnale più sensibile della fiducia che un Paese ha nel proprio futuro.