Lo squilibrio demografico diventa cronico. A mitigarne gli effetti è la qualità dei servizi

L’Italia non è più quella di una volta. Non lo è più perché dal 2014 la popolazione è entrata in una fase di progressiva riduzione. Non lo è più perché dall’inizio di questo decennio gli anziani (65enni e più) hanno definitivamente superato i giovani (under 25). Non lo è più perché, oltre al declino demografico e all’invecchiamento, ha preso avvio, con effetti che diventeranno sempre più evidenti nei prossimi anni, un processo di indebolimento della popolazione in età attiva.

Contro gli squilibri demografici serve la qualità del nuovo lavoro

Alla base del mondo che cambia c’è il rinnovo generazionale. I meccanismi e le modalità di tale rinnovo hanno però, ancor più, ricadute cruciali sulla capacità di produrre benessere e sviluppo nelle società mature avanzate.

Per lunga parte della storia dell’umanità l’avvicendarsi delle generazioni è avvenuto in modo del tutto naturale ma anche molto dispersivo, con elevati rischi di morte compensati da un’elevata fecondità. Se nel passato la questione del ricambio generazionale non era esplicitamente posta, ancor meno lo è stata nella fase centrale della transizione demografica. In tale fase, la riduzione della mortalità precoce, in combinazione con numero di figli ancora superiore a due, ha anzi rafforzato la presenza delle nuove generazioni sia nella società che nell’economia.

Solo verso la fine degli anni Settanta la fecondità italiana è scesa sotto la soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli. E’ precipitata poi sotto 1,5 verso la metà degli anni Ottanta. Questo significa che il rinnovo generazionale debole è un fenomeno molto recente, che inizia a fare sentire i suoi effetti quando le generazioni nate dalla fine degli anni Ottanta in poi fanno il loro ingresso nella vita adulta. Ciò è avvenuto in concomitanza con profondi cambiamenti qualitativi che hanno complicato l’entrata stabile nel mercato del lavoro, da un lato, e con l’impatto negativo della Grande recessione, dall’altro. Le difficoltà specifiche incontrate nella transizione scuola-lavoro e di conciliazione tra vita e lavoro, trovano riscontro nel fatto che poco prima dell’impatto di una nuova crisi, causata dalla pandemia di Covid-19, il nostro paese si trovava a presentare livelli tra i più alti in Europa di Neet (under 35 che non studiano e non lavorano) e più bassi di occupazione femminile. Con conseguenti freni anche all’autonomia giovanile, alla formazione di nuove unioni, alla natalità.

Negli anni Dieci di questo secolo il centro della vita attiva del paese era ancora solidamente presidiato, in ogni caso, dalle generazioni demograficamente consistente dei primi tre decenni del secondo dopoguerra. Le ricadute maggiori del rinnovo generazionale debole nel mondo del lavoro sono, quindi, destinate a farsi sentire soprattutto nei prossimi decenni. Per farsene un’idea proviamo a confrontare il percorso di due diverse coorti: chi oggi ha 57 anni e chi ne ha 27. La prima generazione, nata nel 1965 quanto la natalità era ancora elevata, conta quasi un milione di persone. Ha svolto la parte centrale della sua vita attiva con un tasso di dipendenza degli anziani – indicatore che misura gli squilibri strutturali nel rapporto tra generazioni in età lavorativa e in età da pensione – inferiore al 35 percento.

La consistenza demografica di chi ha 27 anni, ovvero i nati nel 1995, è drasticamente più bassa, sotto le 600 mila unità. Tale coorte avrà 37 anni nel 2032, 47 anni nel 2042, 57 nel 2052. Vivrà la fase centrale della sua vita attiva in un paese in cui il tasso di dipendenza degli anziani in tali tre punti temporali salirà (secondo lo scenario mediano Istat) al 47%, poi al 62%, e infine al 66%.

Per arricchire il quadro va notato che mentre tutte le età nella fascia matura e anziana hanno sinora avuto una consistenza numerica inferiore rispetto a chi era in età lavorativa, questo requisito di stabilità strutturale verrà perso. Tanto per fare un esempio, gli attuali 77enni sono circa 500 mila e nessuna età tra i 15 e i 64 anni presenta valori inferiori. Nel 2042 saliranno però oltre 820 mila diventando dominanti su tutte le età sotto i 65 anni. Nel 2052 i 77 anni saranno addirittura, in assoluto, l’età più popolosa del Paese.

