Crollo della forza lavoro e mancanza di politiche efficaci contro il declino

La nostra penisola alla fine del secolo scorso è diventata uno dei paesi con più bassa fecondità al mondo e con maggiore contrapposizione, al proprio interno, tra crescita della fascia anziana e diminuzione di quella più giovane. L’evoluzione in direzione opposta di tali due componenti ha portato la fascia degli under 25 a dimezzarsi nel corso del secondo dopoguerra e ad essere superata, nel 2019, dalla fascia degli over 65.

In questa fase l’interesse del paese è rimasto concentrato sulla popolazione anziana e sulle implicazioni della sua crescita. Mentre il processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione sistematica del peso delle nuove generazioni, non è stato quasi per nulla preso in considerazione non incidendo sulla spesa pubblica. L’impatto della grande recessione del 2008 ha reso, poi, ancor più fragile la condizione delle nuove generazioni e rallentato il loro ingresso solido nel mondo del lavoro. Nel contempo anche le politiche familiari sono rimaste tra le meno sviluppate in Europa.

Da un lato, la denatalità passata, dopo aver ridotto il peso dei giovani è andata successivamente ad erodere sempre più anche la potenziale forza lavoro, d’altro lato le dinamiche più recenti delle nascite hanno mostrato un ulteriore peggioramento scendendo sui livelli più bassi di tutta la storia del paese.

L’Italia, tra la grande recessione del 2008 e la pandemia del 2020, si è trovata quindi ad entrare in un’inedita fase. I due fatti nuovi sono l’inizio di un secolare processo di declino dell’ammontare della popolazione, anticipato rispetto al resto d’Europa, e la contrazione della componente attiva della popolazione, più accentuato rispetto alle altre economie mature avanzate. Detto in altro parole, se nei decenni precedenti il rapporto tra popolazione anziana e popolazione in età attiva era peggiorato per l’esuberante crescita del numeratore, ora a tale peggioramento contribuiva sempre più anche l’indebolimento del denominatore. In particolare, sempre nel 2019, la fascia 30-34 anni risultava essersi ridotta di circa un terzo rispetto ad inizio secolo. A quel punto le implicazioni del processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione della forza lavoro con l’ingresso di nuove generazioni demograficamente sempre più deboli, non potevano più essere ignorate.

L’Italia si è presentata all’appuntamento con la crisi sanitaria del 2020 come uno dei paesi in Europa con meno giovani, meno inseriti nel mondo del lavoro (record di under 35 che non studiano e non lavorano), con età più tardiva di conquista della piena autonomia economica, con maggior riduzione delle donne in età riproduttiva, con più bassa fecondità in generale. Tutti aspetti sui quali l’impatto della crisi causata da Covid-19 ha prodotto un ulteriore peggioramento.

Per il percorso successivo l’Italia ora ha di fronte tre futuri possibili. Nel primo, dopo la discontinuità prodotta dalla pandemia il paese continua a presentare sostanzialmente gli stessi freni e limiti della sua storia precedente. A questo futuro corrisponde un’evoluzione demografica ben rappresentata dallo scenario “basso” delle proiezioni Istat (le ultime disponibili, con base 2018). Il numero medio di figli per donna rimane sotto 1,3, bloccato ai livelli peggiori in Europa. Di conseguenza le nascite vanno ulteriormente a ridursi e il rapporto tra popolazione anziana e giovane-adulta ad aggravarsi, portandosi su livelli incompatibili con qualsiasi prospettiva di sviluppo nella dimensione economica e sociale. In particolare, all’orizzonte del 2050, la popolazione in età da lavoro arriva a perdere oltre 9 milioni di persone a fronte di un aumento di almeno 4,5 milioni di over 65.

Il secondo dei futuri possibili non porta ad esiti finali molto diversi dal primo. E’ quello in cui il paese mette in campo alcune misure a favore delle nuove generazioni e delle famiglie, ma senza portarsi ai livelli delle politiche più avanzate in Europa. Partendo dalle posizioni peggiori nell’Unione – sia in termini di squilibri demografici che di diseguaglianze sociali, oltre che di debito pubblico – senza una forte spinta iniziale l’Italia non riesce a risollevarsi per mettersi a correre e recupere lo svantaggio accumulato. L’evoluzione che ne deriva è un temporaneo rialzo delle nascite nella ripresa post pandemia ma senza che si agganci a un vero e solido processo di inversione di tendenza. In questo caso, nel medio e lungo periodo non si arriva a distinguersi in modo sensibile dal precedente scenario.

