Solo se le mamme lavorano si va oltre il figlio unico

Rendere più complicato il lavoro delle donne con figli non è un buon affare. Porta a ricadute negative su indicatori chiave del benessere a livello personale e familiare, oltre che su indicatori strategici per la crescita economica e la sostenibilità sociale. Può un’Italia che invecchia, con una forza lavoro entrata in una fase di continua riduzione, permettersi di non valorizzare in modo pieno il capitale umano femminile? Può un’Italia che presenta una delle peggiori combinazioni in Europa di denatalità e povertà infantile, non favorire la possibilità di doppio stipendio per le coppie con figli?

Il paese non migliora con le rinunce delle donne, ma dando forza alle loro scelte messe nelle condizioni di generare valore personale e sociale. Nessuna nuova fase di sviluppo è possibile nel post pandemia se non si superano i vincoli che hanno caratterizzato il percorso precedente e che la crisi sanitaria stessa ha inasprito, comprimendo ulteriormente le scelte femminili.

Uno dei principali nodi da sciogliere riguarda la conciliazione del lavoro con le responsabilità familiari, che deve avere come asse portante il ruolo dei servizi per l’infanzia. Il vero salto di qualità è rendere l’accesso al nido un diritto per ogni nuovo nato. Su una donna che lavora (o cerca lavoro) e desidera un figlio, non deve pesare l’incertezza di non sapere se poi riuscirà a trovare posto in un nido.

Servono, inoltre, misure in grado di rivolgersi allo stesso modo a madri e padri, con specifici incentivi ad essere utilizzate sul versante maschile. La condivisione non deve essere un ulteriore carico sulle donne, per la necessità di negoziare continuamente il contributo di mariti e compagni. Le politiche efficienti devono essere trasformative rispetto alla capacità di incidere direttamente sui comportamenti dei padri.

Va poi considerato che le esigenze di conciliazione, ancor più nel nostro paese, si devono confrontare con la crescente domanda di cura e assistenza verso i genitori anziani. Anche su questo versante è necessario un potenziamento dei servizi, soprattutto di tipo domiciliare, in modo integrato e con competenze adeguate. Dove il sistema di servizi funziona in modo efficace la solidarietà familiare non si riduce ma si rafforza, perché può essere gestita e vissuta senza sovraccarichi che producono tensioni e frustrazioni.

Finora il nostro paese ha cercato di reggere in difesa attraverso le rinunce delle donne. Questo ci ha resi sempre più poveri e squilibrati. Costruire un’infrastruttura sociale che consenta una promozione piena delle scelte femminili è l’unico modo per spostare il paese in attacco. E’, quindi, l’investimento più solido che possiamo fare.

Ultima chiamata per evitare la trappola demografica

Le dinamiche demografiche nel decennio scorso sono risultate peggiori del previsto. In particolare, più di quanto ci si poteva attendere, è diminuita la fecondità sotto i 35 anni; l’andamento delle nascite da coppie straniere ha invertito la tendenza (passando da circa 80 mila nel 2012 a circa 63 mila nel 2019); si è ulteriormente consolidata la relazione tra rischio di povertà e numero di figli.

Si è poi aggiunto l’imprevisto della crisi sanitaria che ha ulteriormente inasprito le dinamiche negative già in corso. Eloquenti in questo senso sono i dati appena pubblicati del Secondo Rapporto del Gruppo di esperti “Demografia e Covid-19”, istituito dalla Ministra per le pari opportunità e la famiglia, dal titolo “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”. I dati derivanti da indagini condotte durante il lockdown e a distanza di un anno, mostrano come l’impatto sia stato forte in tutta Europa ma a sospendere i propri piani di formazione di una famiglia siano risultati in misura maggiore i giovani italiani.

Italia senza figli. Nascite in picchiata.

Possiamo dividere la crisi demografica italiana, una delle più durature e accentuate al mondo, in tre diverse fasi. La prima si colloca temporalmente tra metà degli anni Settanta e metà degli anni Novanta, periodo nel quale la fecondità da livelli superiori alla media europea è scesa a valori tra i più bassi di tutto il pianeta. L’Italia arriva più tardi rispetto al resto dell’Europa occidentale a portare il numero medio di figli sotto la soglia dei due figli per donna, ma quando scende lo fa in modo drastico. Il dato scende definitivamente sotto 1,5 nel 1984 e prosegue al ribasso fin sotto 1,2 nel 1995. In questa fase il nostro paese passa da un numero totale di nascite di quantità analoga alla Francia, oltre 750 mila, a meno di 550 mila. Tanto per farsi un’idea delle ricadute sulla popolazione di tali dinamiche, mentre gli over 40 dei due paesi hanno sostanzialmente la stessa dimensione demografica, in Italia la fascia 20-39 conta oltre 2,5 milioni in meno rispetto ai coetanei d’oltralpe. Dati che ben evidenziano il processo di “degiovanimento” italiano determinato dalla persistente denatalità.

Meno nati, meno attivi?

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per assistenza sanitaria e pensioni. I dati ci dicono che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni nella popolazione mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019).

Smartworking: da ripiego a risorsa

La pandemia ci ha collocati in una condizione di tempo sospeso. Molte cose che si potevano fare prima non sono più possibili. Molte altre che vorremmo, invece, organizzare in modo diverso non sono ancora pienamente praticabili. Già, però, prima dell’emergenza sanitaria si discuteva del fatto che l’entrata nel nuovo millennio ci collocava tra un “non più” da lasciare nel Novecento e un “non ancora” coerente con le trasformazioni in atto ma non facile da riconoscere, far emergere nel modo migliore e consolidarsi.