Questo significa che chi ha meno di 35 anni oggi farà l’inedita e complicata esperienza di vedere evolvere la propria vita lavorativa e professionale in un paese in cui le età con peso demografico più rilevante si troveranno nella fascia anziana. Avrà il compito di far crescere dal punto di vista economico e rendere sostenibile come spesa sociale, un paese con alto debito pubblico e accentuati squilibri strutturali, dovendo anche pensare al proprio futuro previdenziale.

Potrà giocarsi la possibilità di riuscirci solo se il sistema Italia saprà rispondere all’indebolimento del rinnovo generazionale nel mercato del lavoro – anche sulla spinta delle riforme previste nel PNRR – con un effettivo potenziamento qualitativo dei percorsi professionali (maschili e femminili) a partire dalla età più giovani e lungo tutto il corso di vita.

Esigua, fragile, demotivata. Una generazione fantasma si aggira per l’Italia

Il rapporto tra giovani e mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Alto è il rischio, in particolare, che la generazione Zeta, la prima a svolgere tutta la propria vita in questo secolo e la prima a proiettare tutta la propria carriera lavorativa nel post pandemia, diventi una ghosting generation.

L’Italia, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ha concentrato la sua attenzione sulla necessità di dare una infrastruttura al paese che, da un lato, superi i limiti del passato e, dall’altro, sia coerente con le sfide del futuro legate alla transizione verde e digitale. Tutto questo, però, non può essere realizzato come un vestito con modello, foggia e materiale pensati per il cambio di stagione ma senza aver preso misure, caratteristiche e preferenze di chi dovrà indossarlo. Misure, caratteristiche e preferenze delle nuove generazioni corrispondono a tre ordini di fattori sottovalutati nel recente passato, ma destinati ora a pesare in modo combinato sulla possibilità di rilancio del paese con il rischio di vincolarla al ribasso.

Il primo è quello che ha cause più strutturali e radicate nei processi di medio-lungo periodo. Ci siamo preoccupati negli ultimi decenni dell’invecchiamento, ovvero del continuo aumento della popolazione anziana, ma molta meno attenzione abbiamo dato alla progressiva e accentata riduzione della consistenza quantitativa delle nuove generazioni. I dati Eurostat più recenti evidenziano come l’Italia sia lo stato membro con percentuale più bassa di under 30: 28,3% contro valori superiori al 33% in gran parte d’Europa.

Il riscontro dell’essere il paese che sta affrontando la più drastica riduzione del potenziale di forza lavoro in modo del tutto inedito rispetto al passato, lo si può ottenere dal confronto tra la fascia di età 30-34 e la fascia 50-54. In Italia la prima risulta ridotta del 33% rispetto alla seconda, mentre il divario è più contenuto in Francia (meno del 10 percento) e in Germania (meno del 15 percento). Insomma, la generazione che si sta immettendo all’interno dei processi produttivi nel nostro paese è un terzo in meno rispetto a chi ha occupato sinora la parte centrale della forza lavoro. Nessun altro paese in Europa sta sperimentando un crollo di questa entità. Come ci siamo preparati sinora?

Questo processo di “degiovanimento”, finora trascurato, va considerata una delle sfide principali di tutto il paese, rispetto alla quale le nuove generazioni non vanno considerate il problema ma aiutate a diventare la soluzione. Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.

Finora il nostro paese si è però rivelato tra quelli in Europa con politiche meno efficaci su questo fronte. E qui sta il secondo ordine di fattori che nel dopo pandemia si stanno ulteriormente complicando. E’ ben noto il fatto che il nostro paese da troppo tempo detiene il record in Europa di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le cause vanno attribuite a limiti e inefficienze in tutto il percorso di transizione scuola-lavoro. La risposta non sta, però, solo nel rafforzamento dei centri per l’impiego. Come molte ricerche sul tema evidenziano, a monte c’è anche un deficit di formazione e di competenze di molti ragazzi che escono dal sistema dell’istruzione. Oltre alla preparazione culturale e tecnica, a fare la differenza tra chi rischia di trovarsi intrappolato nella condizione di Neet e chi, invece, trova la propria strada, è la debolezza delle soft skill (o delle life skill più in generale).