Il terzo futuro possibile è invece quello in cui l’Italia adotta misure efficaci a favore dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni (qualsiasi sia il genere, la provenienza territoriale e sociale) e politiche familiari sia allineate al meglio delle migliori esperienze europee (il meglio che si può ottenere dal Family act), sia integrate con le politiche di sviluppo del paese nella nuova fase post pandemia (il meglio che si può ottenere dal Pnrr). Questo consente di riorientare il percorso del paese e fargli cogliere, prima che sia definitivamente troppo tardi, il sentiero stretto di un aumento della fecondità in grado di più che compensare la riduzione della popolazione in età riproduttiva. Solo in questo caso le nascite tornano a salire e, in combinazione con flussi migratori coerenti e integrati con il modello economico e sociale, possono fare davvero la differenza tra un futuro in cui il peso degli squilibri demografici (e del debito) sono sostenibili e uno in cui il destino di scivolamento ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nella parte matura di questo secolo sono irreversibilmente preclusi.

Questo terzo futuro andrebbe a collocarsi tra lo scenario mediano e quello “alto” delle proiezioni Istat al 2050. La popolazione totale continuerebbe a diminuire, ma le dinamiche più positive di nascite e migrazioni porterebbero quantomeno a dimezzare la perdita della popolazione in età lavorativa. Una contrazione quantitativa ricondotta così a livelli tali da poter in buona parte essere compensata da un aumento della partecipazione giovanile e femminile al mercato del lavoro, oltre che da condizioni favorevoli per una lunga vita attiva. L’esperienza di altri paesi europei mostra, del resto, che dove migliora la valorizzazione di tali componenti nel mondo del lavoro, in combinazione con ben mirate e calibrate politiche abitative e familiari, si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita migliorando le proprie condizioni di benessere e diventando parte attiva di processi di sviluppo sostenibile.

Cari italiani del 2050, voi certo ben sapete in quale di questi tre possibili futuri vi trovate. Ma presto lo scopriremo anche noi, perché a rivelarlo sarà l’andamento delle nascite nei prossimi anni. Se la ripresa sarà timida e breve il paese non avrà più la possibilità di contrastare gli squilibri che lo portano verso lo scenario “basso”, rendendo sempre più difficile tenere il passo con le condizioni di sviluppo del resto d’Europa. Purtroppo voi non potete tornare indietro nel tempo e venire ad avvisarci, ma i dati demografici qualche indicazione potrebbero darla a chi oggi sa e vuole ascoltare.

La maturazione politica di una generazione

E’ arrivata la generazione che salverà il mondo e nel caso non riesca a farlo ha ben chiaro a chi dare la colpa. Era annunciata da vari anni da segnali crescenti e sempre più forti. Ma l’evento Youth4Cimate che si è tenuto a fine settembre a Milano l’ha di fatto chiarito in modo definitivo. “We are unstoppable” ha affermato in modo deciso Greta Thumberg, che nel contrasto tra la sua fisicità e i toni dei suoi discorsi rappresenta perfettamente la Generazione Zeta, che dalla sua parte non ha la forza ma è fortemente convinta di aver ragione. Viene accolta dalle istituzioni quasi come fosse il capo di stato di una nazione di giovani che non ha confini ma che non vuole essere solo virtuale: sa scendere in strada e prendersi le piazze per dare concretezza al cambiamento. Da un lato le istituzioni del “mondo del bla bla bla” e dall’altro la “nazione del futuro adesso”. Mario Draghi dopo averla incontrata al Pre-Cop26 di Milano ha affermato ai giornalisti che “con Greta e andata benissimo”. E’ curioso vedere i grandi della terra, dopo essere stati ammoniti in modo sferzante, affrettarsi a dire che condividono l’accusa che ad essi viene rivolta. Di fondo c’è una sincera condivisione del fatto che, come afferma il premier italiano, si tratta della “generazione più minacciata dai cambiamenti climatici” e quindi ha ragione “a chiedere una responsabilizzazione, a chiedere un cambiamento”. Pochi giorni dopo papa Francesco, nel suo saluto ai giovani economisti riuniti a Perugia ha affermato: “Voi siete forse l’ultima generazione che ci può salvare, non esagero”

Gli Zeta (gli “unstoppables”), a differenza degli Xers e dei Millennials, stanno diventando una generazione “politica”. Come mette in luce un’ ampia letteratura sociologica che parte da Ortega y Gasset e Mannheim, ogni nuova generazione è chiamata a reinventare il mondo a partire dal sistema di vincoli e opportunità in cui viene posta nel contesto storico in cui vive. Molte subiscono i mutamenti del proprio tempo altre lasciano la propria impronta. La differenza la fa il giungere, come scrive Fogt, “in modo simile e consapevole a prendere posizione nei confronti delle idee e dei valori dell’ordinamento politico nel quale sono cresciuti”.

