I Paesi nel pianeta con un numero medio di figli per donna inferiore a due (livello di equilibrio tra generazioni) sono già la maggioranza e verso la fine del XXI secolo la fecondità mondiale dovrebbe posizionarsi attorno o sotto tale livello. Questo significa che l’attenzione nei prossimi decenni andrà a spostarsi dalla preoccupazione per l’eccesso della crescita degli abitanti del pianeta, che è stata dominante nel XX secolo, a quella degli squilibri strutturali tra popolazione anziana e popolazione attiva.
L’Africa cresce, l’Europa va incontro alla denatalità
Attualmente ci troviamo in una fase intermedia, con i due estremi rappresentati da Africa ed Europa. Quasi la metà della crescita della popolazione mondiale da oggi al 2050 sarà concentrata in soli otto Stati situati in Africa e in Asia. Nella seconda metà del secolo, l’aumento degli abitanti del pianeta sarà quasi tutto attribuibile alle dinamiche dell’Africa sub-sahariana. Nel frattempo, diventa sempre più largo un altro insieme, quello dei Paesi che hanno un vertice della piramide demografica più ampio rispetto alla base: in particolare con persone di 65 anni e più (uscite dall’età tradizionalmente attiva) in numero più elevato rispetto agli under 15 (persone non ancora in età lavorativa). Nel 1950 la quota di persone di 65 anni e oltre era di circa uno su venti, mentre l’incidenza degli under 15 sul totale della popolazione era superiore a uno su tre. Le Nazioni Unite prevedono che alla fine di questo secolo i primi si troveranno moltiplicati per quattro mentre i secondi si troveranno dimezzati. L’Europa è il continente che ha visto maggiormente crescere il rapporto tra tali due fasce d’età e l’Italia il primo Paese, già a fine XX secolo, a portarlo oltre il 100% (attualmente è sopra il 170% contro il 133% in Europa).
La popolazione dell’Unione Europea ha di fatto smesso di crescere. Attualmente assestata poco sotto i 450 milioni, inizierà a diminuire – anche tenendo conto dei flussi migratori – già nel corso di questa decade (proiezioni Europop2019). L’Italia ha anticipato di oltre dieci anni tale declino. Le dinamiche demografiche sono oramai tali che la sfida dei prossimi decenni non può essere più quella di far tornare a crescere la popolazione ma quantomeno cercare di non far allargare troppo gli squilibri strutturali interni. Dopo aver eroso la fascia più bassa la denatalità sta intaccando pesantemente anche le età centrali lavorative. Di conseguenza, con crescente attenzione le economie mature avanzate guardano al rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (il “tasso di dipendenza degli anziani”). Nel 2019 il valore europeo era attorno al 31%, con previsione di superare il 50% prima del 2050 (un rapporto 2:1 di persone in età da lavoro per ogni over 65, era 4:1 ad inizio di questo secolo).
Italia al primo posto per invecchiamento
Nell’economia demografica europea, l’Italia è tra gli Stati membri che più contribuiscono a far lievitare la presenza di anziani e tra quelli che più indeboliscono la presenza delle nuove generazioni e, in prospettiva, della forza lavoro. Il dato italiano del tasso di dipendenza degli anziani risulta il più alto dell’Unione (35% circa). Secondo le stime OCSE il nostro paese è quello che rischia maggiormente a metà di questo secolo di trovarsi con un rapporto 1:1 tra lavoratori effettivi e pensionati.
Va precisato che l’impatto della pandemia di Covid-19 è marginale rispetto al processo di invecchiamento. Nel 2020 i decessi osservati in età anziana sono stati nell’ordine dei centomila in più rispetto alla media degli anni precedenti, un valore in ogni caso molto limitato rispetto all’entità della crescita degli over 65 (che dagli attuali 14 milioni saliranno progressivamente fino a superare i 19 milioni prima della metà del secolo). Nel corso dello stesso 2020, pur così colpito e in modo selettivo verso la popolazione più matura, l’età media della popolazione è lievitata da 45,7 a 46 anni , come dimostrato dall’ISTAT.
L’impatto degli squilibri demografici su economia e sostenibilità della spesa sociale può essere ridotto dalla partecipazione effettiva di chi è in età attiva alla forza lavoro. Ma più si attende e più diventa difficile riequilibrare il rapporto tra forze che alimentano i processi di sviluppo (da cui derivano ricchezza e benessere da redistribuire) e popolazione inattiva.
La demografia ha una sua forte inerzia che, da un lato, la rende particolarmente informativa nel delineare scenari futuri, d’altro lato è, però, implacabile per chi la ignora e non mette per tempo in atto scelte solide e lungimiranti. Se a cinquant’anni una donna non ha avuto un figlio difficilmente potrà ripensarci e recuperare l’esperienza di diventare madre. È molto più facile che essa possa prendere un nuovo diploma, tornare a lavorare o cambiare lavoro. Le stesse condizioni di salute e il trattamento pensionistico dipendono fortemente da scelte e stili di vita in età giovanile. Questo vale anche a livello collettivo. Una popolazione con persistente bassa natalità si troverà con un futuro di accentuato invecchiamento. Ma dato che la natalità passata va a ridurre progressivamente la popolazione in età riproduttiva, diventerà anche sempre più difficile invertire la tendenza per ridurre da oggi in poi gli squilibri prodotti.