Proprio su questo tipo di competenze si registra il maggior peggioramento dopo l’impatto pandemico. I dati del Rapporto giovani 2022 dell’Istituto Toniolo, appena pubblicato, evidenziano come nel suo complesso la crisi sanitaria sia stata vissuta dai giovani come una grande esperienza collettiva negativa, che ha eroso in modo marcato le risorse positive interne e le competenze sociali in tutte le dimensioni. A diminuire è in particolare chi afferma di avere (“molto” o “moltissimo”) una “Idea positiva di sé” (scesi nei due anni di pandemia da 53,3% del 2020 a 45,9% nel 2022) ma anche chi ha “Motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni” (passati da 64,5 a 57,4%) e chi sa “Perseguire un obiettivo” (da 67,0 a 60,0%).

Il peggioramento è ancora maggiore per chi vive in contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza. Da un lato questi giovani hanno bisogno di rispondere all’esperienza collettiva negativa mettendosi alla prova con esperienze concrete personali positive. D’altro lato proprio l’erosione delle life skill li rende ancor più fragili rispetto alla capacità di ingaggio e impegno nella partecipazione sociale e lavorativa.

Se, quindi, già prima della pandemia molti giovani si trovavano fuori dal radar delle politiche di attivazione, oggi il non farsi rintracciare rischia per molti di diventare intenzionale. A prevalere sembra essere il bisogno di ritagliarsi un tempo di ritrovata normalità del presente senza restrizioni e complicazioni, ma rischiano di aumentare disorientamento e vulnerabilità se non vengono aiutati a ridefinire le coordinate in cui ritrovare una propria progettualità. Il rischio è che la Zeta diventi una “ghosting generation”, demograficamente leggera e con i singoli membri portati a sottrarsi. Giovani connessi ma con deboli segnali di presenza e con bassa propensione a dar spiegazioni del perché chi li cerca non li trova  (non solo nella dimensione affettiva).

Molti si sottraggono anche (in questo caso soprattutto chi ha maggior formazione e più alte aspirazioni) perché lasciano i contesti – territori e organizzazioni – che non forniscono stimoli e valorizzazione all’altezza delle proprie aspettative. E qui si entra nel terzo ordine di fattori. Sempre i dati del Rapporto giovani, in coerenza con altri segnali emergenti, mostrano come la pandemia abbia accelerato anche un cambiamento nel sistema di priorità e indotto a ridefinire lo spazio strategico in cui collocare la propria azione nei processi di sviluppo economico e sociale, quindi anche rispetto a senso e valore da dare al lavoro.

Si tratta di un cambiamento che complica ancor di più i meccanismi, quantitativi e qualitativi, di confronto e incontro tra domanda e offerta. L’esito auspicato è che la debolezza demografica dei nuovi entranti possa favorire una crescente attenzione non solo rispetto a cosa possono portare nelle aziende in termini di competenze tecnologiche ma ancor prima a come riconoscere e valorizzarne le specificità antropologiche. Ciò significa dare più importanza, dal lato dell’offerta, a cosa sono portati a dare e desiderano essere rispetto a ciò che, lato domanda, ci si aspetta debbano conformarsi a fare (troppo spesso, finora, adattandosi al ribasso).

Da come il mondo del lavoro sarà in grado di gestire questo aumento di complessità dipende il destino di una generazione che oggi è al bivio tra essere lasciata diventare una ghosting generation ed essere aiutata a ricoprire un ruolo da protagonista nei processi di cambiamento e sviluppo del paese.

Sulla demografia non si può ragionare con fini elettorali

Quale il ruolo dell’immigrazione nei processi di sviluppo del nostro Paese nei prossimi decenni? Si tratta di una questione cruciale che però la politica italiana considera scomoda e tende sostanzialmente ad eludere. Al di là della gestione dell’emergenza e delle preoccupazioni sulla sicurezza, non si trova traccia nel dibattito pubblico di una riflessione evoluta e strategica su come l’immigrazione possa (o meno) contribuire a rafforzare il futuro dell’Italia.