E’ da tempo che non si osservata una generazione che in modo così chiaro manifesta l’urgenza di agire, cercando nel contempo di maturare una propria visione di come il mondo va cambiato e con quali strumenti produrre il cambiamento. Prima degli Zeta lo sono stati i Boomers, una generazione che ha avuto successo nel farsi classe dirigente, molto meno nel migliorare le condizioni di chi veniva dopo.

La questione che i giovani oggi pongono al centro è ineludibile. E’ sentita dai coetanei di Greta come propria pur trovando riconoscimento trasversale. Va anche oltre il tema ambientale in senso stretto. In primo luogo perché aiuta ad adottare un approccio che consente di far uscire il futuro dalla sfera dell’inquietudine generica per collocarlo entro un orizzonte di scenari possibili dipendenti dai comportamenti di oggi. O, ancor più, a porre il domani desiderato come guida delle decisioni da prendere oggi. La spada di Damocle del futuro incerto e minaccioso che pende sulla testa dei giovani viene metaforicamente afferrata dalla generazione politica e brandita per reclamare diritti, spazi e opportunità per contare ora.

In secondo luogo perché lo stesso impegno per il futuro del pianeta consente di sperimentare modalità di partecipazione e di protagonismo non solo congeniali con le proprie competenze e predisposizioni ma anche pragmaticamente efficaci rispetto agli obiettivi e alla necessità di guadagnare visibilità e attenzione da un pubblico più vasto.

A differenza dei Boomers il punto di partenza non è l’adesione ad un’ideologia, ma l’esperienza concreta su un tema specifico di interesse e valore comune che consente di sentirsi parte di un cambiamento possibile grazie a un proprio contributo riconoscibile. Questa esperienza incentiva poi a informarsi meglio e a impegnarsi ancora di più, sviluppando progressivamente una visione del proprio ruolo come generazione “politica” che ingloba coerentemente il tema dell’ambiente all’interno di una riflessione più ampia sulla costruzione di un modello di sviluppo inclusivo e sostenibile.

Nessuno fermi la generazione Greta, ma teniamo ben presente che rimane responsabilità di tutti la direzione da dare al futuro comune.

Demografia: Occidente a prova di qualità

La demografia ha avuto un ruolo rilevante nella lunga fase storica in cui l’Occidente ha allargato le basi del proprio benessere economico e la sua sfera di influenza culturale e geopolitica nel mondo. La combinazione tra rivoluzione scientifica, rivoluzione industriale e transizione demografica, ha progressivamente cambiato in tutto il Pianeta le coordinate di riferimento (non necessariamente i comportamenti) del modo di vivere, di stare in relazione, di produrre ricchezza, di formare aspettative e orientare le proprie scelte individuali e di contribuire a quelle collettive. Oggi si può essere terrapiattisti o si può vivere in una comunità che cerca di imporre regole restrittive sulle scelte femminili, ma non c’è dubbio che tali due prospettive si collocano all’interno di un sistema generale di coordinate di lettura della realtà che ha come riferimento un Pianeta di forma tonda e la parità di genere.

Elezioni, ripartire dal basso

Dopo la discontinuità prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale si aprì in Italia, come ben noto, la fase di “Ricostruzione”. Se non si sentì la necessità di chiamarla “Nuova costruzione” fu anche perché la discontinuità risultava sancita in modo evidente da profondi mutamenti dell’assetto istituzionale. Con il referendum del 2 giugno 1946 (che vide, tra l’altro, per la prima volta la partecipazione femminile) si passò a una nuova forma di Governo, con conseguente cambiamento del nome dello Stato italiano (da “Regno d’Italia” a “Repubblica italiana”) e la stesura di una nuova carta costituzionale.

Il Covid-19 non ha fatto crollare gli edifici ma ci impone (o offre l’occasione) di costruire un nuovo modello sociale, un nuovo modo di stare in relazione, una nuova organizzazione all’interno del contesto lavorativo, anche un nuovo rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. La fase dell’Italia post pandemica è auspicata avere spirito e modalità analoghi, pur con tutte le differenze, a quelli della Ricostruzione che pose anche le basi del miracolo economico. Gli stanziamenti messi a disposizione per finanziare un nuovo inizio per il nostro paese, in particolare quelli di Next Generation Eu, trovano un precedente simile solo nel piano Marshall avviato nel 1946. Quello di cui l’Italia di oggi non potrà giovarsi è allora proprio l’impulso non solo simbolico, dato dal rinnovo delle basi democratiche del paese.

