Possiamo sintetizzare le sfide che pone la demografia in questo secolo in quattro punti.
1 – Non siamo mai stati così tanti sulla Terra. Il ritmo di crescita è più lento rispetto al secolo scorso, ma si aggiungeranno comunque almeno altri due miliardi di abitanti prima del 2050 rispetto ai circa 7,5 miliardi attuali.
2 – La crescita della popolazione non è mai stata così differenziata sul pianeta. I due estremi sono l’Europa in declino, come non mai prima, e l’Africa in crescita, come non mia in precedenza. Nel processo di “Transizione demografica”, in una prima fase la popolazione aumenta perché la mortalità si riduce, in una seconda fase la crescita rallenta con l’avvio della diminuzione della natalità. Se la contrazione della mortalità può essere favorita dal trasferimento di conoscenze mediche e pratiche sanitarie, la decisione di avere meno figli richiede invece un passaggio culturale che non è automatico e né scontato. Non è solo questione di disponibilità di metodi contraccettivi, richiede prima di tutto un mutamento del ruolo della donna e un passaggio dall’investimento sulla quantità a quello sulla qualità della prole. Cambiamenti, questi ultimi, strettamente interdipendenti con il percorso di sviluppo economico e sociale. Sono 22 i paesi bloccati su una fecondità ancora molto elevata (sopra i 5 figli per donna): due in Asia e ben 20 in Africa, con particolare concentrazione sull’area sub-sahariana.
3 – Non ci sono mai stati così tanti “anziani”. Gli over 60 saranno la componente in maggior crescita in questo secolo, come conseguenza dell’aumento della longevità e della diminuzione delle nascite. A guidare tale processo sono ovviamente i paesi più sviluppati.
4 – Non ci sono mai stati così tanti “stranieri”. La popolazione che vive in un paese diverso da quello di origine è stimata vicina ai 250 milioni.
La mobilità internazionale, soprattutto quella per lavoro, risente della combinazione tra squilibri demografici ed economici (dai paesi con meno possibilità e più giovani, ai paesi più ricchi con più anziani). Instabilità politica, guerre e catastrofi ambientali agiscono invece prevalentemente sugli spostamenti di rifugiati. L’immigrazione è un tema molto caldo, con forte impatto emotivo e con ricadute elettorali. E’ bene allora chiarire alcuni aspetti del fenomeno che aiutano ad affrontarlo con più consapevolezza. In primo luogo, solo una minoranza di chi vive in un paese diverso dal proprio è irregolare e arriva con mezzi di fortuna (come i barconi). Secondo: l’Africa non è attualmente il continente con il maggior numero assoluto di partenze. Terzo: la maggioranza degli spostamenti avviene all’interno dei continenti (dalle aree rurali alle città e, nel caso di rifugiati, verso i paesi confinanti). Quarto: i flussi di uscita dall’Africa non vanno solo verso l’Europa, ma in modo rilevante anche verso i Paesi del Golfo, Asia e Nord America. E’ però vero che il punto più caldo tenderà ad essere sempre di più il Mediterraneo. Quinto: I flussi maggiori non partono dai paesi in assoluto più poveri, ma da quelli con un processo di sviluppo avviato. Serve infatti un certo grado di sviluppo economico e sociale per innescare aspirazioni di miglioramento, disponibilità di risorse e conoscenze necessarie per mettere in atto la scelta di emigrare. Questo significa due cose. La prima è che i flussi maggiori dall’Africa sub-sahariana li vedremo quando in tale area decolleranno le condizioni di sviluppo, che stanno al contempo alla base sia della riduzione della fecondità che della decisione di partire per cercare migliori opportunità altrove. La seconda è che non esistono risposte semplici e che gli slogan proposti dalla politica (sia quello della chiusura delle frontiere che quello dell’aiutiamoli a casa loro) non aiutano né a capire né a risolvere un processo difficile e complesso che richiede azioni a tutti i livelli: vera integrazione nei paesi di arrivo, reale sviluppo nei paesi partenza, efficace concertazione sovranazionale (anche rispetto ai rischi ambientali e alle condizioni di pace e sicurezza).