Stimolare i partiti ad affrontare, prima delle prossime elezioni, il tema dell’immigrazione – collocandolo nella prospettiva delle trasformazioni demografiche del nostro Paese e nella logica dello sviluppo sostenibile – è un compito che ASviS si è data assieme a FuturaNetwork. Una delle prime iniziative è stato il webinar dal titolo «Immigrazione e futuro demografico del Paese» organizzato il 20 giugno scorso, occasione per declinare la questione strategica di partenza in una serie di domande aperte concrete: “In quale misura? Con quali criteri di accoglienza? Con quale capacità di integrazione nel tessuto sociale? In quale contesto legislativo? Insomma, con quale politica di medio e lungo termine, al di là delle frequenti polemiche sull’ultimo barcone che arriva dall’Africa?”.

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La sfida demografica di Delhi

L’India è destinata a guadagnare un ruolo crescente nel quadro mondiale lungo il resto del secolo. Un primato è comunque già certo, con tutte le implicazioni che porta con sé, ed è quello del Paese più popoloso del pianeta. Secondo le stime delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019), tale Stato, che conta attualmente poco meno di 1,4 miliardi di abitanti, è previsto diventare entro il 2030 il primo e unico al mondo a superare il miliardo e mezzo. La Cina, invece, rimarrà sotto tale soglia (si trova attualmente poco sopra 1,4 miliardi ma ha già, di fatto, smesso di crescere).

Africa, Cina, India: trend diversi
Sullo scenario globale, India, Cina, assieme all’Africa nel suo complesso, rappresentano oltre la metà degli abitanti del pianeta. Hanno un ammontare analogo di popolazione, ma con livelli di fecondità molto diversi e che stanno alla base dei diversi ritmi di crescita. Ai due estremi stanno Africa e Cina. Il continente africano presenta i valori riproduttivi più alti del globo, con un numero medio di figli abbondantemente superiore a 4. Il Paese del Dragone, al contrario, è scivolato sulle posizioni più basse al mondo, con un tasso di fecondità precipitato molto sotto 1,5. Ancora diverso il caso del subcontinente indiano che ha recentemente concluso la sua transizione riproduttiva raggiungendo il livello di equilibrio tra generazioni (circa due figli in media per donna).

Come conseguenza delle diverse dinamiche della natalità, l’Africa continuerà a crescere in modo esuberante, la Cina sta già entrando nella fase di declino, mentre l’India andrà progressivamente a rallentare, iniziando però a diminuire solo nella seconda parte del secolo (dopo aver superato abbondantemente 1,6 miliardi).

Queste dinamiche si associano anche ad evoluzioni differenziate sulla struttura per età. L’Africa continuerà ad avere molti giovani (). La Cina ha oramai chiuso la propria finestra demografica positiva (il cosiddetto “dividendo demografico”) rispetto alla crescita economica. La “politica del figlio unico” (introdotta nel 1979) ha rafforzato la consistenza relativa della popolazione in età attiva, quella tra i 20 e i 64 anni, tra la fine del secolo scorso e l’entrata in quello attuale. Stanno, però, entrando al centro della vita lavorativa le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, mentre le abbondanti generazioni nate quando la fecondità era elevata, si vanno spostando in età anziana. Il brusco passaggio da alta a bassa fecondità imposto per legge presenta, quindi, il suo conto, mettendo Pechino di fronte ai costi di squilibri particolarmente accentuati nel rapporto tra generazioni).

Delhi: gigante demografico ma non (ancora) geopolitico
L’India ha, invece, avuto un percorso più graduale di riduzione della fecondità. La spinta del dividendo demografico è quindi più debole e tardiva rispetto alla Cina, ma anche gli squilibri demografici risultano in prospettiva meno gravi. Attualmente la fascia 20-64 presenta valori vicini al 65% in Cina e attorno al 58% in India. A metà del secolo il primo Paese si troverà con una incidenza della popolazione attiva scesa a meno del 55%, mentre il secondo salirà al 61% (raggiungendo il valore di oltre 1 milione di persone in età attiva, Figura 1). Nel frattempo, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, gli over 65 cinesi passeranno da circa il 12 al 26%, mentre quelli indiani da meno del 7 a circa il 14%.

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