Il momento partecipativo democratico più importante della fase post emergenza sanitaria è rappresentato dalle elezioni amministrative che si terranno il prossimo 3 ottobre. Le prime di una Italia pienamente proiettata nel progettare il dopo. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che indica come verranno investite le risorse di questo nuovo piano Marshall, è il frutto di decisioni prese dall’alto. La prima scelta democratica che indirizza lo scenario post-pandemico è quindi, di fatto, proprio quella del rinnovo delle amministrazioni di 1.160 comuni (oltre che di alcune Regioni) e che coinvolge oltre 12 milioni di cittadini.

Il valore di tali elezioni – non solo sul piano simbolico – sarebbe stato ancor maggiore se si fosse colta l’occasione di estendere il voto locale ai sedicenni, compresi i figli degli immigrati (con possibilità di accesso alla cittadinanza prima dei 18 anni attraverso lo ius culturae). Purtroppo nessuna di tali due riforme a costo zero è stata (ancora) attuata.

Rimane in ogni caso vero che gran parte di come verrà organizzata, interpretata, vissuta la nuova normalità, dipenderà dalle soluzioni e dalle innovazioni che troveranno successo sul territorio. Detto in altre parole, il successo dell’avvio di una nuova fase del paese dipenderà da come il Pnrr e le risorse disponibili sapranno rendersi funzionali e coerenti con le migliori pratiche ed esperienze espresse nelle città, nei quartieri, nelle realtà locali.

E’ a partire da questa convinzione che si è sviluppato il confronto organizzato lo scorso sabato 18 settembre dall’associazione “Mappa celeste – Forum per il futuro” (www.mappaceleste.it). Da oramai tre anni Mappa celeste organizza eventi – metaforicamente collocati nei passaggi di stagione – con l’obiettivo di mettere in rete e far emergere ciò che dal basso funziona, è sostenibile e crea valore nell’aprirsi positivamente verso il futuro e in coerenza con i grandi cambiamenti del nostro tempo. Il tema messo al centro in questa occasione è stato quello del rapporto tra politica e prossimità.

La serata si è aperta con un intervento di Ezio Manzini, autore del recente libro «Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti» e si è chiusa con Cristina Tajani, che ha appena pubblicato «Città prossime. Dal quartiere al mondo: Milano e le metropoli globali». Tra tali due interventi si è svolto il racconto di candidati – soprattutto giovani e donne – che hanno deciso di mettersi a disposizione, nel modo più stretto con il territorio (nei municipi delle grandi città e nei piccoli comuni), per aiutare a dar spinta e direzione dal basso ad un nuovo percorso del paese. Al di là dei candidati sindaco, su cui si concentra ossessivamente la campagna elettorale, è soprattutto da un impegno come il loro che il territorio può sperimentare nuove forme di protagonismo positivo attraverso processi che mettano in relazione le persone per creare valore condiviso.

Se la pandemia ci ha imposto il distanziamento, è proprio da un nuovo significato e una nuova funzione da dare alla prossimità che ora dobbiamo ripartire.

L’assegno unico universale non sarà risolutivo, ma può essere un inizio

All’interno del quadro europeo l’Italia è stata a lungo uno dei paesi che maggiormente hanno sofferto di un insieme debole, frammentato e disomogeneo di politiche familiari e a sostegno delle nuove generazioni. La conseguenza è stata una maggiore crescita degli squilibri demografici, un’accentuazione delle diseguaglianze sociali, oltre che generazionali e di genere. Una delle principali novità su questo fronte è l’Assegno unico e universale (AUU), istituito con l’obiettivo di “favorire la natalità, di sostenere la genitorialità e di promuovere l’occupazione, in particolare femminile”. A tale misura il portale dei demografi italiani (Neodemos.info) ha dedicato un ebook – appena pubblicato e liberamente accessibile – che ne presenta caratteristiche, potenzialità e limiti, anche in modo comparativo con misure analoghe adottate in altri paesi (Portogallo, Spagna, Francia, Regno Unito, Svezia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Russia). Nello stesso volume viene sottolineato come l’AUU non sia la bacchetta magica in grado di riallineare l’Italia ai percorsi più virtuosi in Europa, ma possa costituire il punto di partenza di un processo che va in tale direzione.