La pandemia ha ulteriormente aggravato il quadro. Il numero medio di figli per donna era già sceso nell’ultimo decennio da 1,46 del 2010 a 1,27 del 2019 consolidandosi sui livelli tra i più bassi in Europa. Considerando l’impatto della crisi sanitaria sui concepimenti da marzo 2020 in poi, il punto più basso delle nascite verrà toccato nel 2021. Si stima che a fine anno ne conteremo meno di 400 mila, ovvero circa 550 mila in meno degli attuali 50enni, quasi 350 mila in meno dei 65enni, 100 mila in meno degli 80enni.
La natalità è crollata così in basso – con struttura demografica talmente compromessa – che allinearsi semplicemente alle variazioni medie europee produrrebbe per noi risultati molto più modesti. A parità di figli per donna è più basso il numero di nascite che si ottiene in Italia, perché, appunto, maggiormente in riduzione sono le potenziali madri: le attuali 35enni sono circa 334 mila, oltre 100 mila in meno delle 45enni, ma quasi 50 mila in più rispetto alle 25enni. Quindi più rapidamente si inverte la tendenza e maggiore può essere l’effetto sul totale delle nascite. Al contrario, più si diluisce nel tempo l’impatto delle policy sulla fecondità e più debole sarà l’impulso che si ottiene sulle dinamiche demografiche.
Quali politiche? Come invertire il trend in tre mosse
Questo ci dice che abbiamo bisogno di misure sia incisive che tempestive. Chi ha 30 anni inoltrati deve poter trovare subito incoraggiamento a realizzare scelte che sinora ha rinviato, prima che si trasformino in rinuncia definitiva. Nel frattempo bisogna mettere le attuali 25enni nelle condizioni di non rinviare troppo le loro scelte desiderate, per poter arrivare ad aggiungere un figlio in più anziché accontentarsi di uno in meno. Solo così il tasso di fecondità italiano potrà salire oltre i livelli medi europei e trascinare le nascite verso l’alto (più che compensando la riduzione delle donne in età riproduttiva). Tanto più se il nostro Paese anziché perdere giovani sarà in grado di attrarne, inserendoli nei propri percorsi di crescita e sviluppo.
Se l’Italia è stata sinora tra i Paesi meno virtuosi rispetto alle politiche familiari e di investimento sulle nuove generazioni, dopo l’impatto della pandemia dovrà dimostrare di poter far meglio degli altri. Se non altro perché siamo quelli che hanno maggiormente da perdere se le dinamiche demografiche non cambiano. Dobbiamo però essere consapevoli che le attuali proposte in campo non sono ancora all’altezza di questo impegno. L’obiettivo di convergere con in dieci anni con i valori di Francia, Regno Unito, Svezia (Paesi con sistemi di welfare diversi tra di loro ma con un numero medio di figli per donna mezzo punto sopra il nostro) è possibile solo con un forte salto di qualità su tre fronti con impegni chiari e rilevanti. Il primo è quello di dimezzare l’attuale livello record di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano), arrivato oltre il 30% nella cruciale fascia 25-34 anni. Il secondo è quello di mettere adeguate risorse sull’assegno unico e universale: strumento che sta per essere avviato dal Governo italiano ma che allo stato attuale rischia di prevedere importi modesti per larga parte del ceto medio (componente chiave per politiche familiari che non siano solo di contrasto alla povertà). Il terzo è quello di portare copertura e accessibilità (in termini di qualità e costi) dei servizi per l’infanzia ai livelli delle migliori esperienze europee (con benefici non solo sulle nascite ma anche sull’occupazione femminile). Le risorse indicate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza consentono di avvicinarsi al 33% della domanda potenziale (dal 25% attuale), che però corrisponde al target che l’Europa aveva fissato per il 2010. Può essere inteso come un primo obiettivo per il 2026 (da raggiungere in tutte le regioni), ma come parte di un processo che consenta di arrivare al 50% entro il 2031.
L’impegno, insomma, di limitare gli squilibri demografici corrisponde a dare il meglio di noi in termini di politiche da realizzare e di strumenti per consentire ai cittadini di essere parte attiva di un Paese che torna ad essere vitale e competitivo. Se ci chiediamo se l’Italia sarà in grado di mettere solide basi per una nuova fase di sviluppo dopo la pandemia, la risposta più chiara arriverà dalle dinamiche della natalità dal 2022 in poi. È tale indicatore, del resto, il segnale più sensibile della fiducia che un Paese ha nel proprio futuro.